modalità d'esame

per tutti gli studenti che dovranno sostenere l'esame di
Filosofia del Linguaggio mod.B a.a. 2009/2010


si rende noto che

-Il numero di battute dei propri elaborati dovrà essere compreso tra 14000 e 16000

-Bisognerà postare i propri lavori 14 giorni prima dell'appello scelto per sostenere l'esame

l'indirizzo e-mail a cui chiedere l'autorizzazione per postare è:
foucaultbarthes0910@gmail.com

per non avere problemi con le autorizzazioni si invita gli studenti ad utilizzare un indirizzo gmail per inoltrare le proprie richieste
Gli studenti che hanno usato il proprio account @mondoailati.unical.it per postare su altri blog relativi agli esami di Informatica, sono pregati di creare COMUNQUE un nuovo account

Programma d'esame

cicli: 07 e precedenti
A partire dalla sessione di giugno 2010 il programma d'esame consiste nello studio di:
-M.P. Pozzato, Semiotica del testo, Carocci
-Barthes, Variazioni sulla scrittura-Il piacere del testo, Einaudi
-Foucault, Ordine del discorso
e nella stesura di un elaborato da postare sul blog

giovedì 9 dicembre 2010

Le procedure che controllano il discorso.


Ad occuparsi delle procedure del discorso è stato Paul Michel Foucault nel testo L’ordine del discorso.
Michel Foucault nasce nel 1926 a Poitiers e morì a Parigi nel 1984. I suoi primi interessi si concentrano sulla follia, sulla malattia e come queste si sono costituite come oggetto di scienza (psicopatologia, medicina clinica), analizza i luoghi di internamento in cui si istaura il rapporto tra medico e paziente. Egli segue il percorso che la medicina ha conseguito nel processo di conoscenza del corpo umano, della malattia, della salute e della morte.
Tra le sue opere più famose vi è Storia della follia nell'età classica (1961) e Nascita della clinica (1963).
Foucault ha influenze culturali dalla fenomenologia soprattutto da quella di Merleau-Ponty, dalla psicologia e dalla psicoanalisi sviluppata tra gli altri da Binswanger e l’epistemologia di Canguilmem.
Foucault fu influenzato in seguito dallo strutturalismo senza mai aderirvi totalmente.
Egli inoltre affronta il concetto di episteme delle varie epoche storiche. Per l’autore le varie epoche sono caratterizzate da varie episteme (scienza) in cui operano i saperi e regole inconsce.
Il passaggio da un episteme all’altro non è dettato dal progresso, ma avviene per salti e quindi non risulta spiegabile. Nell'opera Le parole e le cose. Un'archeologia delle scienze umane (1966) l’autore ritiene che il filosofo Kant sia colui che ha realizzato la definitiva chiusura dall’episteme classica e l’emergere di quelle nuove empiricità quali la vita, il lavoro e il linguaggio. Kant compie all’interno della filosofia la cosiddetta rivoluzione copernicana passando da una ragione esterna al soggetto (cosmica per Platone) ad una ragione soggettiva, egli sostituisce quindi all’idea classica già enunciata una dipendenza dell’oggetto al soggetto. La critica kantiana permette di interrogarci sui limiti e il fondamento della rappresentazione, si pone con tale filosofo la questione dei rapporti tra ambito dell’empiricità e il fondamento trascendentale della conoscenza, al quale centro si pone sempre il soggetto che riflette imponendo loro i contenuti e l’esperienza. Come si nota proprio con Kant il soggetto uomo è collocato a fondamento di tutte le positività, diventando partendo proprio dalla sua finitudine, la condizione di possibilità della conoscenza. Kant inaugura la “soglia della modernità” come sostiene Foucault, destinata a restare ancorata all’essere umano, in cui il trascendentale e l’empirico si richiamano e s’invertono.
Foucault sostiene che è possibile pensare “solamente entro il vuoto dell'uomo scomparso” con spazio non intende solo un’unità che va riempita, ma uno spazio nuovo entro cui pensare. Nietzsche è colui che ha annunciato la morte dell’uomo dal momento che Dio e l’uomo si appartengono a vicenda, definendo cosi un punto nuovo di partenza per la filosofia contemporanea.
Il testo L’ordine del discorso già precedentemente citato, rappresenta la lezione inaugurale pronunciata il 2 dicembre del 1970 al Collège de France. Proprio in questo stesso anno Foucault ricevette la nomina di professore di storia dei sistemi di pensiero, la più prestigiosa istituzione culturale francese, diventando cosi un filosofo di capitale importanza nel panorama internazionale.

“Signor amministratore, miei cari colleghi, sono trascorsi quasi due anni da quando Jean Hyppolite aveva reso partecipi molti di noi, per altro pubblicamente, di un progetto rispetto al quale gli avevo dato il mio pieno consenso. Il destino ha voluto che oggi fossi solo, e proprio nell’occasione della sua morte, a riprenderlo, proponendovi di creare una cattedra di Storia dei sistemi di pensiero.” (pag. 51)

