modalità d'esame

per tutti gli studenti che dovranno sostenere l'esame di
Filosofia del Linguaggio mod.B a.a. 2009/2010


si rende noto che

-Il numero di battute dei propri elaborati dovrà essere compreso tra 14000 e 16000

-Bisognerà postare i propri lavori 14 giorni prima dell'appello scelto per sostenere l'esame

l'indirizzo e-mail a cui chiedere l'autorizzazione per postare è:
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per non avere problemi con le autorizzazioni si invita gli studenti ad utilizzare un indirizzo gmail per inoltrare le proprie richieste
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Programma d'esame

cicli: 07 e precedenti
A partire dalla sessione di giugno 2010 il programma d'esame consiste nello studio di:
-M.P. Pozzato, Semiotica del testo, Carocci
-Barthes, Variazioni sulla scrittura-Il piacere del testo, Einaudi
-Foucault, Ordine del discorso
e nella stesura di un elaborato da postare sul blog

mercoledì 19 maggio 2010

Limiti e possibilità dell’agire linguistico nello spazio pubblico.

Le conclusioni di Foucault

di Annalisa Laganà

«Ogni volta che è in gioco il linguaggio, la situazione diviene politica per definizione, perché è il linguaggio che fa dell’uomo un essere politico»[1].

In questi termini la studiosa tedesca Hannah Arendt (1906 – 1975) sintetizza e ripropone le affermazioni aristoteliche sull’uomo come «zoon politikon»[2] e come «zoon logos echon»[3], quali descrizioni di due aspetti tra loro complementari della natura umana, che si esplica, quindi, necessariamente nello spazio sociale. La culla di uno spazio sociale così inteso è la polis greca che, in quanto struttura pubblica e democratica[4] prototipica, consente al soggetto di esprimere la sua natura sociale nell’isonomia[5] dei cittadini. Tutti, con il logos, partecipano attivamente alla vita politica della città: nella polis tutte le strade portano all’agorà, perché qui si possa esprimere la socialità costitutiva della persona, nel rispetto della libertà di ognuno e nella necessaria limitazione della propria.

Sigmund Freud (1856 – 1939) ipotizzerà l’origine della civiltà proprio sulla base di queste condizioni e limitazioni del singolo che, nonostante la natura asociale e amorale delle sue pulsioni, avverte la necessità biologica (in senso ampio, come condizione di vita) della convivenza con i propri simili[6]. Il principio di realtà, l’assunzione di regole morali – sia sulla linea ontogenetica che su quella filogenetica – limita un aspetto della natura dell’uomo, per far sì che il secondo possa esprimersi:

L’uomo delle origini stava meglio perché non conosceva alcuna limitazione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era ridotta. L’uomo civile ha barattato un po’ della sua possibilità di essere felice con un po’ di sicurezza[7].

Se la felicità dell’uomo ante-sociale coincideva con la sua assoluta libertà, ora la sua sicurezza è determinata dal controllo (autonomo e istituzionale) dei suoi atti di parole[8], dacché «l’azione e […] il discorso […] (sono) due facoltà umane […] complementari e superiori e tutte le altre»[9].

Ecco che la società, perché sia possibile, deve costruirsi secondo due funzioni: deve essere al contempo luogo delle possibilità e luogo dei limiti. In questa direzione esordisce Michel Foucault (1926 – 1984), nel testo della sua lezione inaugurale al Collège de France, L’ordine del discorso[10], quando, presentando la sua tesi generale, afferma:

In ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità[11].

