Per capire il pensiero dello storico e filosofo francese Michel Foucault credo che bisogna partire dalla fine. Negli ultimi anni della sua vita (muore il 25 giugno del 1984) egli si concentra ad affrontare, nelle sue lezioni, il problema del sorgere dell'attitudine critica delle filosofie dell'Occidente e quello di un'etica della verità. Il testo che inizierà a guidarci nella sua evoluzione filosofica è Discorso e verità nella Grecia antica, che fu ricavato dalla trascrizione del corso tenuto in inglese all'università di Berkeley nell'autunno del 1983. Questo lavoro intendeva mostrare come lo studio di pratiche e aspetti del mondo antico permise di aprire nuove dimensioni di analisi, capaci di fornire strumenti utili per quello che è sempre stato l’obiettivo di tutta la sua ricerca storica e filosofica: una diagnosi dell’attualità ed una "critica permanente del nostro essere storico".
Lo studio foucaultiano del mondo antico ci conduce dunque al cuore di temi che animano il dibattito filosofico attuale, come quelli della soggettività moderna e delle sue relazioni complesse con i rapporti di potere e con le pratiche di verità. Tutto ha inizio con la parola parresia. Essa compare per la prima volta in Euripide (V secolo a.C), ricorre in tutto il mondo letterario greco fin nei testi patristici del V secolo d.C.. Da allora se ne perdono le tracce e, con le tracce, anche il coraggio di "dire la verità".Bravo chi corre il rischio di essere punito. Ma perché Foucault parla di coraggio? Gli antichi greci avevano stabilito che per dire la verità occorre "dire tutto" ciò che si ha in mente. La stessa etimologia della parola parresia rinvia a pan (tutto) e rhema (ciò che viene detto). Nella parresia si suppone che non ci sia differenza tra ciò che uno pensa e ciò che dice.
L'esatto contrario della virtù di Ulisse che i greci chiamavano phronesis e noi, scorrettamente, ma forse coerentemente con la nostra indole, traduciamo con astuzia. Ma dire tutto non sempre è un pregio. Platone ad esempio ritiene pericoloso per una buona democrazia rivolgersi ai propri concittadini e dir loro qualunque cosa anche la più stupida o la più offensiva che viene in mente. Questo cattivo uso della parresia è menzionato di frequente nella letteratura cristiana dove si indica, come rimedio, il silenzio. Per un corretto impiego della parresia è necessario che chi vi ricorre abbia delle qualità morali e soprattutto il coraggio di correre un rischio o un pericolo conseguente a ciò che dice. Buoni saranno allora quei consiglieri del sovrano se, dicendo la verità, corrono il rischio di essere puniti, esiliati o uccisi, così buono sarà quel governante che, dicendo ciò che ha davvero in mente, rischia di perdere la popolarità, la maggioranza, il consenso. Usare la parresia, dire la verità, quando non diventa un gioco di vita e di morte come nel caso di Socrate, resta sempre una sfida al potere in cui Foucault vede l' origine dell'esercizio della critica. Per il greco antico questo esercizio è autentico solo quando chi lo esercita corre qualche rischio, in caso contrario è cattiva parresia. Ma ognuno sa, che oltre agli interlocutori esterni, ciascuno ha un interlocutore interno a cui dire la verità. Qui la critica diventa "autocritica", capacità di dire la verità a se stessi, in linea con il messaggio dell' oracolo di Delfi: "Conosci te stesso". Forse tutte le pratiche psicoanalitiche, con la complicazione dei loro linguaggi, non hanno ancora raggiunto la semplicità di questo messaggio a cui ci conduce il buon uso della parresia: dire a se stessi, almeno a se stessi, la verità. Si concentrano così in una parola semplice una serie di virtù morali e civili a cui dovrebbero attenersi gli abitanti della città e soprattutto chi li governa. Chi pratica la parresia dimostra infatti di avere uno specifico rapporto con la verità attraverso la franchezza, una certa relazione con la vita attraverso il rischio e il pericolo, una comunicazione autentica con gli altri e con se stessi attraverso la critica e l'autocritica, un significativo rapporto con la legge morale attraverso la libertà e il dovere di dire la verità. Nasce allora quel cittadino che è libero perché sceglie di parlar franco invece di irretire l'interlocutore con gli inganni della persuasione, sceglie la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio della vita invece della sicurezza.
Per arrivare a questa conclusione Foucaul analizza il discorso.La tesi di Foucault rende espliciti i meccanismi di controllo, selezione, organizzazione e distribuzione della produzione del discorso presenti in ogni società. Questo avviene tramite certe procedure che depotenziano la materialità del discorso e che riguardano il desiderio ed il potere. Tra le procedure di esclusione la prima è quella dell’interdetto. Tabù rituali, diritto di parlare o meno di qualcosa, esclusività di esporre un argomento: sono questi i tipi d’interdetto che rendono il discorso non accessibile a chiunque ed ovunque. Questo perché il discorso non è solo manifestazione (o negazione) di un desiderio, ma è elemento di lotta nel gioco di forze contrapposte, ovvero nelle dinamiche del potere. Esso stesso è un potere (esempi posti da Foucault: regioni della sessualità e della politica).