Il nucleo originario del collegè nel quale Foucault insegna risale al 1530, ad istituirlo Francesco I su progetto di Guillaume Budè. La nuova istituzione incontrerà l’opposizione della Sorbonne, visto che il collegè avrà l’esplicita funzione di incunearsi nel sistema delle facoltà delle Università di Parigi, rompendo il monopolio della lingua e di una corporazione. L’istituzione del Collegium è dotata poco più di una cinquantina di cattedre, nel momento in cui una cattedra si rende vacante è l’Assemblea dei professori a decidere i candidati tra i quali il ministero dovrà scegliere per mezzo del decreto presidenziale.
Il collegè come sostenuto da P. Valery ad un ufficiale tedesco è il luogo “in cui la parola è libera” e “coraggio e verità” proferita davanti al potere, questo segnerà un avventura straordinaria per Foucault. Egli si è mostrato modesto nel definire il suo lavoro come una serie “di piste di ricerca, di idee, di schemi, di linee generali” messi a disposizione a chi volesse applicarli o metterli alla prova in altre ricerche.
All’ordine del discorso sono stati dedicati dagli esordi a circa tredici anni di ricerca e lavoro che mostrano strumenti e materiali che proiettano in una nuova dimensione della ricerca.
Tra i temi dell’opera vi è quello della volontà di verità, restituire al discorso il carattere d’evento e infine toglier via la sovranità del significante. Nel testo l’autore pone una complessa riflessione sul potere, sulla costituzione del soggetto moderno e della corporeità. Viene ripreso ancora una volta Canguilhem nel dualismo tra normale e a-normale che regola i sistemi di pensiero della società occidentale. Foucault fa riferimento a Nietzeche definito “filosofo del potere”, egli ha il merito di aver mostrato che ogni discorso insita in sé la volontà di potenza. Ed è Nietzsche ad aver indicato nella genealogia il metodo che permette di individuare i modi in cui i discorsi si generano e scompaiono. Foucault sostiene “ogni società ha il suo proprio ordine della verità, la sua politica generale della verità: essa accetta cioè determinati discorsi, che fa funzionare come veri”. Egli mette in evidenza come sapere e potere siano inseparabili: l’esercizio del potere genera nuove forme di sapere e quest’ultimo al contrario porta effetti sul potere. Per potere Foucault non intende quello che emana un sovrano che genera leggi positive, ma un potere che opera tramite meccanismi anonimi in ogni anfratto della società. Il potere come viene presentato dall’autore è un insieme di rapporti di forza, diffusi localmente. Il potere attua selezioni e interdizioni, impedendo cosi il libero proliferare dei discorsi e originando una società disciplinare che trova espressione in istituzioni come il carcere, l’ospedale, l’esercito, la scuola, dove vengono applicate strategie di controllo del corpo, sanzioni ed esami. Il potere ha il compito positivo di produrre nuovi ambiti di sapere e verità.
Tra le procedure in questione la più evidente è l’interdetto. Sappiamo bene di non avere il diritto di dir tutto, che dobbiamo tener conto delle circostanze. Gli interdetti che colpiscono il discorso rivelano il suo legame con il desiderio e con il potere.
La seconda procedura d’esclusione è la follia. L’autore ha analizzato le forme di credulità che circondano i folli fin dai tempi più remoti, il modo in cui vengono rappresentati nel teatro e nelle opere letterarie. Foucault ha cercato di capire nei suoi studi in che modo i folli fossero riconosciuti, esclusi e internati (in base a quali criteri). Egli ha definito entro quale reticolo istituzionale e di pratiche il folle si trovasse imprigionato. La follia rappresenta una separazione tra gli individui, questa esclusione possiede i suoi criteri, i riti e le sue sanzioni. In seguito interviene la medicina per spiegare e giustificare questa separazione. Nel medioevo il folle era colui che non era come gli altri, la sua parola veniva considerata come nulla e senza effetto, a volte ai folli attribuivano poteri particolari, quello di dire una verità nascosta, di predire il futuro. Il discorso del folle era come una sorta di rumore non avendo un nesso con la ragione, la parola gli veniva concessa solo simbolicamente. Oggi questa partizione agisce secondo linee diverse, attraverso nuove istituzioni e con effetti che non sono affatto gli stessi. Proprio sotto questa luce Foucault inizia a profilarsi un nuovo oggetto di sapere investito all’interno di sistemi complesso di istituzione.
Terza procedura è quella del vero contro falso alla quale l’autore si dedica maggiormente. Questa procedura può anche non essere considerata tale perché a differenza delle altre la costrizione della verità non è né arbitraria, né modificabile, né violenta. Ma se spostiamo su la questione di sapere quale è stata, la volontà di verità che ha attraversato la nostra storia, questa partizione regge la nostra volontà di sapere, da questo punto di vista può essere inserita nel sistema d’esclusione. E’ una partizione quindi legata alla storia. Già nei poeti del VI secolo bisognava sottomettersi al discorso vero pronunciato da chi di diritto. Un secolo più tardi la verità si sposta su quello che il discorso diceva. Si deve al periodo tra Esiodo e Platone la spartizione tra vero e falso. E’ come se a partire da questa spartizione la volontà di sapere avesse la propria storia. Come gli altri sistemi d’esclusione anche questo poggia su supporto istituzionale, questo esercita sugli altri discorsi una sorta di pressione e quasi un potere di costrizione.
Foucalt distingue un gruppo di procedure interne ai discorsi stessi che vogliono padroneggiare la dimensione dell’evento.
Primo tra tutti il commento. Nella nostra società esistono discorsi che “si dicono” che passano con l’atto stesso di pronunciarli e discorsi che “sono detti” e che sono all’origine di atti nuovi (testi religiosi, giuridici). Il testo primario consente di costruire discorsi nuovi, il commento ha come ruolo di dire per la prima volta quello che era gia stato detto e ripetere ciò che non è stato detto. Esso consente di dire qualcosa di diverso dal testo stesso, ma deve pur sempre partire da un testo.
L’autore è un altro tra i principi di rarefazione che è complementare al primo. L’autore è considerato come raggruppamento dei discorsi, come fulcro di coerenza. Questo principio non viene adoperato in tutti i campi (ad esempio nelle ricette) ma di regola nella scienza, nella filosofia, nella letteratura. Nel medioevo l’autore era indispensabile in quanto costituiva fonte di verità: “Ma lei sta parlando dell’autore, come la critica lo reinventa a cose fatte, quanto la morte è venuta e non rimane che una massa ingarbugliata di scartafacci; bisogna pur, allora, rimettere un po’ di ordine in tutto questo; immaginare un progetto, una coerenza, una tematica che si chiedono alla coscienza o alla vita di un autore, effettivamente forse un po’ fittizio. Ma questo non impedisce che vi sia ben esistito, quest’autore reale, quest’uomo che ha fatto irruzione tra tutte le parole usate, portando in esse il suo genio o il suo disordine”. (pg 14- 15)
Altro principio di limitazione è la disciplina. Questa si oppone al principio del commento e dell’autore. Si differenzia dall’autore perché la disciplina è un sistema di tecniche e metodi che costituisce una sorte di sistema anonimo, senza che il senso o la validità sia stata legata al possibile inventore. Si differenzia dal commento perché ogni disciplina deve creare nuovi enunciati.
Foucault descrive un terzo gruppo di procedure che consentono di controllare i discorsi e di determinarne le condizioni della nostra messa in opera. Rarefazione che riguarda i soggetti che devono essere qualificati per poter entrare nell’ordine del discorso. Vi sono discorsi che sono aperti e accessibili a tutti e altre regioni che non sono egualmente penetrabili. L’autore riporta un aneddoto quello dello shogun (nel XVII) che avevo sentito dire che la superiorità europea risiedesse nella matematica. Cosi apprese questo sapere grazie ad un marinaio inglese Will Adams che aveva appreso la geometria da autodidatta. Solo nel XIV secolo vi furono matematici giapponesi. Lo scambio e la comunicazione sono figure positive che operano in un sistema complesso, la forma più visibile di restrizione si può raggruppare sotto il nome di rituale, questo definisce il comportamento, i gesti, le circostanze e i segni che devono accompagnare un discorso (es. quelli religiosi, giudiziari e terapeutici non possono essere dissociati a questa utilizzazione di rituale).
Di funzionamento in parte diverso ci sono le “società di discorso” che proteggono i discorsi e li fanno circolare in uno spazio chiuso.
Le dottrine sembrerebbero l’opposto delle “società di discorso”. La dottrina tende a diffondersi e unicamente mettendo in comune un solo insieme di discorsi, lega gli individui tra di loro e differenziarli per questo da tutti gli altri.
Si parla infine di appropriazione sociale dei discorsi. L’educazione è lo strumento con il quale l’individuo in una società può accedere a qualsiasi discorso, ma tenendo presente ciò ch’essa permette e ciò che vieta.
Foucault rintraccia alcune esigenze di metodo. Queste quattro devono servire da principio regolativi alla analisi: quella dell’evento, quella di serie, quella di regolarità, quella di condizioni di possibilità.
Il primo principio è quello di rovesciamento: quelle figure che secondo la tradizione sembrano svolgere un ruolo positivo (autore, disciplina, volontà di verità) bisogna riconoscerne anche il ruolo negativo.
Altro principio è quello di discontinuità: il fatto che ci siano sistemi di rarefazione non vuol dire che sotto di essi possa regnare un discorso illimitato. I discorsi devono essere trattati come pratiche discontinue, si possono incrociare, affiancare e talvolta anche ignorare e escludere.
Il principio di specificità: il mondo non è complice della nostra conoscenza, ma dobbiamo concepire il discorso come una violenza che facciamo alle cose e proprio in questa pratica trovano la propria regolarità.
Quarto principio è l’esteriorità: si deve partire dal discorso stesso per arrivare alle sue condizioni esterne di possibilità.



