modalità d'esame

per tutti gli studenti che dovranno sostenere l'esame di
Filosofia del Linguaggio mod.B a.a. 2009/2010


si rende noto che

-Il numero di battute dei propri elaborati dovrà essere compreso tra 14000 e 16000

-Bisognerà postare i propri lavori 14 giorni prima dell'appello scelto per sostenere l'esame

l'indirizzo e-mail a cui chiedere l'autorizzazione per postare è:
foucaultbarthes0910@gmail.com

per non avere problemi con le autorizzazioni si invita gli studenti ad utilizzare un indirizzo gmail per inoltrare le proprie richieste
Gli studenti che hanno usato il proprio account @mondoailati.unical.it per postare su altri blog relativi agli esami di Informatica, sono pregati di creare COMUNQUE un nuovo account

Programma d'esame

cicli: 07 e precedenti
A partire dalla sessione di giugno 2010 il programma d'esame consiste nello studio di:
-M.P. Pozzato, Semiotica del testo, Carocci
-Barthes, Variazioni sulla scrittura-Il piacere del testo, Einaudi
-Foucault, Ordine del discorso
e nella stesura di un elaborato da postare sul blog

giovedì 9 settembre 2010

Michel Foucault: L'ordine del discordo.
Di Fabrizia Laratta


L'ordine del discorso è il testo della lezione inaugurale al Collège de France, letta nel 1970.
Foucault con tale testo intende realizzare 3 obbiettivi:
-Rimettere in questione la nostra volontà di verità;
-Restituire al discorso il suo carattere di evento;
-Togliere via la sovranità del significante;
La sua riflessione parte dall'inquietudine di iniziare un discorso, inquietudine nei confronti di ciò che il discorso è nella sua materiale realtà pronunciata e scritta, inquietudine nell'avvertire dietro a questa attività dei poteri e pericoli che si immaginano a stento. E' evidente che il suo maggior quesito sia: Dov'è il pericolo nei discorsi?
Partendo dalla supposizione che in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo di procedure inizia quindi ad analizzarle.
In primo luogo parte dalle procedure d' esclusione. La più evidente è quella dell' interdetto. Si sa bene che non si ha il diritto di dire tutto, che chiunque non può parlare di qualsiasi cosa. Oggi, ad esempio, le regioni in cui l' interdetto è più forte sono quelle della sessualità e della politica come se il discorso fosse uno dei siti in cui esse esercitano il loro temibile potere. Questo perché il discorso non è semplicemente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò per cui, attraverso cui si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi.
Esiste un' altro principio d'esclusione ovvero la partizione, come quella tra ragione e follia. Dal Medioevo il folle è colui il cui discorso non può circolare come quello degli altri: capita che la sua parola non venga considerata, che venga ritenuta nulla e senza effetto e che non abbia capacità giuridica; ma capita anche che le si attribuiscano strani poteri come quello di dire verità nascoste o di annunciare l' avvenire. La follia del folle si riconosceva attraverso le sue parole; esse erano il luogo in cui si compiva la partizione; ma non erano mai accolte né ascoltate.
Oggi si crede che tutta questa partizione sia finita perché noi cerchiamo un senso nelle sue parole, ma tutta questa attenzione odierna sul folle ci deve indurre a capire che oggi la partizione agisce secondo linee diverse, attraverso nuove istituzioni.
La terza procedura d' esclusione è la volontà di verità. La questione tra il vero e il falso e la partizione data dalla volontà di verità esiste sin dai poeti greci: il discorso vero, all' epoca, era quello pronunciato da chi di diritto, era quello per cui si aveva rispetto e terrore. Era il discorso che diceva la giustizia e attribuiva a ciascuno la sua parte; era il discorso che profetizzava il futuro e che contribuiva alla sua realizzazione. Era il discorso che regnava e a cui tutti dovevano sottomettersi. Ma un secolo più tardi la più alta verità non risiedeva più in ciò che il discorso ''era'' o ''faceva'', bensì in ciò che esso ''diceva''. Con Platone il discorso non è più legato al potere, si è stabilita pertanto una partizione che ha separato il discorso vero e il discorso falso. Questa partizione storica ha dato senza dubbio la forma generale che le è propria alla nostra volontà di sapere; con il passare del tempo poi le grandi mutazioni scientifiche possono essere lette anche come l'apparizione di nuove forme nella volontà di verità.