Con queste parole Foucault inizia a confrontarsi con l’enorme potere del linguaggio: gli atti linguistici, infatti, sono da considerarsi azioni che influenzano concretamente le determinazioni della realtà, atti di significazione collocati nella dimensione sociale[12], proprio perché l’azione esige il discorso[13] in tutte le circostanze sociali, in quanto tali istituzionalizzate[14], e «il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile»[15]. Allora, come la prassi sociale si impone alla libertà delle pulsioni dell’individuo, così le «procedure d’esclusione»[16] intervengono a regolare l’ordine del discorso, limitando le possibilità del sistema linguistico nelle sue determinazioni particolari, in rapporto alle convenzioni del vivere in comunità. Il sistema di possibilità linguistico deve adattarsi al sistema di possibilità storico–sociale, senza che tra i due sistemi si possa strutturare un’organizzazione gerarchica; infatti, questi interagiscono sullo stesso livello: in assenza di testo, non si può considerare l’esistenza di vincoli sociali sulla produzione del testo stesso. Questo stato di cose è determinato proprio dal fatto che le circostanze che influenzano la libera produzione linguistica sono variabili nel loro senso, nella loro portata, nelle loro implicazioni, sulla linea diacronica - «il molto provvisorio teatro»[17] - e su quella sincronica – le differenze culturali – e questo impone di adottare procedure che sono valide solo se applicabili a situazioni particolari, senza pretese universalistiche. Un altro motivo sorregge la non applicabilità di norme di limitazione estese a tutta la struttura linguistica: i testi, in quanto atti comunicativi prodotti da sistemi linguistici verbali, dotati di onniformatività semiotica, possono assumere come contenuto tutto il pensabile; per questo i paradigmi limitati sono solo quelli che consentono scambi comunicativi ristretti, come nel caso delle lingue settoriali, che infatti non ammettono alcuna forma di creatività.

A queste condizioni la teoria linguistica di Louis Hjelmslev (1899 – 1965) crolla sui suoi fondamenti[18]; infatti, il linguista danese considerava necessaria una teoria linguistica che acquisisse la stessa oggettività e universalità di applicazione di una teoria matematica, che fosse capace di descrivere e predire «tutti i testi […] possibili o concepibili, compresi testi che non esisteranno fino a domani o più tardi»[19], sulla base dei sistemi linguistici già esistenti. Non solo, la generalità scientifica della teoria linguistica doveva essere tale da permettere di costruire «qualunque testo composto in qualunque lingua»[20]: il teorico del linguaggio, dunque, a qualunque cultura appartenga, deve concepire una teoria che possa applicarsi a lingue che egli non conosce o non ancora esistenti o che non esisteranno mai. Questa convinzione radicale di Hjelmslev palesa come, dagli scopi della teoria linguistica che verte sulla prassi linguistica in quanto suo oggetto di studio, è esclusa la prassi linguistica stessa, in favore di una legge scientifica unificata:

La teoria linguistica non può essere verificata […] con riferimento a […] testi o lingue esistenti. Essa può essere giudicata solo con riferimento al carattere coerente ed esauriente del suo calcolo[21].

Se la teoria di Hjelmslev fosse considerata valida in tutte le sue parti, si negherebbe la rilevanza assegnata al contesto sociale, - nell’interpretazione aristotelica da un lato e foucaultiana dall’altro - nel quale le ragioni originarie del linguaggio si insediano.

La necessità di porre un limite alla prassi linguistica diventa una condicio sine qua non dell’esistenza stessa del linguaggio verbale, le cui strutture non consentono la sussistenza del carattere di una ricorsività davvero illimitata. Questo è quanto emerge anche dalle considerazioni di Louis Borges (1899 – 1986) nel racconto fantastico La biblioteca di Babele [22]. Questo luogo, che è il luogo che comprende tutti i testi possibili (intesi come libri e come atti comunicativi verbali) su «tutto ciò che è dato esprimere in tutte le lingue»[23], compresi elenchi e ripetizioni privi di un senso testuale, si estende in uno spazio ossimorico (anche nel suo significato etimologico, “acutamente folle”) che si dice infinito, ma che si dimostrerà, al contempo, finito, che esiste ab aeterno, ma le cui unità minime sono limitate e calcolabili:

L’universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone di un numero indefinito e forse infinito di gallerie esagonali […]. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente.[24]

E ancora:

A ciascuna parete di ciascun esagono corrispondono cinque scaffali; ciascuno scaffale contiene trentadue libri […]; ciascun libro è di quattrocentodieci pagine; ciascuna pagina di quaranta righe; ciascuna riga di quaranta lettere.[25]

La Biblioteca è totale[26] e la sua totalità suggerisce allo stesso tempo infinità e compiutezza. Il punto medio tra queste due suggestioni sta nel considerare le possibilità della Biblioteca, e quindi del sistema linguistico (entrambi limitati nello spazio e modificabili nel tempo), date in un numero enorme, ma non infinito. Questa conclusione è raggiunta anche dallo studioso tedesco Kurd Lasswitz (1848 – 1910) nel suo racconto breve intitolato La Biblioteca Universale[27]. Qui l’autore fa calcolare al professor Wallhausen la quantità di tutti i volumi che esprimerebbero tutto lo scibile, secondo tutte le combinazioni possibili di lettere; la lunghezza che raggiungerebbero messi tutti su un’unica fila; lo spazio che occuperebbero se racchiusi in un’unica biblioteca. Il professore ottiene quantità incommensurabili, che però, se sottratte a loro stesse danno come risultato zero: «È un numero finito e concettualmente ben definito»[28]. Non solo anche in questo caso il numero di possibilità linguistiche è limitato, ma anche qui si presenta il problema del senso dei testi, che non può dirsi presente in tutte le possibilità contenute nella Biblioteca Universale, infatti, questa comprende «ogni possibile letteratura, sia sensata che priva di senso»[29]. Dunque, rispetto a tutti i testi delle Biblioteche (di Borges e Lasswitz), solo le combinazioni valide consentono di accettare la loro utilizzabilità, e tra queste non possono rientrare elenchi e ripetizioni che, nel contesto sociale in cui vanno a inserirsi, non hanno un senso testuale. Ci suggerisce a proposito il linguista Oliver Soutet:

Indipendentemente dalla situazione enunciativa, ogni elemento del testo, e dunque ogni testo, deve obbedire a una regola basilare: la coesione testuale (o continuità tematica)[30]. L’enunciatore, lungi dal giustapporre atti di linguaggio indipendenti, li subordina in maniera intenzionale in vista di un fine ben preciso[31].

Non solo il testo deve essere di per sé strutturato in modo da manifestare un senso, ma è il lettore stesso, con le sue competenze e a seconda delle sue finalità nel contesto intersoggettivo, che deve attivare quello che Umberto Eco definisce come «meccanismo pigro»[32]. Infatti, qualsiasi produzione linguistica assume la ricchezza che è propria delle lingue verbali non solo in relazione alla sua struttura sintattico - semantica, ma soprattutto rispetto al livello estetico - estesico[33], che indaga e fa emergere tutto ciò che nella comunicazione c’è di extralogico e quindi di dipendente dalla passionalità dei parlanti. Dunque risulta evidente il fatto che le possibilità strutturali della lingua e le possibilità sociali sono tra loro complementari, nella misura in cui «le condizioni storico-sociali costituiscono il “contesto” dei testi propriamente detti»[34]. Le potenzialità onniformative del linguaggio verbale vengono a modellarsi puntualmente sulle condizioni di possibilità sociali in cui il linguaggio verbale stesso si produce, perché, come per qualunque operazione combinatoria, anche la produzione linguistica si muove entro un “quadrato delle possibilità”, come il quadrato semiotico greimasiano[35] che alla presenza di alcune, impone che se ne escludano altre. Si prenda come esempio il modello morfo-sintattico di Vladimir Propp (1895 – 1970) per la scrittura della fiaba[36]: questo sistema non prevede la ricorsività chomskyana; il numero delle possibilità che offre è molto alto, ma non infinito, perché affinché si produca un testo fiabesco, è necessario rispettare norme e condizioni che non consentono di uscire da un percorso ben definito, determinato dai caratteri stessi della fiaba, tanto che in questo caso i testi non sono divisi in frasi, ma in situazioni.

