Limiti e possibilità dell’agire linguistico nello spazio pubblico.
Le conclusioni di Foucault
di Annalisa Laganà
«Ogni volta che è in gioco il linguaggio, la situazione diviene politica per definizione, perché è il linguaggio che fa dell’uomo un essere politico»[1].
In questi termini la studiosa tedesca Hannah Arendt (1906 – 1975) sintetizza e ripropone le affermazioni aristoteliche sull’uomo come «zoon politikon»[2] e come «zoon logos echon»[3], quali descrizioni di due aspetti tra loro complementari della natura umana, che si esplica, quindi, necessariamente nello spazio sociale. La culla di uno spazio sociale così inteso è la polis greca che, in quanto struttura pubblica e democratica[4] prototipica, consente al soggetto di esprimere la sua natura sociale nell’isonomia[5] dei cittadini. Tutti, con il logos, partecipano attivamente alla vita politica della città: nella polis tutte le strade portano all’agorà, perché qui si possa esprimere la socialità costitutiva della persona, nel rispetto della libertà di ognuno e nella necessaria limitazione della propria.
Sigmund Freud (1856 – 1939) ipotizzerà l’origine della civiltà proprio sulla base di queste condizioni e limitazioni del singolo che, nonostante la natura asociale e amorale delle sue pulsioni, avverte la necessità biologica (in senso ampio, come condizione di vita) della convivenza con i propri simili[6]. Il principio di realtà, l’assunzione di regole morali – sia sulla linea ontogenetica che su quella filogenetica – limita un aspetto della natura dell’uomo, per far sì che il secondo possa esprimersi:
L’uomo delle origini stava meglio perché non conosceva alcuna limitazione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era ridotta. L’uomo civile ha barattato un po’ della sua possibilità di essere felice con un po’ di sicurezza[7].
Se la felicità dell’uomo ante-sociale coincideva con la sua assoluta libertà, ora la sua sicurezza è determinata dal controllo (autonomo e istituzionale) dei suoi atti di parole[8], dacché «l’azione e […] il discorso […] (sono) due facoltà umane […] complementari e superiori e tutte le altre»[9].
Ecco che la società, perché sia possibile, deve costruirsi secondo due funzioni: deve essere al contempo luogo delle possibilità e luogo dei limiti. In questa direzione esordisce Michel Foucault (1926 – 1984), nel testo della sua lezione inaugurale al Collège de France, L’ordine del discorso[10], quando, presentando la sua tesi generale, afferma:
In ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità[11].
Con queste parole Foucault inizia a confrontarsi con l’enorme potere del linguaggio: gli atti linguistici, infatti, sono da considerarsi azioni che influenzano concretamente le determinazioni della realtà, atti di significazione collocati nella dimensione sociale[12], proprio perché l’azione esige il discorso[13] in tutte le circostanze sociali, in quanto tali istituzionalizzate[14], e «il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile»[15]. Allora, come la prassi sociale si impone alla libertà delle pulsioni dell’individuo, così le «procedure d’esclusione»[16] intervengono a regolare l’ordine del discorso, limitando le possibilità del sistema linguistico nelle sue determinazioni particolari, in rapporto alle convenzioni del vivere in comunità. Il sistema di possibilità linguistico deve adattarsi al sistema di possibilità storico–sociale, senza che tra i due sistemi si possa strutturare un’organizzazione gerarchica; infatti, questi interagiscono sullo stesso livello: in assenza di testo, non si può considerare l’esistenza di vincoli sociali sulla produzione del testo stesso. Questo stato di cose è determinato proprio dal fatto che le circostanze che influenzano la libera produzione linguistica sono variabili nel loro senso, nella loro portata, nelle loro implicazioni, sulla linea diacronica - «il molto provvisorio teatro»[17] - e su quella sincronica – le differenze culturali – e questo impone di adottare procedure che sono valide solo se applicabili a situazioni particolari, senza pretese universalistiche. Un altro motivo sorregge la non applicabilità di norme di limitazione estese a tutta la struttura linguistica: i testi, in quanto atti comunicativi prodotti da sistemi linguistici verbali, dotati di onniformatività semiotica, possono assumere come contenuto tutto il pensabile; per questo i paradigmi limitati sono solo quelli che consentono scambi comunicativi ristretti, come nel caso delle lingue settoriali, che infatti non ammettono alcuna forma di creatività.