Ora questa volontà di sapere, come gli altri sistemi d'esclusione, poggia su di un supporto istituzionale ed è riconfermata e rinforzata da pratiche come la pedagogia, come il sistema dei libri, dell'editoria, delle biblioteche.
Le procedure di controllo finora analizzate possiamo dire che si esercitano in qualche modo dall'esterno, esse si riferiscono alla parte del discorso che mette in gioco il potere e il desiderio.
Passiamo ora ad un secondo gruppo: le procedure di limitazione. Esso è costituito da procedure interne, cioè quelle esercitate sul discorso stesso per classificare, ordinare, padroneggiare la dimensione del discorso come evento. In primo luogo possiamo parlare del commento: in ogni società esistono narrazioni salienti, che si raccontano più volte, si ripetono, si fanno variare. Esistono quindi discorsi che ''si dicono'' col trascorrere dei giorni, i discorsi che sono all' origine di atti nuovi, di parole e che vengono trasformati, ripresi ma che al di là della loro forma rimangono discorsi ''detti'' e che nella nostra società sono i testi religiosi o quelli giuridici.
Una sola e stessa opera può dar vita a tipi diversi di discorso, un esempio può essere l'Odissea che come testo primario è stata poi ripetuta nella traduzione di Bérard, nell' Ulisse di Joyce. In generale un commento crea una sfasatura tra il primo e il discorso testo che svolge due ruoli che sono solidali. Da una parte esso consente di costruire nuovi discorsi; dall'altra ha come unico ruolo quello di dire come infine ciò che era silenziosamente articolato laggiù. In pratica il commento deve dire per la prima volta ciò che era già stato detto e ripetere ciò che non era mai stato detto. Il nuovo non è in ciò che è stato detto, ma nell'evento del suo ritorno.
Un altro principio di rarefazione del discorso è l'autore. L'autore non deve essere considerato come l'individuo parlante che ha scritto o pronunciato un testo, ma deve essere inteso come principio di raggruppamento dei discorsi, come fulcro della loro coerenza. D' altronde esistono dei discorsi che circolano senza che detengano il loro senso o efficacia da un autore cui sarebbero attribuiti: parole quotidiane, decreti o contratti che non hanno bisogno di essere firmati, ricette tecniche che si trasmettono nell'anonimato. Ma in alcuni casi l'attribuzione di un testo ad un autore è una regola; come, ad esempio, avveniva nel Medioevo in quanto considerata una regola indispensabile poiché costituiva un indice di verità. Sostanzialmente potremmo definire l'autore come colui che dà all'inquietante linguaggio della finzione le unità, i nodi di coerenza, l'inserzione nel reale. Mentre quindi il commento, precedentemente analizzato, limitava il caso del discorso col gioco di un'identità che ha la forma della ripetizione e dello stesso; il principio dell'autore limita il caso del discorso col gioco di un'identità che ha la forma dell'individualità e dell' io.
Un altro principio di limitazione da riconoscere è quello riguardante le discipline. Tale principio si oppone tanto al commento quanto all'autore. A quello dell'autore perché una disciplina viene definita da un campo d'oggetti, da un insieme di metodi, tecniche e strumenti. Tutto ciò costituisce un sistema anonimo non legato ad un'individualità. Si oppone al commento perché ciò che si suppone in partenza in una disciplina non è un senso che deve essere riscoperto, bensì ciò che è richiesto per la costruzione di nuovi enunciati.
Naturalmente una disciplina non è da considerarsi come la somma di tutto ciò che può esser detto di vero a proposito di qualcosa. Ad esempio la medicina non è costituita dal totale di ciò che si può dire di vero su di una malattia. In primo luogo perché le discipline sono fatte tanto di errori quanto di verità e poi è necessario che affinché una proposizione appartenga ad una disciplina risponda a dei requisiti: deve rivolgersi ad un piano d'oggetti determinato, possedere un uso di strumenti concettuali o tecnici ben definiti, iscriversi in un orizzonte teorico.
La disciplina è una procedura di controllo del discorso in quanto fissa dei limiti col gioco di un'identità che ha la forma di una permanente riattualizzazione delle regole.