Da questo esempio emerge come il testo sia una selezione di combinazioni nella lingua e secondo la grammatica, e la selettività insita nei sistemi di possibilità dei testi si estende non solo ai modi, ma anche ai luoghi in cui i testi vengono prodotti. Le condizioni di esistenza di un testo sono date dai rapporti in assenza delle possibilità sull’asse paradigmatico, per cui un testo possibile a certe condizioni, in un certo contesto sociale, esclude gli altri testi possibili ad altre condizioni, in altri contesti sociali. Roland Barthes (1915 – 1980) ha riconosciuto in questo collegamento diretto tra struttura linguistica e contenuti sociali, «l’unità delle ricerche che vengono attualmente condotte nell’antropologia, nella sociologia, nella psicoanalisi e nella stilistica intorno al concetto di significazione»[37], e su questo ha rovesciato l’idea saussuriana della semiologia.

Se da un lato si è costretti nella lingua a produrre testi che rispettino gli accordi sintattici e morfologici tra le parti costitutive del discorso, dall’altro si è subordinati nella prassi linguistica a procedure convenzionali che regolino l’espressione di questi stessi testi. Foucault ce ne propone di diversi tipi. L’interdetto, la partizione, la volontà di verità, tutte diverse nella loro genesi e nelle loro implicazioni, ma tutte accomunate dal loro essere strumenti per controllare l’ordine dell’agire pubblico. In alcuni casi è il discorso stesso a limitarsi con la sua funzione metalinguistica: si tratta del commento che «scongiura il caso del discorso assegnandogli la sua parte»[38]. In altri casi è l’autore a intervenire come colui che stabilisce l’orientamento del testo e ne determina le condizioni di validità e di coerenza, attraverso un’operazione di ritaglio entro tutto il dicibile. E ancora, il modo stesso di organizzarsi del discorso nelle diverse classificazioni in discipline, che pongono il vincolo di un sistema formale entro il quale il discorso deve porsi senza poter valicare un ben definito «orizzonte teorico»[39]. Tutte operazioni che mirano a rarefare il discorso[40] - dice Foucault – a indebolirne la forza riducendone la libertà.

D’altro canto esistono anche procedure che controllano i soggetti parlanti, le loro competenze per entrare nell’ordine del discorso. Il rituale, tra tutte, è la forma che si richiama nel modo più diretto alla collocazione sociale dell’individuo:

I discorsi religiosi, giudiziari, terapeutici e in parte anche quelli politici, non sono quasi dissociabili dalla utilizzazione di un rituale che determina per i soggetti parlanti sia proprietà singolari che ruoli convenuti[41].

Diversamente ancorate allo spazio di diffusione del discorso sono le «società di discorso»[42], il cui accesso non è consentito ai più in modo da garantire la conservazione di un sapere elitario. Ciò che potrebbe sembrare opposto a una società di discorso è la dottrina, che però, a dispetto delle apparenze, non fa che diffondere i propri dogmi differenziando in modo netto la sua identità rispetto a quella delle altre dottrine, cosicché i discorsi del soggetto siano ingabbiati in essa. Infine l’educazione, che tanta parte prende nella determinazione dei modi di inserimento di un soggetto nello spazio comune: essa non è che «un modo politico di mantenere o di modificare l’appropriazione dei discorsi, con i saperi e i poteri ch’essi comportano»[43].

Attraverso tutte queste modalità si applica un assoggettamento istituzionale del discorso, che diventa una condizione necessaria e in fin dei conti consequenziale alla natura del discorso stesso. Il discorso, infatti, non è un insieme omogeneo di oggetti; i discorsi sono costitutivamente diversi gli uni dagli altri, sono originali, sono unici perché ogni volta creati da soggetti diversi in situazioni diverse. Proprio in questa mancanza di unità, nella inapplicabilità dell’omologazione ai discorsi sta la ricchezza del linguaggio verbale, casuale perché dipende dal caso e dai casi, che negano di poter determinare l’esistenza di caratteri universali.



[1] Arendt (1958), p. 3.

[2] Politica, Libro I, 1253a.