A queste condizioni la teoria linguistica di Louis Hjelmslev (1899 – 1965) crolla sui suoi fondamenti[18]; infatti, il linguista danese considerava necessaria una teoria linguistica che acquisisse la stessa oggettività e universalità di applicazione di una teoria matematica, che fosse capace di descrivere e predire «tutti i testi […] possibili o concepibili, compresi testi che non esisteranno fino a domani o più tardi»[19], sulla base dei sistemi linguistici già esistenti. Non solo, la generalità scientifica della teoria linguistica doveva essere tale da permettere di costruire «qualunque testo composto in qualunque lingua»[20]: il teorico del linguaggio, dunque, a qualunque cultura appartenga, deve concepire una teoria che possa applicarsi a lingue che egli non conosce o non ancora esistenti o che non esisteranno mai. Questa convinzione radicale di Hjelmslev palesa come, dagli scopi della teoria linguistica che verte sulla prassi linguistica in quanto suo oggetto di studio, è esclusa la prassi linguistica stessa, in favore di una legge scientifica unificata:
La teoria linguistica non può essere verificata […] con riferimento a […] testi o lingue esistenti. Essa può essere giudicata solo con riferimento al carattere coerente ed esauriente del suo calcolo[21].
Se la teoria di Hjelmslev fosse considerata valida in tutte le sue parti, si negherebbe la rilevanza assegnata al contesto sociale, - nell’interpretazione aristotelica da un lato e foucaultiana dall’altro - nel quale le ragioni originarie del linguaggio si insediano.
La necessità di porre un limite alla prassi linguistica diventa una condicio sine qua non dell’esistenza stessa del linguaggio verbale, le cui strutture non consentono la sussistenza del carattere di una ricorsività davvero illimitata. Questo è quanto emerge anche dalle considerazioni di Louis Borges (1899 – 1986) nel racconto fantastico La biblioteca di Babele [22]. Questo luogo, che è il luogo che comprende tutti i testi possibili (intesi come libri e come atti comunicativi verbali) su «tutto ciò che è dato esprimere in tutte le lingue»[23], compresi elenchi e ripetizioni privi di un senso testuale, si estende in uno spazio ossimorico (anche nel suo significato etimologico, “acutamente folle”) che si dice infinito, ma che si dimostrerà, al contempo, finito, che esiste ab aeterno, ma le cui unità minime sono limitate e calcolabili:
L’universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone di un numero indefinito e forse infinito di gallerie esagonali […]. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente.[24]
E ancora:
A ciascuna parete di ciascun esagono corrispondono cinque scaffali; ciascuno scaffale contiene trentadue libri […]; ciascun libro è di quattrocentodieci pagine; ciascuna pagina di quaranta righe; ciascuna riga di quaranta lettere.[25]
La Biblioteca è totale[26] e la sua totalità suggerisce allo stesso tempo infinità e compiutezza. Il punto medio tra queste due suggestioni sta nel considerare le possibilità della Biblioteca, e quindi del sistema linguistico (entrambi limitati nello spazio e modificabili nel tempo), date in un numero enorme, ma non infinito. Questa conclusione è raggiunta anche dallo studioso tedesco Kurd Lasswitz (1848 – 1910) nel suo racconto breve intitolato La Biblioteca Universale[27]. Qui l’autore fa calcolare al professor Wallhausen la quantità di tutti i volumi che esprimerebbero tutto lo scibile, secondo tutte le combinazioni possibili di lettere; la lunghezza che raggiungerebbero messi tutti su un’unica fila; lo spazio che occuperebbero se racchiusi in un’unica biblioteca. Il professore ottiene quantità incommensurabili, che però, se sottratte a loro stesse danno come risultato zero: «È un numero finito e concettualmente ben definito»[28]. Non solo anche in questo caso il numero di possibilità linguistiche è limitato, ma anche qui si presenta il problema del senso dei testi, che non può dirsi presente in tutte le possibilità contenute nella Biblioteca Universale, infatti, questa comprende «ogni possibile letteratura, sia sensata che priva di senso»[29]. Dunque, rispetto a tutti i testi delle Biblioteche (di Borges e Lasswitz), solo le combinazioni valide consentono di accettare la loro utilizzabilità, e tra queste non possono rientrare elenchi e ripetizioni che, nel contesto sociale in cui vanno a inserirsi, non hanno un senso testuale. Ci suggerisce a proposito il linguista Oliver Soutet:
Indipendentemente dalla situazione enunciativa, ogni elemento del testo, e dunque ogni testo, deve obbedire a una regola basilare: la coesione testuale (o continuità tematica)[30]. L’enunciatore, lungi dal giustapporre atti di linguaggio indipendenti, li subordina in maniera intenzionale in vista di un fine ben preciso[31].