Altra procedura d’esclusione è la partizione e/o rigetto della follia.“E’ curioso constatare come per secoli in Europa la parola del folle o non era intesa, oppure, se lo era, veniva ascoltata come una parola di verità”. Anche oggi, per Foucault, esistono meccanismi di partizione, che però sono azionati in virtù di nuove istituzioni, con nuovi effetti. Un terzo livello è quello del vero contro il falso. Vero e falso sono concetti contingenti alla storia, in continuo movimento, sorretti da istituzioni che usano anche la coercizione per imporre la “verità” accettabile. Non è nel livello della proposizione dove Foucault situa la partizione vero/falso, ma su una scala più ampia, quella che considera la volontà di verità degli uomini lungo il corso della storia. Storicamente, per esempio, Foucault cita la Grecia del VI secolo, dove il discorso era vero se era pronunciato dalla autorità legittimata secondo una ritualizzazione canonica; un secolo dopo il discorso era vero in base a quello che effettivamente diceva. E’ la volontà di sapere che muta, e che pone l’osservatore da una prospettiva che deve soddisfare dei canoni di veridicità.
Parlando della “nostra” società, Foucault dice: “..Questa volontà di verità, come gli altri sistemi d’esclusione, poggia su di un supporto istituzionale: essa è rinforzata, e riconfermata insieme, da tutto uno spessore di pratiche come la pedagogia, certo, come il sistema dei libri..” .
Ciò che conta, quindi, è come la società valorizza, distribuisce e attribuisce il sapere (e la verità). Il discorso della verità, la volontà di verità, istituzionalmente sanzionata, preme sugli altri discorsi, perché parola del potere.
In sintesi Foucault ritiene che in ogni società la produzione del discorso è controllata,selezionata e organizzata in modo da scongiurarne i pericoli e i poteri. I discorsi però si inseriscono in una trama di rapporti di potere che permea ogni società: essi sono pratiche che dipendono dal potere, ma che generano anche potere. Il tema del potere- e di qui sulla costituzione del soggetto moderno e della corporeità: come il meccanismo delle relazioni di potere forma e utilizza il corpo; come il soggetto viene continuamente attraversato e costruito dalla rete del potere- diviene centrale nella filosofia dell'ultimo Foucault, a partire dalla lezione inaugurale al Collège de France, L'ordine del discorso , e poi nello studio sull'origine del sistema carcerario, intitolato Sorvegliare e punire (1975). Foucault fa ancora una volta riferimento a Nietzsche, che viene ora definito 'il filosofo del potere'. Nietzsche, infatti, ha il merito di aver mostrato che ogni discorso, implicando una volontà di verità, ha insita in sè la volontà di potenza e che una delle procedure di selezione e di interdizione con cui il potere opera sui discorsi è data dall'opposizione tra vero e falso. Non solo, ma Nietzsche ha indicato nella genealogia il metodo che permette di individuare i modi in cui i discorsi si generano e scompaiono, senza postulare un ordine necessario o un senso unitario della storia. Foucault dice che ' ogni società ha il suo proprio ordine della verità, la sua politica generale della verità: essa accetta cioè determinati discorsi, che fa funzionare come veri '. Questo vuol dire che sapere e potere sono indisgiungibili , in quanto l'esercizio del potere genera nuove forme di sapere e il sapere porta sempre con sè effetti di potere. Per potere però, spiega Foucault, non si deve intendere quello che emana da un soggetto cosciente, un sovrano, e si traduce in leggi positive; si tratta invece del potere impersonale, onnipresente, che non ha dimora fissa, ma opera tramite meccanismi anonimi in ogni anfratto della società. Sotto questa luce, il potere è un insieme di rapporti di forza , diffusi localmente, non riconducibili ad una sola sede e così Foucault contrappone la propria microfisica del potere , mirante all'analisi delle molteplici e diffuse strategie di soggiogamento, alla macrofisica, propria della teoria di Marx, ad esempio, che dà più spazio all'opposizione tra dominatori e dominati. Di fatto, spiega Foucault, si è sempre allo stesso tempo ambo le cose, dominatori e dominati: si potrà essere dominati in fabbrica ma, magari, dominatori in famiglia. Rispetto a questi poteri così decentrati e variamente connessi la resistenza può essere condotta non da un'unica forza organizzata in partito, ma solo in lotte parziali, in una miriade di luoghi da parte di forze mobili e continuamente cangianti. I dispositivi di potere, attuando selezioni e interdizioni, impediscono il libero proliferare dei discorsi e originano una società disciplinare, che trova espressione nelle istituzioni del carcere, dell'ospedale, dell'esercito, della scuola, della fabbrica, dove sono attuate strategie di controllo, anche del corpo, esami, sanzioni. Il potere, però, non ha solo questa funzione spregevole, ma ne ha anche una