[3] Ibidem.

[4] In senso forte, luogo di scambio sociale per eccellenza.

[5] L’isonomia era concessa solo agli uomini liberi, ma questo esula dal nostro discorso.

[6] Freud (1913).

[7] Freud (1929), p. 89.

[8] Saussure (1922), p. 28.

[9] Arendt (1958), p. 20. Nostre le parentesi.

[10] Foucault (1971).

[11] Ivi, p. 5.

[12] Pozzato (2001), p. 213.

[13] Arendt (1958), p. 130.

[14] Foucault (1971), p. 4: «L’istituzione risponde: […] il discorso è nell’ordine delle leggi; […] da tempo si vigila sulla sua apparizione; […] un posto gli è stato fatto, che lo onora, ma lo disarma».

[15] Arendt (1958), p. 129.

[16] Fuocault (1971), p. 5.

[17] Foucault (1971), p. 4.

[18] Hjelmslev (1961).

[19] Ivi, p. 19.

[20] Ivi, p. 20.

[21] Ivi, p. 21.

[22] Borges (1956).

[23] Ivi, p. 73.

[24] Ivi, p. 69. Nostri i corsivi.

[25] Ivi, p. 70. Nostri i corsivi.

[26] Ivi, p. 73.

[27] Aa. Vv. (1968), p.128.

[28] Ivi, p.136.

[29] Ivi, p.134.

[30] Soutet (1995), p. 314.

[31] Ivi, p. 319.

[32] Eco (1979), p. 52.

[33] Pozzato (2001), p. 170.

[34] Ivi, p. 205.

[35] Pozzato (2001), p. 30.

[36] Propp (1928).

[37] Barthes (1964), p. 15. Qui “significazione” può assumere il senso che ci propone la psicologia o la filosofia della mente: significazione come attribuzione di significato sulla base di credenze e intenzionalità particolari, non universalmente valide.

[38] Foucault (1971), p. 13.

[39] Foucault (1971), p. 17.

[40] Ivi, p. 13.

[41] Foucault (1971), p. 20.

[42] Ibidem.

[43] Foucault (1971), p. 23.


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Da "L'ordine del discorso" di Michel Foucault

IL DISORDINE DEL DISCORSO

di Amedeo De Miglio

L’ordine del discorso è il testo della lezione inaugurale che Foucault ha tenuto nel dicembre del 1970.

Foucault esamina le procedure che controllano, selezionano, organizzano e distribuiscono la produzione del discorso per scongiurarne i poteri e i pericoli. Il discorso, quindi, ha una sua materialità e le procedure che lo regolano dovrebbero depotenziarne questa materialità.

Parlare di limitare e controllare il discorso oggi, sembra quantomeno un grosso azzardo. Le possibilità di comunicazione che il web ci apre in continuazione sono sicuramente enormi, di conseguenza parlare di controllo è quasi impossibile e le procedure d’esclusione che Foucault ci propone sono aggirabili dalla illimitata capacità che la Rete ci offre.

Non tutti possono produrre ogni tipo di discorso ma tutti, almeno, possono provare tipologie di discorso che non potrebbero fare se ci fossero limiti.

Tra le procedure d’esclusione che Foucault ci propone, la prima è quella dell’interdetto. Foucault dice appunto che “chiunque non può parlare di qualunque cosa” e quindi il discorso non è accessibile a chiunque. Il discorso è un potere ed un elemento di lotta tra le forze contrapposte.

Del resto il discorso, come il linguaggio, è visto da sempre come la capacità dell’uomo di pensare e di distinguersi dal resto degli esseri viventi. L’uomo, avendo la possibilità di scegliere, ha deciso di impadronirsi del linguaggio per farne una sua potenza specifica e ha messo in gioco nel linguaggio la sua stessa natura.

Se il discorso è visto come un potere, il suo controllo e limitazione oggi sono molto difficili.

Un’altra procedura d’esclusione è la partizione (o partage) nella quale Foucault descrive l’opposizione tra ragione e follia. La partizione è tra le parole sensate e quelle senza senso del folle.