Non solo il testo deve essere di per sé strutturato in modo da manifestare un senso, ma è il lettore stesso, con le sue competenze e a seconda delle sue finalità nel contesto intersoggettivo, che deve attivare quello che Umberto Eco definisce come «meccanismo pigro»[32]. Infatti, qualsiasi produzione linguistica assume la ricchezza che è propria delle lingue verbali non solo in relazione alla sua struttura sintattico - semantica, ma soprattutto rispetto al livello estetico - estesico[33], che indaga e fa emergere tutto ciò che nella comunicazione c’è di extralogico e quindi di dipendente dalla passionalità dei parlanti. Dunque risulta evidente il fatto che le possibilità strutturali della lingua e le possibilità sociali sono tra loro complementari, nella misura in cui «le condizioni storico-sociali costituiscono il “contesto” dei testi propriamente detti»[34]. Le potenzialità onniformative del linguaggio verbale vengono a modellarsi puntualmente sulle condizioni di possibilità sociali in cui il linguaggio verbale stesso si produce, perché, come per qualunque operazione combinatoria, anche la produzione linguistica si muove entro un “quadrato delle possibilità”, come il quadrato semiotico greimasiano[35] che alla presenza di alcune, impone che se ne escludano altre. Si prenda come esempio il modello morfo-sintattico di Vladimir Propp (1895 – 1970) per la scrittura della fiaba[36]: questo sistema non prevede la ricorsività chomskyana; il numero delle possibilità che offre è molto alto, ma non infinito, perché affinché si produca un testo fiabesco, è necessario rispettare norme e condizioni che non consentono di uscire da un percorso ben definito, determinato dai caratteri stessi della fiaba, tanto che in questo caso i testi non sono divisi in frasi, ma in situazioni.
Da questo esempio emerge come il testo sia una selezione di combinazioni nella lingua e secondo la grammatica, e la selettività insita nei sistemi di possibilità dei testi si estende non solo ai modi, ma anche ai luoghi in cui i testi vengono prodotti. Le condizioni di esistenza di un testo sono date dai rapporti in assenza delle possibilità sull’asse paradigmatico, per cui un testo possibile a certe condizioni, in un certo contesto sociale, esclude gli altri testi possibili ad altre condizioni, in altri contesti sociali. Roland Barthes (1915 – 1980) ha riconosciuto in questo collegamento diretto tra struttura linguistica e contenuti sociali, «l’unità delle ricerche che vengono attualmente condotte nell’antropologia, nella sociologia, nella psicoanalisi e nella stilistica intorno al concetto di significazione»[37], e su questo ha rovesciato l’idea saussuriana della semiologia.
Se da un lato si è costretti nella lingua a produrre testi che rispettino gli accordi sintattici e morfologici tra le parti costitutive del discorso, dall’altro si è subordinati nella prassi linguistica a procedure convenzionali che regolino l’espressione di questi stessi testi. Foucault ce ne propone di diversi tipi. L’interdetto, la partizione, la volontà di verità, tutte diverse nella loro genesi e nelle loro implicazioni, ma tutte accomunate dal loro essere strumenti per controllare l’ordine dell’agire pubblico. In alcuni casi è il discorso stesso a limitarsi con la sua funzione metalinguistica: si tratta del commento che «scongiura il caso del discorso assegnandogli la sua parte»[38]. In altri casi è l’autore a intervenire come colui che stabilisce l’orientamento del testo e ne determina le condizioni di validità e di coerenza, attraverso un’operazione di ritaglio entro tutto il dicibile. E ancora, il modo stesso di organizzarsi del discorso nelle diverse classificazioni in discipline, che pongono il vincolo di un sistema formale entro il quale il discorso deve porsi senza poter valicare un ben definito «orizzonte teorico»[39]. Tutte operazioni che mirano a rarefare il discorso[40] - dice Foucault – a indebolirne la forza riducendone la libertà.