Esiste un terzo gruppo di procedure di controllo che consentono il discorso, si tratta di quelle procedure che colpiscono le condizioni di messa in opera dei discorsi, di imporre agli individui che li tengono un certo numero di regole; si tratta di rarefazione dei soggetti parlanti. Non tutti gli individui possono penetrare in tutte le regioni del discorso: alcune sono saldamente difese, altre sono aperte e a disposizione di ogni soggetto parlante. Un primo esempio di queste procedure è il rituale. Il rituale è la forma più superficiale e più visibile a questi sistemi di restrizione; esso definisce la qualificazione che devono possedere gli individui che parlano, definisce i gesti, i comportamenti, le circostanze e tutto l'insieme di segni che devono accompagnare il discorso e fissa l'efficacia delle parole, il loro effetto su coloro cui sono rivolte. Un esempio di ciò possono essere i discorsi religiosi, giudiziari, terapeutici.
Di funzionamento diverso sono le ''società di discorso'' che hanno la funzione di conservare o proteggere dei discorsi, per farli circolare in spazi chiusi secondo regole strette. In passato se ne occupavano i rapsodi che possedevano la conoscenza dei poemi da recitare, o da variare e trasformare; questa conoscenza era protetta e difesa, in un determinato gruppo, dagli esercizi mnemonici; l'apprendimento faceva entrare in gruppo e in un segreto che la recitazione manifestava ma non divulgava; tra la parola e l' ascolto i ruoli non erano permutabili.
Oggi la situazione è ben diversa anche se esistono ancora figure che funzionano con modalità di divulgazione e secondo un regime di esclusioni: si pensi al segretario tecnico o scientifico, si pensi a coloro che si sono appropriati il discorso economico o politico.
Un'altra procedura sono le dottrine che costituiscono l'opposto delle società di discorso. La dottrina tende a diffondersi con il desiderio di reciproca appartenenza. La sola condizione richiesta è il riconoscimento delle stesse verità e l'accettazione di una serie di regole. Ora l'appartenenza dottrinale mette in causa sia il soggetto parlante attraverso e a partire dall'enunciato, un esempio può essere l'eresia; sia mette in causa l'enunciato attraverso e a partire dal soggetto parlante poiché gli enunciati dottrinali sono sempre il segno di una volontà di appartenenza di individui. Infine dobbiamo riconoscere un altro principio che è l'appropriazione sociale dei discorsi. L'educazione permette ad ogni individuo di accedere a qualsiasi tipo di discorso; ma si sa anche segue nella sua distribuzione, in ciò che permette e in ciò che vieta, e alimenta le distanze tra le classi sociali.
Ogni sistema di educazione è un modo politico di mantenere o di modificare l'appropriazione dei discorsi, con i saperi ed i poteri ch'essi comportano. L’autore poi parla di elisione della realtà del discorso nel pensiero filosofico attraverso alcuni temi, quali:
-il soggetto fondatore: incaricato di animare le forme vuote della lingua;
-esperienza originaria: il discorso esiste già nelle cose ed esprime il suo senso, quindi è il linguaggio che deve parlare di qualcosa che già esiste;
-la mediazione universale: lo scambio continuo dei discorsi non è che un gioco che alla fine, finisce con l’annullare il discorso stesso. Sembrerebbe che in tutto questo lavoro si mettesse al centro dell’attenzione il discorso stesso, invece si finisce con il valorizzare il discorso già tenuto che è diventato “evento”. Alla fine di questa sua lezione sull’ordine del discorso, Foucault sostiene che per poter rimettere in discussione la nostra volontà di verità, per definire il discorso come evento, per togliere via la sovranità del significante bisogna applicare alcuni principi guida:
-principio di rovesciamento: l’autore, la disciplina, la volontà di verità che secondo la tradizione, sono la scaturigine del discorso, producono invece la rarefazione del discorso.
-principio di discontinuità: il fatto che ci siano sistemi di rarefazione non significa che vi è un discorso sotterraneo che non è venuto alla luce. I discorsi sono pratiche “discontinue”: si incrociano, si affiancano ma anche si ignorano e si escludono.
-principio di specificità: il discorso non è un gioco di significati precostituiti ma è una pratica che imponiamo alle cose.
-principio dell’esteriorità: dal discorso bisogna partire non per andare verso il suo nucleo interno ma verso le sue condizioni esterne di possibilità.