Alessandra Pellegrino,
Matricola: 114294



sabato 4 dicembre 2010

La follia

La seguente relazione tratterà il tema della follia,un argomento trattato in molti ambiti(arte,letteratura,ecc...).Ad interessarsi a questo argomento fu anche Michelle Foucault il quale nel suo scritto intitolato“L’ordine del discorso”(che è il testo della lezione inaugurale al College de france)ci parla dell’importanza del discorso in quanto espressione della realtà e di come il discorso sia un mezzo per ottenere e/o esercitare il potere;di conseguenza a ciò esso dovrebbe essere nelle corde di chi possiede la ragione.Foucault afferma che, lungi dal divenire erroneo,il discorso può e deve essere pronunciato solo in determinate circostanze e nei termini appropriati, inoltre non deve risultare un enunciato infelice. Perchè questo avvenga,egli, stabilisce delle procedure d’esclusione, queste sono: l’interdetto, la partizione della follia e la volontà di verità. Qui mi occuperò appunto della partizione della follia. Al folle è interdetta la circolazione del discorso e le sue parole sono inefficaci in quanto non contengono nè verità nè importanza.

Nel corso dei millenni il concetto di follia è profondamente cambiato ed anche la sua interpretazione in quanto la definizione definizione della follia è influenzata dal momento storico, dalla cultura, dalle convenzioni , quindi è possibile considerare folle qualcosa o qualcuno che prima era normale, e viceversa; tenendo ben presente che la Il folle sin dalle diverse epoche ha avuto varie attribuzioni, possiamo notare che gli antichi greci avevano due accezioni del concetto di folle: nella prima accezione era una forma di pazzia dovuta all’umana debolezza; nella seconda era considerata di origine divina e consisteva in un entusiasmo o furore ispirato;inoltre nella letteratura classica greca la follia era determinata dalle divinità, per possessione estatica o come punizione per delitti o colpe; nel Medioevo invece la sua figura era vista nelle molteplici controfigure carnevalesche e popolari volta a testimoniare una verità nascosta ed inaccettabile, inoltre la follia era interpretata come il frutto di una possessione di origine magica, astrologica, amorosa o demoniaca. Un'interpretazione completamente opposta si ebbe nel Rinascimento, in questa epoca il folle venne considerato una persona diversa, sia per i valori sia per la sua filosofia di vita, e quindi andava rispettato, lasciato liber. La massia espressione di questa concezione ci viene data da Erasmo da Rotterdam e il suo testo”Elogio della follia”.

Si tratta di un’opera molto originale in cui il tema è affrontato con toni ironici e persuasivi,lo scopo dell’auotore era quello di sostenere che la follia sarebbe la vera dominatrice dell’intera civiltà ma anche dell’esistenza di ciascun uomo, sia egli un ecclesiastico o un laico, un saggio o un ignorante, un potente o un umile. Egli ce la rappresenta come una dea in vesti di donna che sarebbe infatti all’origine di ogni bene sia per l’umanità, sia per gli stessi dèi che riceverebbero al pari dei mortali i suoi doni: “io, io sola sono a tutti prodiga di tutto”. Ugualmente la tenuta dei rapporti sociali, e quindi l’esistenza stessa della società, dipendono dall’ausilio della follia. Ma più di tutto la follia rappresenta l’unica guida per accedere alla vera sapienza: poiché infatti tutte le passioni, tutti gli umani errori e tutte le umane debolezze, rientrano nella sfera della follia, saggio è colui che si lascia guidare dalle passioni.

Qualsiasi cosa dicano di me i mortali - non ignoro, infatti, quanto la Follia sia portata per bocca anche dai più folli - tuttavia, ecco qui la prova decisiva che io, io sola, dico, ho il dono di rallegrare gli Dèi e gli uomini”

Erasmo da Rotterdam.

Durante L’Umanesimo il folle veniva visto attraverso uno sguardo eccentrico e rilevatore cui rivolgersi in cerca di un senso delle cose. Dall’ottocento in poi emerse la visione del folle come “macchina rotta” cioè lesionata nel cervello. Nel novecento lo studio della malattia mentale dell’uomo ha raggiunto il suo massimo splendore e la psichiatria degli ultimi secoli attribuisce la follia ad una macchina non più efficiente, non più integrata nel suo ambiente, non più in grado di dar vita a valori sociali ed economici , si inizia a dare dignità di senso al folle in quanto le sue parole diventano espressione di una sua verità. Tutto ciò che vale per il discorso fisiologico, del soggetto che possiede la ragione, vale a dire provenienza, verità, e contenuti, valgono anche per i discorsi del folle che possiede comunque una sua verità ed un suo contenuto. Anche il folle struttura un suo discorso con delle procedure che pur essendo patologiche, rispondono comunque alla sua logica.