D’altro canto esistono anche procedure che controllano i soggetti parlanti, le loro competenze per entrare nell’ordine del discorso. Il rituale, tra tutte, è la forma che si richiama nel modo più diretto alla collocazione sociale dell’individuo:
I discorsi religiosi, giudiziari, terapeutici e in parte anche quelli politici, non sono quasi dissociabili dalla utilizzazione di un rituale che determina per i soggetti parlanti sia proprietà singolari che ruoli convenuti[41].
Diversamente ancorate allo spazio di diffusione del discorso sono le «società di discorso»[42], il cui accesso non è consentito ai più in modo da garantire la conservazione di un sapere elitario. Ciò che potrebbe sembrare opposto a una società di discorso è la dottrina, che però, a dispetto delle apparenze, non fa che diffondere i propri dogmi differenziando in modo netto la sua identità rispetto a quella delle altre dottrine, cosicché i discorsi del soggetto siano ingabbiati in essa. Infine l’educazione, che tanta parte prende nella determinazione dei modi di inserimento di un soggetto nello spazio comune: essa non è che «un modo politico di mantenere o di modificare l’appropriazione dei discorsi, con i saperi e i poteri ch’essi comportano»[43].
Attraverso tutte queste modalità si applica un assoggettamento istituzionale del discorso, che diventa una condizione necessaria e in fin dei conti consequenziale alla natura del discorso stesso. Il discorso, infatti, non è un insieme omogeneo di oggetti; i discorsi sono costitutivamente diversi gli uni dagli altri, sono originali, sono unici perché ogni volta creati da soggetti diversi in situazioni diverse. Proprio in questa mancanza di unità, nella inapplicabilità dell’omologazione ai discorsi sta la ricchezza del linguaggio verbale, casuale perché dipende dal caso e dai casi, che negano di poter determinare l’esistenza di caratteri universali.
[1] Arendt (1958), p. 3.
[2] Politica, Libro I, 1253a.
[3] Ibidem.
[4] In senso forte, luogo di scambio sociale per eccellenza.
[5] L’isonomia era concessa solo agli uomini liberi, ma questo esula dal nostro discorso.
[6] Freud (1913).
[7] Freud (1929), p. 89.
[8] Saussure (1922), p. 28.
[9] Arendt (1958), p. 20. Nostre le parentesi.
[10] Foucault (1971).
[11] Ivi, p. 5.
[12] Pozzato (2001), p. 213.
[13] Arendt (1958), p. 130.
[14] Foucault (1971), p. 4: «L’istituzione risponde: […] il discorso è nell’ordine delle leggi; […] da tempo si vigila sulla sua apparizione; […] un posto gli è stato fatto, che lo onora, ma lo disarma».
[15] Arendt (1958), p. 129.
[16] Fuocault (1971), p. 5.
[17] Foucault (1971), p. 4.
[18] Hjelmslev (1961).
[19] Ivi, p. 19.
[20] Ivi, p. 20.
[21] Ivi, p. 21.
[22] Borges (1956).
[23] Ivi, p. 73.
[24] Ivi, p. 69. Nostri i corsivi.
[25] Ivi, p. 70. Nostri i corsivi.
[26] Ivi, p. 73.
[27] Aa. Vv. (1968), p.128.
[28] Ivi, p.136.
[29] Ivi, p.134.
[30] Soutet (1995), p. 314.
[31] Ivi, p. 319.
[32] Eco (1979), p. 52.
[33] Pozzato (2001), p. 170.
[34] Ivi, p. 205.
[35] Pozzato (2001), p. 30.
[36] Propp (1928).
[37] Barthes (1964), p. 15. Qui “significazione” può assumere il senso che ci propone la psicologia o la filosofia della mente: significazione come attribuzione di significato sulla base di credenze e intenzionalità particolari, non universalmente valide.
[38] Foucault (1971), p. 13.
[39] Foucault (1971), p. 17.
[40] Ivi, p. 13.
[41] Foucault (1971), p. 20.
[42] Ibidem.
[43] Foucault (1971), p. 23.
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