modalità d'esame

per tutti gli studenti che dovranno sostenere l'esame di
Filosofia del Linguaggio mod.B a.a. 2009/2010


si rende noto che

-Il numero di battute dei propri elaborati dovrà essere compreso tra 14000 e 16000

-Bisognerà postare i propri lavori 14 giorni prima dell'appello scelto per sostenere l'esame

l'indirizzo e-mail a cui chiedere l'autorizzazione per postare è:
foucaultbarthes0910@gmail.com

per non avere problemi con le autorizzazioni si invita gli studenti ad utilizzare un indirizzo gmail per inoltrare le proprie richieste
Gli studenti che hanno usato il proprio account @mondoailati.unical.it per postare su altri blog relativi agli esami di Informatica, sono pregati di creare COMUNQUE un nuovo account

Programma d'esame

cicli: 07 e precedenti
A partire dalla sessione di giugno 2010 il programma d'esame consiste nello studio di:
-M.P. Pozzato, Semiotica del testo, Carocci
-Barthes, Variazioni sulla scrittura-Il piacere del testo, Einaudi
-Foucault, Ordine del discorso
e nella stesura di un elaborato da postare sul blog

domenica 4 luglio 2010

La verità sul pensiero di Foucault

Per capire il pensiero dello storico e filosofo francese Michel Foucault credo che bisogna partire dalla fine. Negli ultimi anni della sua vita (muore il 25 giugno del 1984) egli si concentra ad affrontare, nelle sue lezioni, il problema del sorgere dell'attitudine critica delle filosofie dell'Occidente e quello di un'etica della verità. Il testo che inizierà a guidarci nella sua evoluzione filosofica è Discorso e verità nella Grecia antica, che fu ricavato dalla trascrizione del corso tenuto in inglese all'università di Berkeley nell'autunno del 1983. Questo lavoro intendeva mostrare come lo studio di pratiche e aspetti del mondo antico permise di aprire nuove dimensioni di analisi, capaci di fornire strumenti utili per quello che è sempre stato l’obiettivo di tutta la sua ricerca storica e filosofica: una diagnosi dell’attualità ed una "critica permanente del nostro essere storico".
Lo studio foucaultiano del mondo antico ci conduce dunque al cuore di temi che animano il dibattito filosofico attuale, come quelli della soggettività moderna e delle sue relazioni complesse con i rapporti di potere e con le pratiche di verità. Tutto ha inizio con la parola
parresia. Essa compare per la prima volta in Euripide (V secolo a.C), ricorre in tutto il mondo letterario greco fin nei testi patristici del V secolo d.C.. Da allora se ne perdono le tracce e, con le tracce, anche il coraggio di "dire la verità".Bravo chi corre il rischio di essere punito. Ma perché Foucault parla di coraggio? Gli antichi greci avevano stabilito che per dire la verità occorre "dire tutto" ciò che si ha in mente. La stessa etimologia della parola parresia rinvia a pan (tutto) e rhema (ciò che viene detto). Nella parresia si suppone che non ci sia differenza tra ciò che uno pensa e ciò che dice.
L'esatto contrario della virtù di Ulisse che i greci chiamavano phronesis e noi, scorrettamente, ma forse coerentemente con la nostra indole, traduciamo con astuzia. Ma dire tutto non sempre è un pregio. Platone ad esempio ritiene pericoloso per una buona democrazia rivolgersi ai propri concittadini e dir loro qualunque cosa anche la più stupida o la più offensiva che viene in mente. Questo cattivo uso della parresia è menzionato di frequente nella letteratura cristiana dove si indica, come rimedio, il silenzio. Per un corretto impiego della parresia è necessario che chi vi ricorre abbia delle qualità morali e soprattutto il coraggio di correre un rischio o un pericolo conseguente a ciò che dice. Buoni saranno allora quei consiglieri del sovrano se, dicendo la verità, corrono il rischio di essere puniti, esiliati o uccisi, così buono sarà quel governante che, dicendo ciò che ha davvero in mente, rischia di perdere la popolarità, la maggioranza, il consenso. Usare la parresia, dire la verità, quando non diventa un gioco di vita