L’autore analizza il discorso attraverso l’uso dello stesso nei tempi passati: Socrate e Platone come discorso “vero” espressione della realtà percepita e discorso “falso” come espressione dell’idea; nel sedicesimo e diciassettesimo secolo discorso come espressione degli eventi naturali e della volontà di sapere; nel diciannovesimo secolo discorso come espressione della sintesi tra esperienza e conoscenza. L’autore riferisce, inoltre, di dovere molto alla filosofia di J. Hyppolite il quale a sua volta aveva attualizzato la teoria filosofica di Hegel affermando che la filosofia era inaccessibile come pensiero totalitario, ma comunque ripetibile, pur nella irregolarità dell’esperienza dando dignità di logica anche alla psicoanalisi, espressione della variabilità dell’individuo.
L’autore nel suo lavoro ”Storia della follia nell’età classica” ha ben evidenziato non tanto le conoscenze mediche intorno al folle come malato, ma le opinioni e le credenze intorno ai folli sia come persone emarginate della società che come personaggi nel teatro o nella letteratura. Ha inoltre messo in evidenza tutta le rete istituzionale intorno alla figura del folle in quanto paziente.

J. Vuillemin analizza il pensiero di Foucault in due relazioni: la prima nel 1969 in vista dell’assegnazione della cattedra di Storia dei Sistemi di Pensiero e la seconda nel 1970, mettendo in evidenza l’importanza di Foucault sia come autore filosofico che come teorico della dignità della follia. La relazione tra L’ordine del discorso e la follia consiste nel fatto che così come il folle nelle sue espressioni segue un proprio filo logico, che è vero in quanto suo, così il discorso del saggio vive di vita propria anche dopo che è stato espresso. Nel tentativo di comprendere tali teorie dobbiamo ricordare che la psichiatria, negli anni in cui scrive Foucault sta cambiando e che ciò porterà in Italia alla legge Basaglia del 1978. La chiusura dei manicomi e la restituzione di dignità di paziente al oggetto psichiatrico farà sì che non si tratterà più di un “folle” ma di un soggetto debole, con una precisa patologia medica. Foucault supera il concetto Cartesiano del “Cogito Ergo Sum” (penso dunque sono) eliminando il soggetto e conservandone i pensieri; ciò sta alla base dell’importanza del discorso come espressione della natura umana e come entità che vive di vita propria.

Oltre “Elogia della follia” di Erasmo da Rotterdam nella letteratura resta memorabile il romanzo della schizofrenia di “Don Chisciotte della Mancia” di Cervantes. La psichiatria è un tema che inoltre in tempi moderni ha influenzato spesso la storia del cinema. La tecnica cinematografica, fatta solo di immagini, riesce bene a rappresentare direttamente molteplici aspetti della psiche umana. Un esempio di film che trattano questi temi sono,Follia” film di David Mackenzie girato in Irlanda nel 2005. Follia non è semplicemente una storia d’amore, è quella di un’ossessione d’amore che dà le vertigini, e ancora, quella di un’ingiustizia sociale: il potere psichiatrico di classificare un individuo e diagnosticare misteriose malattie mentali, rischiando di ridurre il paziente a qualcosa di meno di un essere umano.

Un altro film famoso che tratta del tema della follia e dei manicomi è: “Qualcuno volò sul nido del cuculo” di Milos Forman uscito nel 1975 e tratto dall’omonimo romanzo di Ken Kesey l'autore scrisse il libro in seguito alla propria esperienza da volontario all'interno del «Veterans Administration Hospital». Il film denuncia in maniera drammatica il trattamento inumano cui sono sottoposti i pazienti ospitati nelle strutture ospedaliere statali, verso cui vige un atteggiamento discriminatorio alimentato dalla paura dell'aggressività dell'alienato mentale. Nel film, la pazzia è vista come un "non luogo", come un qualcosa che il protagonista ha dentro di sé e vuole portar fuori, quasi a voler dire che in fondo una certa dose di pazzia è insita in ogni uomo, anche in chi non viene ricoverato in manicomio. Emerge quindi una visione relativista del concetto di follia, tanto che durante il film può nascere il dubbio se nel manicomio i veri malati siano proprio i pazienti, e non gli infermieri e i medici che li curano e che hanno anche loro i propri problemi psicologici, più o meno visibili. Si crea quindi un contesto in cui l'idea di normalità perde notevolmente significato.

Molte volte la pazzia è stata in strettissima relazione con l'arte, quasi l'ha promossa. Nei Ritratti di alienati Géricault conduce, attraverso la pittura, un'indagine scientifica sulla follia. Si tratta di dieci tele raffiguranti dieci malati di mente.Il perchè di questi soggetti è che queste opere furono commissionate da un dottor. psicoanalista, amico di Gericault, di nome Etienne Jean Georgette, che era uno studioso di malattie mentali che voleva pubblicare un libro su questo argomento e i ritratti di Gericault gli sarebbero serviti come illustrazioni.

Gli alienati è una denuncia contro l'emarginazione dei malati mentali contro la quale si battevano anche alcuni scienziati che per primi considerano questi malati come esseri umani bisognosi di cure.
Gli "alienati" sono visti come personaggi misteriosi, che incuriosiscono, colpiscono per le facce e le espressioni intense, così caratteristiche e molto particolari, ma allo stesso tempo, profondamente umane.

Per concludere nella postfazione dell’ “Ordine del discorso” di Michel Foucault fatta da Mauro Bertoni si mette in evidenza come Foucault conferisca al discorso importanza in quanto ente a se stante indipendente dal soggetto che lo proferisce.Inoltre Bertoni mette in evidenza come Foucault riesca a mettere in relazione la filosofia classica con quella moderna utilizzando come escamotage proprio la figura del folle nel tempo e attualizzandone l’importanza: il folle per eccellenza è colui che esprime un discorso apparentemente privo di logica e di verità, ma che vive di vita propria essendo pensiero puro, distaccato dall’uomo in quanto egli, in questo caso, è un soggetto “malato”.

Denise Di Matteo

Matric. 114410

Ciclo 07 FSCC

martedì 23 novembre 2010

VERO O FALSO?


La volontà di verità come sistema storico e modificabile trattato ne “L’ordine del discorso” di M. Foucault.

“L’ordine del discorso” è il testo della lezione inaugurale che Foucault pronunciò al Collège de France il 2 dicembre 1970. In questa sua prima lezione egli presenta i temi principali e i metodi della sua ricerca.

In queste pagine tratterò il tema della volontà di verità introdotto da Foucault sottolineando il suo carattere storico, relativo e modificabile attraverso i secoli.

Innanzitutto vediamo in quale ambito di analisi l’autore analizza il concetto di volontà di verità. L’autore nota come in ogni società la produzione del discorso sia controllata, organizzata e selezionata tramite delle procedure che ne limitano i poteri e i pericoli. Infatti egli avverte l’inquietudine generale nei confronti della parola scritta o parlata, l’importanza attribuita alla possibilità di padroneggiare gli eventi discorsivi in una società. Il discorso non è solamente strumento di lotta (politica, sociale ecc.), ma è anche e soprattutto ciò per cui si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi.