Secondo Foucault, anche oggi esistono meccanismi di partizione che si sviluppano su basi e istituzioni differenti. La parola del folle o non veniva proprio ascoltata o, se lo era, veniva presa come una parola di assoluta verità. Oggi tutto viene ascoltato, e alcune parole hanno una forza talmente invadente da non risultare, agli occhi di molti, come non veri. In questo contesto, forse, un minimo di partizione risulta esserci visto che , molto probabilmente, la “ragione non è in silenzio”.

Una terza procedura d’esclusione è quella del vero contro il falso. Vero e falso sono in continuo movimento che mutano storicamente. Foucault dice infatti che storicamente, nella Grecia del VI secolo, il discorso era vero se era pronunciato da una autorità che ne aveva i diritti. Un secolo dopo il discorso era vero in base a quello che diceva e non in base a chi lo diceva. La nostra volontà di sapere cambia e di conseguenza quello che interessa del discorso è che soddisfi dei canoni di veridicità.

Queste procedure d’esclusione concernono tutte il desiderio e il potere, infatti la volontà di verità dovrebbe avere la precedenza sugli altri discorsi proprio perché parola del potere. Le istituzioni sulle quali poggia la volontà di verità e di sapere, oggi sono cambiate. Un tempo, come ci ricorda Foucault, c’erano anche i circoli eruditi, ma adesso esistono i laboratori e ovviamente le più classiche biblioteche. Accanto alle istituzioni classiche, oggi abbiamo la possibilità di poggiarci su una istituzione moderna, immensa e disponibile ovunque, la Rete. Se da un lato abbiamo la possibilità di conoscere sempre più velocemente, da un altro si è tornati quasi ai tempi della Grecia del VI secolo. Fonti sempre meno autorevoli dicono tutto di tutti e di nuovo la verità sembra essersi spostata all’atto ritualizzato anziché all’enunciato e al suo significato.

Foucault descrive comunque altre procedure di controllo e delimitazione che, a differenza di quelle d’esclusione, sono interne al discorso.

La prima di queste procedure è il commento. Per Foucault ci sono i discorsi che si dicono ma non restano e passano nel momento stesso in cui vengono detti e poi ci sono i discorsi che originano nuovi atti e che vengono trasmessi. Una volta che si ripropone il discorso, se ne possono costruire di nuovi. Il commento infatti è un discorso che non nasce dal caso ma, partendo da un discorso precedente, dice cose diverse. Infatti come dice Foucault, nel commento “il nuovo non è in ciò che è detto, ma nell’evento del suo ritorno”. Ritorno che è cosa possibile quando si parla ovviamente della rete. In questo caso si potrebbe dire che il ritorno è qualcosa di inevitabile e che riproporre e riattualizzare un discorso moltiplicando il proprio senso è forse una delle caratteristiche principale del web. La riproposizione di un discorso con un commento diverso è un’esperienza che possiamo trovare giornalmente.

La seconda procedura è quella dell’autore con il quale, ovviamente, Foucault non intende un autore che scrive un testo ma “l’autore come principio di raggruppamento dei discorsi, come unità di origine dei loro significati”. La figura dell’autore va dunque oltre la sua presenza materiale. Mentre il commento ripete quello che esiste, l’autore cerca di dare coerenza e individualità a queste infinite forme che il discorso può formare. Per l’autore è importante l’individualità e l’io nella formazione del discorso, quindi è come se precedesse la fase del commento che invece reinterpreta il già detto. Credo che l’autore sia molto importante anche per la coerenza che l’infinito mondo della Rete dovrebbe avere ma che non ha e che forse non avrà mai.

Una terza procedura è quella dell’organizzazione delle discipline. Nel commento c’è un senso che deve essere riscoperto, nella disciplina invece ci deve essere la costruzione di nuovi enunciati. Quindi, affinché ci sia disciplina, ci deve essere la possibilità di formulare nuove proposizioni.