e di morte come nel caso di Socrate, resta sempre una sfida al potere in cui Foucault vede l' origine dell'esercizio della critica. Per il greco antico questo esercizio è autentico solo quando chi lo esercita corre qualche rischio, in caso contrario è cattiva parresia. Ma ognuno sa, che oltre agli interlocutori esterni, ciascuno ha un interlocutore interno a cui dire la verità. Qui la critica diventa "autocritica", capacità di dire la verità a se stessi, in linea con il messaggio dell' oracolo di Delfi: "Conosci te stesso". Forse tutte le pratiche psicoanalitiche, con la complicazione dei loro linguaggi, non hanno ancora raggiunto la semplicità di questo messaggio a cui ci conduce il buon uso della parresia: dire a se stessi, almeno a se stessi, la verità. Si concentrano così in una parola semplice una serie di virtù morali e civili a cui dovrebbero attenersi gli abitanti della città e soprattutto chi li governa. Chi pratica la parresia dimostra infatti di avere uno specifico rapporto con la verità attraverso la franchezza, una certa relazione con la vita attraverso il rischio e il pericolo, una comunicazione autentica con gli altri e con se stessi attraverso la critica e l'autocritica, un significativo rapporto con la legge morale attraverso la libertà e il dovere di dire la verità. Nasce allora quel cittadino che è libero perché sceglie di parlar franco invece di irretire l'interlocutore con gli inganni della persuasione, sceglie la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio della vita invece della sicurezza.
Per arrivare a questa conclusione Foucaul analizza il discorso.La tesi di Foucault rende espliciti i meccanismi di controllo, selezione, organizzazione e distribuzione della produzione del discorso presenti in ogni società. Questo avviene tramite certe procedure che depotenziano la materialità del discorso e che riguardano il desiderio ed il potere. Tra le procedure di esclusione la prima è quella dell’interdetto. Tabù rituali, diritto di parlare o meno di qualcosa, esclusività di esporre un argomento: sono questi i tipi d’interdetto che rendono il discorso non accessibile a chiunque ed ovunque. Questo perché il discorso non è solo manifestazione (o negazione) di un desiderio, ma è elemento di lotta nel gioco di forze contrapposte, ovvero nelle dinamiche del potere. Esso stesso è un potere (esempi posti da Foucault: regioni della sessualità e della politica).
Altra procedura d’esclusione è la partizione e/o rigetto della follia.“E’ curioso constatare come per secoli in Europa la parola del folle o non era intesa, oppure, se lo era, veniva ascoltata come una parola di verità”. Anche oggi, per Foucault, esistono meccanismi di partizione, che però sono azionati in virtù di nuove istituzioni, con nuovi effetti. Un terzo livello è quello del vero contro il falso. Vero e falso sono concetti contingenti alla storia, in continuo movimento, sorretti da istituzioni che usano anche la coercizione per imporre la “verità” accettabile. Non è nel livello della proposizione dove Foucault situa la partizione vero/falso, ma su una scala più ampia, quella che considera la volontà di verità degli uomini lungo il corso della storia. Storicamente, per esempio, Foucault cita la Grecia del VI secolo, dove il discorso era vero se era pronunciato dalla autorità legittimata secondo una ritualizzazione canonica; un secolo dopo il discorso era vero in base a quello che effettivamente diceva. E’ la volontà di sapere che muta, e che pone l’osservatore da una prospettiva che deve soddisfare dei canoni di veridicità.
Parlando della “nostra” società, Foucault dice:
“..Questa volontà di verità, come gli altri sistemi d’esclusione, poggia su di un supporto istituzionale: essa è rinforzata, e riconfermata insieme, da tutto uno spessore di pratiche come la pedagogia, certo, come il sistema dei libri..” .