Per questo , in ogni società, troviamo differenti sistemi di delimitazione e controllo dei discorsi.

Un primo gruppo di tali sistemi comprende le cosiddette procedure di esclusione. Esse si esercitano dall’esterno dei testi stessi e riguardano la parte del discorso che mette in gioco il potere e il desiderio. Tra queste troviamo il meccanismo dell’interdetto, la partizione tra ragione e follia e l’opposizione tra il vero e il falso.

Esiste un altro gruppo di procedure di controllo e delimitazione del discorso. Si tratta di procedure interne; sono i discorsi stessi che esercitano il loro proprio controllo. Tali procedure fungono dunque da principi di classificazione, ordinamento, distribuzione. Si tratta di padroneggiare quella dimensione del discorso che riguarda l’evento e il caso. Le procedure che operano in questo ambito sono il commento, la funzione dell’autore e l’organizzazione delle discipline.

L’autore individua un terzo gruppo di procedure che consentono il controllo dei discorsi. Esse non tentano di padroneggiare i poteri dei discorsi, ma di determinare le condizioni della loro messa in opera, di imporre agli individui che li tengono delle regole e di non permettere così a tutti di accedervi. In questo gruppo rientrano il rituale, le società di discorso e la dottrina.

Dopo questa breve classificazione delle procedure di controllo dei discorsi, voglio qui analizzare più da vicino le procedure di esclusione, tra le quali rientra la sopra citata volontà di verità.

Iniziamo dunque con l’interdetto. Esso è un procedura di esclusione perché fa riferimento al fatto che non si ha il diritto di dire tutto in qualsiasi circostanza. Si hanno tre tipi di interdetto: tabù dell’oggetto, rituale della circostanza, diritto privilegiato o esclusivo di chi parla; essi formano un reticolo complesso. Nella nostra società, tale reticolo diviene ancora più fitto nelle regioni della politica e della sessualità; infatti è proprio nel discorso che questi ambiti della vita umana possono esercitare i loro maggiori poteri.

Esiste poi, nella nostra società, un altro principio d’esclusione. Esso non funziona più come un interdetto ma come una partizione o un rigetto. Si tratta dell’opposizione tra ragione e follia. Il folle è colui il cui discorso non può circolare come quello degli altri. Dal Medioevo la sua parola è considerata come nulla, non potendo autenticare un contratto, non avendo verità e importanza, non potendo far fede in giustizia. Al contrario, poteva accadere che venisse attribuita alla sua parola la facoltà di pronunciare verità nascoste, o il potere di annunciare l’avvenire, di vedere ciò che la saggezza degli altri non può scorgere. In ogni caso, però, sia che fosse esclusa dalla società o segretamente investita dalla ragione, la parola del folle semplicemente non esisteva, non aveva effetto. La follia del folle si riconosceva proprio dalle sue parole. Oggi , si potrebbe pensare, la parola del folle non è più nulla, anzi vi si ricerca una senso. Si pensi alla psicanalisi, alla grande attenzione di medici del nostro tempo rivolta all’ascolto della parola del folle, alla volontà di decifrarla. Tuttavia, tanta attenzione non cancella l’antica partizione tra ragione e follia, anzi , tale opposizione continua a essere un sistema di esclusione che agisce in nuove forme, attraverso nuove istituzioni.

Passiamo ora all’analisi del terzo tipo di procedura d’esclusione, ovvero l’opposizione del vero e del falso. Sembrerebbe fuori luogo considerare tale opposizione come un ulteriore sistema d’esclusione, accanto a dei sistemi di controllo arbitrari e contingenti come l’interdetto e la partizione tra ragione e follia. In effetti, se ci si pone a livello di una proposizione o di un discorso in generale, la partizione tra vero e falso non sembra arbitraria, né modificabile o istituzionale. Ma in realtà, ponendosi ad un livello differente, analizzando, su larga scala, come sia stata considerata nel corso dei secoli tale opposizione, allora ci si ritrova di fronte ad un altro sistema di esclusione, anch’esso storico, modificabile e istituzionalmente costrittivo. Si tratta dunque di una volontà di verità che, attraverso i nostri discorsi e in diversi tempi e diverse circostanze , è mutata; tuttavia essa ha continuato a esercitare una costrizione e una delimitazione dei discorsi.

L’opposizione tra vero e falso è dunque una partizione storicamente costituita, poiché il criterio di scelta della verità dei discorsi è cambiato nel corso della storia. All’epoca della sofistica e dei suoi inizi con Socrate, il discorso efficace, rituale, carico di poteri e pericoli si è allineato sulla partizione tra discorso vero e discorso falso. Il concetto stesso di verità è mutato nel corso della storia. I sofisti del V secolo a.C. introdussero il relativismo conoscitivo, mettendo in crisi il rapporto tra linguaggio, verità e realtà. Anticamente si credeva che su ogni argomento esistesse un unico punto di vista vero ed un unico discorso capace di esprimerlo. I sofisti invece ruppero questo rapporto univoco tra linguaggio e realtà sostenendo che ogni situazione può essere analizzata da un’ottica diversa e dare quindi origine ad un discorso differente. Da questo punto di vista ogni verità è relativa e il discorso vero ed efficace non è più solo quello le cui parole coincidono con La Realtà e La Verità. Così l’efficacia e il potere del discorso non derivano più dal suo rapporto univoco con il referente. La retorica come arte del ben parlare divenne l’arte della suggestione e della persuasione, dunque sede del potere e dell’efficacia dei discorsi. Per i poeti e i filosofi greci del VI secolo, il discorso vero era il discorso pronunciato da chi di diritto, secondo il rituale richiesto; era il discorso che diceva la giustizia; era il discorso a cui bisognava sottomettersi. Ma il concetto di verità continuò a cambiare. La verità non si trovò più in quel che il discorso era o in quel che faceva, bensì in quel che diceva: la verità si è spostata dall’atto ritualizzato, efficace e giusto, d’enunciazione, verso l’enunciato stesso: verso il suo senso, la sua forma, il suo oggetto, il rapporto con la sua referenza. Aristotele (384-322 a.C.) si oppose al relativismo dei sofisti esprimendo l’impossibilità logica di affermare e negare nello stesso tempo uno stesso predicato intorno a uno stesso oggetto. Il principio di non contraddizione divenne criterio di riconoscimento di un discorso vero. Inoltre Aristotele ritrovò un legame tra pensiero, discorso e realtà (essere), dicendo che la verità è nel pensiero o nel discorso, non nell’essere o nella cosa; ma, allo stesso tempo, la misura della verità è l’essere o la cosa, non il pensiero o il discorso. Il criterio di verità dei filosofi stoici (IV°secolo a.C), rimise ancora in primo piano il legame tra il discorso vero e il rapporto con il suo referente. Infatti essi distinguevano la concludenza (formale) di un ragionamento dalla sua verità materiale. Infatti, mentre la concludenza presuppone soltanto un rapporto schematicamente corretto fra le premesse e la conclusione, la verità comporta anche una precisa corrispondenza a determinate situazioni di fatto.