Foucault a questo punto ci fa notare che non tutto quello che di vero può essere detto può appartenere ad una disciplina. Infatti in una disciplina ci sono anche errori e di conseguenza la verità deve essere esposta seguendo determinate regole e avere determinati contenuti.

Quindi una proposizione può appartenere ad una determinata disciplina se condivide con questa i campi teorici. Qui si nota chiaramente come la disciplina è un principio di controllo della produzione del discorso, proprio perché non tutto, anche se vero, può appartenere a tutte le discipline ma deve basarsi alle regole della disciplina, di conseguenza c’è un controllo e una limitazione del discorso.

Nella Rete troviamo discorsi che appartengono a diverse discipline, e questi hanno comunque un certo grado di coerenza per essere inseriti. La procedura della disciplina è senza dubbio quella che fino a questo punto si è mantenuta con un controllo anche nella Rete anche se, come più volte detto, non c’è mai l’assoluto controllo quando si parla dell’infinito mondo di internet. Però bisogna sottolineare che, forse, un controllo e una limitazione totale manca anche al di fuori della Rete. Ecco perché, infatti, Foucault descrive queste procedure.

Foucault dice che esiste un terzo gruppo di procedure per controllare i discorsi. Quello che interessa in queste, sono le condizioni per la loro attuazione cioè di regole che non consentano a tutti di accedere al discorso. Non si potrà entrare nel discorso o meglio nell’ordine del discorso, se non si soddisfano alcune esigenze. Foucault a tal proposito dice che esistono alcune parti del discorso che risultano più protette mentre ce ne sono altre che sono aperte a chiunque senza restrizioni e che tutti i soggetti parlanti possono averle a disposizione.

Una di queste forme di restrizione è il rituale che definisce le qualità che deve avere l’individuo che parla, il quale deve parlare, agire e muoversi secondo modi convenzionali e che risultano quindi restrittive. Queste proprietà restringono quindi il campo di chi può partecipare al rito del discorso e chi no.

Un altro esempio di procedura di limitazione è rappresentato dalle società di discorso che hanno la funzione di conservare e di proteggere i discorsi facendoli circolare in ambienti chiusi e distribuendoli secondo regole restrittive. Foucault ipotizza che le società di discorso esistano ancora oggi, secondo regole diverse. Una figura che fa esistere una società di discorso è quella dello scrittore che si differenzia da ogni altro soggetto parlante con la sua singolarità e individualità che ha con la scrittura. Oltre allo scrittore ci sono altre società di discorso “moderne”, come quelle di divulgazione scientifica o medica o politica ed economica.

Ci sono poi le dottrine che hanno una natura esattamente opposta a quella delle società di discorso. La dottrina infatti si diffonde e quindi non fa circolare i discorsi in ambienti chiusi. Hanno la caratteristica di avere un insieme di discorsi che definiscono l’appartenenza degli individui alla dottrina. Infatti la condizione necessaria per appartenere ad una dottrina è il riconoscimento delle stesse verità.

Infine abbiamo l’appropriazione sociale dei discorsi. La distanza tra le classi sociali è un importante segno della diversa educazione che viene impartita e che conseguentemente distribuisce divieti e permessi diversi. Per Foucault infatti “ogni sistema di educazione è un modo politico di mantenere o di modificare l’appropriazione dei discorsi, con i saperi ed i poteri che essi comportano”.

All’interno di queste procedure di restrizione possiamo trovare spunti molto interessanti. La distanza tra le classi sociali implica un certo grado di appartenenza culturale e sociale, appunto, tra i soggetti protagonisti. All’interno del web queste appartenenze e distanze si restringono in maniera importante, facendo risultare molto vicini classi socialmente molto distanti. Lo status che si può avere su internet è, nella maggior parte dei casi, molto diverso da quello che si ha realmente e non virtualmente. Potrei appartenere ad una dottrina virtuale e allo stesso tempo appartenere ad una società di discorso creata sul web. Potrei appropriarmi dei divieti che la classe sociale mi ha imposto, semplicemente fingendo di essere quello che non si sono. Il rituale sembra essere l’unica restrizione che è più difficile aggirare. Ogni restrizione è tale se mantenuta nei limiti delle proprie possibilità. I suoi limiti non superano la soglia della Rete, ma è la Rete stessa che molto spesso si impadronisce e supera i limiti che le sarebbero consentiti. Come ho già detto ”non tutti possono produrre ogni tipo di discorso ma tutti, almeno, possono provare tipologie di discorso che non potrebbero fare se ci fossero limiti”.