positiva e apprezzabile: produrre nuovi ambiti di verità e nuovi saperi. A questo proposito potremmo chiamare in causa Jürgen Habermas che si propone di fondare una forma di razionalità critica e illuminista. Il tentativo di Habermas parte da un concetto di verità intersoggettiva e dal progetto di realizzare un'etica del discorso o della comunicazione, il cui presupposto teorico più vicino è la teoria dell'argomentazione retorica. La sua prospettiva si inscrive in un paradigma trascendentale costruito sull'ideale di una comunicazione illimitata dei soggetti, dove la nozione di verità e di obiettività sono riformulate all'interno del dominio della comunicazione e delle condizioni dell'argomentazione, e, per questo non può non sottovalutare il divenire e le differenze esistenti fra i partecipanti del discorso. La riflessione di Habermas tenta di fornire un'alternativa al pensiero costruito sul mito dell'autocoscienza del soggetto, che caratterizza la modernità, tramite l'instaurazione della dimensione intersoggettiva del linguaggio e di una ragione comunicativa. L'orizzonte dell'agire comunicativo produce un mutamento del paradigma, in quanto si passa dalla teoria del soggetto a quella dell'intesa comunicativa ed intersoggettiva, dove ciò che domina è la cultura del discorso come condizione implicita dei rapporti umani e l'accordo tra i partecipanti è raggiunto tramite forza dell'argomento migliore. Questa connessione tra verità e discorso fornisce la base per radicare il concetto di verità consensuale proposta da Habermas nella teoria dell'argomentazione. Secondo egli la comunicazione però può anche essere prigioniera della falsa coscienza ed essere perturbata da fraintendimenti e da incomprensioni prodotte da un'organizzazione difettosa del discorso. Per ovviare a questa comunicazione “distorta” l'argomentazione deve rispettare precise condizioni di svolgimento che garantiscono che il consenso sulla verità sia raggiunto nella situazione linguistica ideale, in cui è possibile un'intesa universale non coattiva, cioè non prodotta dalla forza dell'ideologia.
Oggi, stando a Foucault, psicanalisi, linguistica ed etnologia hanno decentrato l'uomo come soggetto, portando alla luce le leggi inconsce che presiedono ai suoi desideri, al suo linguaggio, alle sue stesse azioni e i meccanismi di produzione dei discorsi mistici: chi parla non è propriamente l'uomo, ma è la parola stessa . Questi temi, che hanno convinto Foucault ad avvicinare, nonostante le sue smentite, allo strutturalismo, sono state proseguite e approfondite in L'archeologia del sapere (1969) . Oggetto di quest'archeologia non sono le tradizioni, gli autori, le opere o le discipline, che rinviano tutte ad un soggetto cosciente come centro portante produttore di esse; essa ha invece il compito di dissotterrare e descrivere le regole che in una data epoca e società definiscono ' i limiti e le forme di dicibilità ', che determinano di che cosa è possibile parlare, che cosa si può costruire come sfera del discorso e quali sono le pratiche discorsive ammesse ed esercitate di fatto. I discorsi non sono sistemi di segni che rimandano ad altro, ma ' pratiche che formano sistematicamente gli oggetti di cui parlano ': essi sono dunque autosufficienti, si autoregolano e non sono riconducibili ad una causa o a un fondamento unico esterno ad essi, nè ad un soggetto trascendentale o empirico, nè a condizioni economiche e storico-sociali, nè allo spirito dei tempi.
E’ importante sottolineare, in ultima analisi, come Foucault respinga una concezione riduttiva del linguaggio - e quindi dei discorsi - semplicemente come insieme di segni, in termini cioè di referenti e di parole che ricalcano, in maniera neutra, gli oggetti; segni che rinviano a contenuti e rappresentazioni che esistono già, prima ancora di essere nominate. Per Foucault i discorsi sono piuttosto delle pratiche che formano sistematicamente gli oggetti di cui parlano , sono complessi macchinari capaci di escludere dalla loro trama tutto ciò che non sono in grado di assimilare; sono da considerare nell’ordine dell’evento (événement), quindi non, ermeneuticamente, appartenenti al campo del testuale, della parola ridotta a puro segno, che riceve senso e significato a partire da qualcosa che le è esterno. Foucault parla piuttosto di enunciato, che include in sé, nella forma della compresenza e della simultaneità, chi parla, il testo che parla, e ciò di cui si parla, in un immanenza che non necessita di alcun rimando a referenti originari.
Mariastella Rango
BIBLIOGRAFIA
Discorso e verità nella Grecia antica, Michel Foucault a cura di Adelina Galeotti Donzelli Editore, Roma 1996
Sorvegliare e punire: nascita della prigione, Michel Foucault, Einaudi, Torino 1976.
L'archeologia del sapere,Michel Foucault, Rizzoli, Milano 1971.
Il Discorso e la società. La retorica nel pensiero del Novecento, Giuseppe Iannantuono, Paravia scriptorium