Dunque nel corso dei secoli e attraverso i discorsi e i sistemi di pensiero la linea di confine tra vero e falso si è spostata. Da un lato si è considerato il discorso vero come quello che ha corrispondenza nella realtà; da un altro lato, il discorso vero è stato il discorso efficace, coerente, che segue alcune regole in determinate situazioni. Anche qui si hanno criteri interni ed esterni ai discorsi per giudicare la loro verità o falsità. Una posizione del tutto diversa presero i filosofi scettici del III° secolo a.C.. La volontà di verità in questo ambito di ricerca filosofica mutò rispetto ai sistemi di pensiero precedenti, impegnati nella ricerca del vero. Nell’ambito della filosofia scettica non esisteva un criterio di determinazione del discorso vero e di ciò che è verità, in quanto si pensava che l’uomo non potesse accedere alla verità delle cose.

Facendo un passo avanti nella storia vediamo che la partizione tra vero e falso come sistema di esclusione prese nuove forme. I concetti e i pensieri del passato e della filosofia greca hanno certo dato la forma generale alla nostra volontà di sapere. Ma essa non ha per questo cessato di spostarsi: le grandi mutazione scientifiche possono essere viste come conseguenze di una scoperta, ma possono anche venire lette come nuove forme della volontà di verità. Ovviamente il concetto di volontà di verità del XIX secolo non coincide con la volontà di sapere di un’altra epoca o di un’altra cultura. La volontà di sapere si distingue in tempi diversi per le forme messe in gioco, i differenti campi di oggetti a cui si rivolge, per le tecniche che utilizza e così via.

Nel corso del XVI secolo d.C. apparve una volontà di verità che per certi versi anticipò le forme che essa prende nella nostra epoca. Infatti nacque e prese forma una nuova scienza dello sguardo, dell’osservazione, dell’accertamento; si diffuse una sorta di filosofia naturale radicata su nuove strutture politiche e tecniche. Si trattava di una volontà di sapere che designava i piani d’oggetti possibili, catalogabili, misurabili, che imponeva al soggetto conoscente una determinata posizione, un certo sguardo e una funzione. Tutto questo pose le basi per un nuovo modo di fare scienza, che determinava a quale livello tecnico sarebbero dovute arrivare specifiche conoscenze per essere considerate verificabili e utili. Facendo riferimento alla rivoluzione scientifica a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento che vide come protagonisti scienziati quali Galileo Galilei e Copernico, vediamo nascere una nuova concezione di ciò che può essere considerato un discorso vero e di ciò che invece non è verificabile. Con l’introduzione di nuove tecniche e nuovi metodi scientifici, la verità della scienza non era più la verità che si basava sull’autorevole parola e sugli scritti di antichi maestri (Aristotele, Tolomeo). In questo periodo storico si è creata una nuova partizione tra vero e falso. La garanzia della veridicità di un discorso scientifico non derivava più dall’autorevolezza di chi lo pronunciava; il discorso vero ed efficace non era più solo quello pronunciato da chi di diritto e sancito dal senso comune. La volontà di verità prese nuove forme. Il discorso vero divenne quello basato sull’osservazione, verificato attraverso strumenti tecnici ed esperimenti; tornava dunque in primo piano, ancora una volta, il legame del discorso con la sua referenza. Inoltre Galileo sottolineò la possibilità per l’uomo di conquistare progressivamente la conoscenza della verità attraverso un ragionamento discorsivo. Egli rimise in campo la corrispondenza tra pensiero ed essere, la conformità tra ciò che la scienza sostiene e il mondo qual è veramente. Attraverso questi concetti, si è formata una volontà di verità basata su una concezione realistica della conoscenza.

Sulla base dei nuovi concetti di scienza e verità si fece strada, nel XIX secolo, un’ideologia positivista nella quale ritroviamo l’opposizione tra vero e falso in nuove forme. Infatti, con l’avvento della società industriale e la nascita della scienza moderna, troviamo ancora quella volontà di verità come sistema di esclusione istituzionalmente costrittivo. L’ideologia positivista (appoggiandosi anche sulla filosofia Kantiana che vedeva nel mondo fenomenico l’unica realtà accessibile alla conoscenza umana) riconosceva la verità solo in ciò che si fondava sul metodo sperimentale della scienza moderna. La verità non risiedeva in un concetto astratto di conoscenza (veniva rifiutata la filosofia metafisica), ma sui fatti, sulla conoscenza sensibile. L’osservazione divenne criterio di verifica di un discorso e di ogni conoscenza. Non veniva dunque negata alla mente umana la possibilità di accedere alla verità, ma la stessa verità risultava limitata alle cose sensibili. Dunque il criterio di verità divenne l’esperienza. La partizione tra vero e falso continuava a cambiare.

Foucault sottolinea dunque il carattere storico e modificabile della volontà di verità: “E’ come se la volontà di sapere avesse la sua propria storia, che non è quella delle verità costrittive, ma è storia dei piani d’oggetti da conoscere, storia delle funzioni e posizioni del soggetto conoscente, storia degli investimenti materiali, tecnici,strumentali della conoscenza”. Nel corso dei secoli cambia il criterio di verità, cambiano gli oggetti della conoscenza, cambiano le funzioni dei soggetti conoscenti. Tutto questo costituisce un sistema di limitazione del discorso che continua, in nuove forme, ad agire nella nostra società.