Per portare avanti il suo lavoro, Foucault spiega i principi metodologici che intende seguire:

-Nel principio di rovesciamento Foucault dice che nell’autore, nella disciplina e nella volontà di verità c’è una rarefazione del discorso e quest’ultimo non fluisce in maniera libera ma ci sono appunto delle restrizioni.

-Il principio di discontinuità dice che i discorsi sono, appunto, pratiche discontinue. Non è una conseguenza logica il fatto che esistendo i sistemi di rarefazione del discorso, aldilà di questi ci possano essere dei discordi illimitati, come se ci fosse un qualcosa che non è stato detto che bisogna portare alla luce. Non esistono per forza dei discorsi non detti esclusivamente perché c’è stato un controllo e una rarefazione. Essendo discontinui, i discorsi, si incrociano ma tante volte si ignorano e si escludono.

-Con il principio di specificità Foucault spiega che “il mondo non è complice della nostra conoscenza” e cioè che il discorso non spiega la natura delle cose. Bisogna capire che il discorso è solo una “pratica che si impone alle cose” e che rende regolari gli eventi.

-Il quarto principio, quello dell’esteriorità, dice che non bisogna andare a cercare il contenuto interno e nascosto del discorso, ma bisogna partire dal discorso che si è manifestato cercando di capire le sue possibilità e i suoi limiti.

L’analisi del discorso, in sostanza, cerca di capire quali siano quei discorsi che possono turbare e destabilizzare l’ordine e i poteri che nascono dal discorso. In tal modo si cerca di escludere questi discorsi destabilizzanti. L’ordine del discorso che si è stabilito nella nostra società, tramite le procedure di esclusione e controllo è in serio pericolo dalla onnipresenza, dalle infinite possibilità della Rete. Internet ha ampliato a dismisura il numero dei parlanti e della loro assoluta (o quasi) libertà di espressione. Internet ha ampliato i discorsi in maniera non controllata e i confini di esclusione del discorso presentati e spiegati da Foucault sembrano allargarsi, proprio grazie (o a causa) della velocità della Rete. Non tutti potrebbero dire tutto, ma tutti sembrano avere l’autorità di farlo anche a causa di un anonimato che non ci fa avere la piena responsabilità del potere del discorso e del linguaggio.

Giorgio Agamben nel suo libro “Il sacramento del linguaggio” ricorda una frase di Foucault e cioè che l’uomo è “un animale nella cui politica ne va della sua vita di essere vivente” e Agamben aggiunge che l’uomo è anche il vivente nella cui lingua ne va della sua vita”. Questo significa che l’uomo non ha solo acquisito il linguaggio ma ne ha fatto una sua potenza specifica e ha messo nel linguaggio la sua natura. Cioè l’uomo ha deciso di legare alla sua parola il suo destino. L’anonimato che garantisce internet non è sicuramente una presa di responsabilità dell’uomo, del potere che ha riconosciuto alla sua parola. Il controllo e le esclusioni che dovrebbero intervenire per evitare destabilizzazioni, sono pressoché impossibili su internet. Le incredibili possibilità di comunicazione del discorso che ci apre internet, sono da ostacolo alla limitazione della produzione del discorso. L’evoluzione che c’è stata dalla nascita di internet, è avvenuta e avviene con una velocità incredibile e la sua capacità di mutare e di evolversi ne fanno uno strumento sempre più utilizzato e sfruttato. In tutto questo l’ordine cessa di esserci e il disordine del discorso prende vita.