La volontà di verità poggia su un supporto istituzionale. Essa si fonda su pratiche istituzionalmente riconosciute come la pedagogia,che comprende i sistemi di insegnamento e i modi di fruizione della conoscenza. La volontà di verità è inoltre confermata dal sistema dei libri, dall’editoria, dalle biblioteche; essa è rinforzata da un insieme di sistemi che rendono socialmente costrittiva la partizione tra vero e falso. In particolar modo, la volontà di verità si ritrova nel modo in cui il sapere è messo in opera in una società, nel modo in cui è distribuito e valorizzato. In questo modo la volontà di verità esercita su tutti gli altri discorsi una pressione e una sorta di costrizione. In ogni ambito della conoscenza e in ogni epoca,i discorsi che vengono pronunciati o scritti devono far riferimento alla partizione tra vero e falso, al concetto di verità all’interno della società. Ad esempio la letteratura occidentale ha dovuto per secoli cercare sostegno sul naturale, ha dovuto far riferimento al verosimile, trovare conferma sulla scienza; in generale ha dovuto fondarsi sul discorso vero. Allo stesso modo molte altre pratiche e scienze hanno dovuto trovare legittimazione e giustificazione sul discorso della verità. Il sistema penale ha cercato di fondarsi dapprima su una teoria del diritto e, a partire dal XIX secolo, su un sapere psicologico, medico, psichiatrico. Ogni discorso dunque, per essere confermato e riconosciuto, deve fondarsi sul concetto di verità. In questo, la partizione tra vero e falso gioca un ruolo importante di delimitazione dei discorsi. Infatti, anche altri sistemi di esclusione sopra citati, come l’interdetto e la partizione tra ragione e follia, fanno riferimento all’opposizione tra vero e falso. In conclusione, ogni discorso è attraversato da una volontà di verità che muta nei secoli e nelle società, una volontà di verità che esercita un potere nei discorsi e che costituisce un sistema storico e modificabile. “ Il discorso vero non può riconoscere la volontà di verità che lo attraversa; e la volontà di verità, quella che si è imposta a noi da moltissimo tempo, è siffatta che la verità che essa vuole non può non mascherarla” (M.Foucault).


Ielo Serena (114696) FSCC

Bibliografia

M.Foucault (2004) L’ordine del discorso, Torino, Einaudi

Abbagnano N.- Fornero G.(1999) Protagonisti e testi della filosofia, Milano, Paravia

De Bernardi A.(2004) Tempi dell’Europa tempi del mondo, Milano. Mondadori

giovedì 16 settembre 2010

(Foucault) Il discorso e le sue procedure.

Il nostro linguaggio nella nostra società e soprattutto la sua produzione viene controllata da alcune procedure che hanno il compito di controllarne le caratteristiche e di evitarne i pericoli e i poteri. Evidenti sono le procedure di esclusione e la più evidente è quella dell’interdetto; ossia il fatto che non si può parlare di tutto in qualsiasi circostanza, che le persone non possono parlare di qualunque cosa. Oggi giorno ciò avviene soprattutto quando si parla della sessualità e della politica che diventano argomenti tabù. Evidente nel discorso è il suo legame con il desiderio e con il potere; infatti il discorso non è semplicemente ciò che manifesta il desiderio ma è anche ciò per cui si lotta , il potere che si vuole raggiungere. Altro principio d’esclusione è la partizione , ad esempio quella fra ragione e follia. C’è da dire che per secoli in Europa la parola del folle veniva esclusa e quindi non esisteva , le parole del folle erano il luogo della partizione, ed esse non erano mai accolte e mai ascoltate. Oggi si dirà che tutto ciò è finito e che la parola del folle non è più dall’altra parte della separazione , ciò però non significa che la vecchia partizione non sia più valida , infatti essa non viene cancellata ma agisce altrimenti muovendosi secondo linee diverse e con effetti diversi. Come terzo sistema di esclusione può essere considerata l’opposizione tra vero e falso. Attenzione però , perché questa partizione non è rilevante a livello di una proposizione , ma se si vuole invece sapere qual’ è la volontà di verità che ha attraversato i secoli della nostra storia allora può profilarsi qualcosa come un sistema di esclusione. Questo non è altro che un sistema costituitosi senz’altro storicamente , dunque si parla di partizione storicamente costituita. Infatti già nei poeti greci del passato il discorso vero per cui si aveva terrore e rispetto era il discorso che diceva la giustizia e che attribuiva a ciascuno la sua parte. Solo qualche tempo dopo la più alta verità non era più in quello che il discorso era o in quello che faceva, bensì in quello che diceva. Infatti la verità si è spostata dall’atto ritualizzato dell’enunciazione verso l’enunciato stesso ; verso il suo senso , la sua forma , il suo oggetto e il rapporto con la sua referenza. Si è stabilita poi la partizione fra il discorso vero e il discorso falso, una partizione nuova perché il discorso vero non è più discorso prezioso e desiderabile proprio perché non è più legato al potere. Da tutto ciò risulta evidente che la volontà di verità è mutata nelle epoche storiche , infatti la volontà di verità nel diciannovesimo secolo non coincide con la volontà di sapere che caratterizza la cultura classica. La volontà di sapere come gli altri sistemi di esclusione poggia su un supporto istituzionale, infatti è costituita da pratiche come la pedagogia , come il sistema dei libri, dell’editoria, delle biblioteche ecc. questa volontà viene anche riconfermata dal modo in cui il sapere viene messo in opera in una società, dal modo in cui viene valorizzato e distribuito. Questa volontà di verità , sorretta da un supporto e da una distribuzione istituzionale, esercita sugli altri discorsi della nostra società una sorta di pressione e quasi un potere di costrizione. Foucault dei tre sistemi di esclusione che colpiscono il discorso si è soffermato più a lungo sul terzo ossia sulla volontà di verità. È di essa che si parla meno infatti il discorso vero non può riconoscere le volontà di verità che lo attraversa e la volontà di verità che si è imposta a noi da molto tempo è tale che la verità ch’essa vuole non può non mascherarla. In questo modo ci appare allo sguardo una verità che è ricchezza e fecondità , ma in compenso la volontà di verità ci appare come un prodigioso macchinario destinato ad escludere.

Esistono poi anche le procedure d’esclusione interne con le caratteristiche di classificazione, ordinamento, distribuzione, con la volontà di padroneggiare un’altra dimensione del discorso : quella dell’evento e del caso. Qui al primo posto come procedura troviamo il commento. Il commento consente di costruire nuovi discorsi e dall’altra parte ha l’unico ruolo di dire ciò che era articolato silenziosamente. Deve dire per la prima volta ciò che non era mai stato detto, esso assegna la sua parte al discorso e consente di dire qualcosa di diverso dal testo stesso, ma a condizione che sia questo stesso testo ad essere detto e compiuto. Altra procedura complementare a quella del commento è quella dell’autore. L’autore considerato non come l’individuo parlante che ha pronunciato o scritto un testo , ma l’autore come principio di raggruppamento dei discorsi, come unità ed origine dei loro significati e come fulcro della loro coerenza. Nell’ordine del discorso scientifico l’attribuzione di un autore , nel medioevo , era indispensabile perché costituiva un indice di verità. Allo stesso modo anche nel diciassettesimo secolo nel discorso scientifico questa funzione non è venuta meno. Differentemente nell’ordine del discorso letterario a partire dal diciassettesimo secolo la funzione dell’autore andò rafforzandosi ; infatti tutte le narrazioni, i poemi , i drammi e le commedie che nel medioevo circolavano nell’anonimato , ora invece si chiede loro la loro provenienza , chi li ha scritti, si chiede all’autore che rendi conto dell’unità del testo che va sotto il suo nome. Si chiede all’autore di rivelare il senso nascosto dei propri testi e di articolare questi testi sulla propria vita personale , sulle proprie esperienze. Dunque l’autore è ciò che da al linguaggio della finzione le unità , i nodi di coerenza e l’inserimento nel reale. Mentre il commento limitava il caso del discorso ad un’identità che ha la forma della ripetizione , l’autore invece limita il caso del discorso ad un’identità che ha la forma dell’individualità e dell’io. Vi è un’altra procedure che riguarda l’organizzazione delle discipline che si oppone tanto al principio del commento che a quello dell’autore. A quello dell’autore in quanto una disciplina viene definita da un campo d’oggetti, da un insieme di metodi , da un gioco di regole e di definizioni di tecniche e di strumenti. Si oppone anche a quella del commento perché in una disciplina a differenza del commento ciò che si presume in partenza non è un senso che deve essere riscoperto ne un identità che deve essere ripetuta , bensì ciò che è richiesto per la costruzione di nuovi enunciati. Dunque affinché ci sia disciplina occorre che vi sia possibilità di formulare in maniera indefinita nuove proposizioni. C’è da dire che una disciplina non è la somma di tutto ciò che può essere detto di vero a proposito di qualcosa , infatti la medicina non è costituita dal totale di ciò che si può dire di vero sulla malattia e la botanica non può avere la somma di tutta la verità su ciò che concernano le piante. Dunque sia la botanica che la medicina , come ogni altra disciplina , sono fatte tanto di errori che di verità , errori che non sono corpi estranei ma che hanno funzioni positive , efficacia storica e legate alla verità. C’è da dire inoltre che una proposizione affinché possa appartenere alla botanica o alla medicina deve innanzitutto rivolgersi ad un piano d’oggetti determinato che riguardano appunto le due discipline. Dunque nei suoi limiti ogni disciplina riconosce preposizioni vere e false, una preposizione deve rispondere a complesse e pesanti esigenze per poter appartenere all’insieme di una disciplina. La disciplina è un principio di controllo della produzione del discorso , essa infatti fissa dei limiti al discorso.

In fine esiste un terzo gruppo di procedure che consentono il controllo dei discorsi. Qui si afferma che non tutte le regioni del discorso sono aperte e penetrabili , alcune sono saldamente difese , mentre altre sono accessibili e a disposizione di ogni soggetto parlante. Lo scambio e la comunicazione sono figure positive che operano al’’interno di sistemi complessi di restrizione. La forma più superficiale e visibile di questi sistemi di restrizione è costituita dal rituale. Il rituale definisce la qualificazione che devono possedere gli individui che parlano , esso definisce i gesti e i comportamenti , le circostanze e tutto l’insieme di segni che devono accompagnare il discorso ; esso fissa l’efficacia delle parole e il loro effetto su coloro cui sono rivolte. Anche i discorsi religiosi, giudiziari, terapeutici e in parte anche quelli politici utilizzano il rituale. Diverse sono le società di discorso che hanno la funzione di conservare o proteggere i discorsi con un regime diverso di esclusione e di divulgazione : si pensi al segreto tecnico o scientifico , alle forme di diffusione e di circolazione del discorso medico ecc. differentemente le dottrine (religiose, politiche,filosofiche) costituiscono l’opposto di una società di discorso ; infatti mentre nelle società di discorso il numeri degli individui parlanti tendeva ad essere limitato e il discorso circolava solo tra di loro , invece la dottrina al contrario tende a diffondersi fra i soggetti e mette in causa sia il l’enunciato che il soggetto parlante. La dottrina lega gli individui a certi tipi di enunciazione per legare gli individui tra di loro e differenziarli dagli altri. Bisogna anche riconoscere l’appropriazione sociale dei discorsi e qui l’educazione è lo strumento grazie al quale ogni individuo nella nostra società può accedere a qualsiasi tipo di discorso. È difficile separare i rituali della parola, le società di discorso i gruppi dottrinali e le appropriazioni sociali , questi infatti si legano l’uno a gli altri e costituiscono grandi edifici che assicurano la distribuzione dei soggetti parlanti nei vari tipi di discorso. Questo in merito alle procedure d’assoggettamento del discorso.

Nella nostra società vi è una sorta di sordo timore contro questa massa di cose dette , contro il sorgere di tutti questi enunciati , dunque contro questo brusio incessante e confuso del discorso. Se si vuole analizzare questo timore nei suoi effetti e nel suo gioco occorre : rimettere in questione la nostra volontà di verità , restituire al discorso il suo carattere d’evento e togliere via in fine la sovranità del significante. Questi compiti comportano alcune esigenze di metodo : un principio di rovesciamento per cui la dove si crede di riconoscere la scaturigine dei discorsi , bisogna piuttosto riconoscere il gioco negativo di un ritaglio e di una rarefazione del discorso. Poi un principio di discontinuità per cui i discorsi devono essere trattati come pratiche discontinue, che s’incrociano , si affiancano s’ignorano e si escludono. Ancora un principio di specificità secondo il quale occorre concepire il discorso come una violenza che noi facciamo alle cose , ed è in questa pratica di violenza che il discorso trova la sua regolarità. In fine, quarto principio , di esteriorità secondo il quale bisogna partire dal discorso stesso e andare poi verso le sue condizioni esterne di possibilità. A questi quattro principi si legano quattro nozioni che servono all’analisi regolativa : l’evento che si lega al principio di rovesciamento , serie che si lega al principio di discontinuità , regolarità al principio di specificità e la nozione di condizione di possibilità al principio di esteriorità. Foucault si propone poi di condurre due analisi : una critica dove si analizzano i processi di rarefazione , di raggruppamento e di unificazione dei discorsi ; l’altra genealogica che riguarda invece la formazione effettiva dei discorsi sia all’interno dei limiti di controllo che all’esterno. Le descrizioni critiche e le descrizioni genealogiche devono sorreggersi alternarsi e completarsi vicendevolmente. La parte critica dell’analisi si rivolge ai sistemi d’avvolgimento del discorso , essa cerca di rintracciare e di individuare i principi di ordinamento esclusione e rarità del discorso. Invece la parte genealogica si rivolge alla serie della formulazione effettiva del discorso e cerca di cogliere il discorso nel suo potere di affermazione. Dunque l’analisi del discorso cosi intesa mette in luce il gioco della rarità da una parte e il potere d’affermazione dall’altra.