Ciò che conta, quindi, è come la società valorizza, distribuisce e attribuisce il sapere (e la verità). Il discorso della verità, la volontà di verità, istituzionalmente sanzionata, preme sugli altri discorsi, perché parola del potere.
In sintesi Foucault ritiene che in ogni società la produzione del discorso è controllata,selezionata e organizzata in modo da scongiurarne i pericoli e i poteri.
I discorsi però si inseriscono in una trama di rapporti di potere che permea ogni società: essi sono pratiche che dipendono dal potere, ma che generano anche potere. Il tema del potere- e di qui sulla costituzione del soggetto moderno e della corporeità: come il meccanismo delle relazioni di potere forma e utilizza il corpo; come il soggetto viene continuamente attraversato e costruito dalla rete del potere- diviene centrale nella filosofia dell'ultimo Foucault, a partire dalla lezione inaugurale al Collège de France, L'ordine del discorso , e poi nello studio sull'origine del sistema carcerario, intitolato Sorvegliare e punire (1975). Foucault fa ancora una volta riferimento a Nietzsche, che viene ora definito 'il filosofo del potere'. Nietzsche, infatti, ha il merito di aver mostrato che ogni discorso, implicando una volontà di verità, ha insita in sè la volontà di potenza e che una delle procedure di selezione e di interdizione con cui il potere opera sui discorsi è data dall'opposizione tra vero e falso. Non solo, ma Nietzsche ha indicato nella genealogia il metodo che permette di individuare i modi in cui i discorsi si generano e scompaiono, senza postulare un ordine necessario o un senso unitario della storia. Foucault dice che ' ogni società ha il suo proprio ordine della verità, la sua politica generale della verità: essa accetta cioè determinati discorsi, che fa funzionare come veri '. Questo vuol dire che sapere e potere sono indisgiungibili , in quanto l'esercizio del potere genera nuove forme di sapere e il sapere porta sempre con sè effetti di potere. Per potere però, spiega Foucault, non si deve intendere quello che emana da un soggetto cosciente, un sovrano, e si traduce in leggi positive; si tratta invece del potere impersonale, onnipresente, che non ha dimora fissa, ma opera tramite meccanismi anonimi in ogni anfratto della società. Sotto questa luce, il potere è un insieme di rapporti di forza , diffusi localmente, non riconducibili ad una sola sede e così Foucault contrappone la propria microfisica del potere , mirante all'analisi delle molteplici e diffuse strategie di soggiogamento, alla macrofisica, propria della teoria di Marx, ad esempio, che dà più spazio all'opposizione tra dominatori e dominati. Di fatto, spiega Foucault, si è sempre allo stesso tempo ambo le cose, dominatori e dominati: si potrà essere dominati in fabbrica ma, magari, dominatori in famiglia. Rispetto a questi poteri così decentrati e variamente connessi la resistenza può essere condotta non da un'unica forza organizzata in partito, ma solo in lotte parziali, in una miriade di luoghi da parte di forze mobili e continuamente cangianti. I dispositivi di potere, attuando selezioni e interdizioni, impediscono il libero proliferare dei discorsi e originano una società disciplinare, che trova espressione nelle istituzioni del carcere, dell'ospedale, dell'esercito, della scuola, della fabbrica, dove sono attuate strategie di controllo, anche del corpo, esami, sanzioni. Il potere, però, non ha solo questa funzione spregevole, ma ne ha anche una positiva e apprezzabile: produrre nuovi ambiti di verità e nuovi saperi. A questo proposito potremmo chiamare in causa Jürgen Habermas che si propone di fondare una forma di razionalità critica e illuminista. Il tentativo di Habermas parte da un concetto di verità intersoggettiva e dal progetto di realizzare un'etica del discorso o della comunicazione, il cui presupposto teorico più vicino è la teoria dell'argomentazione retorica. La sua prospettiva si inscrive in un paradigma trascendentale costruito sull'ideale di una comunicazione illimitata dei soggetti, dove la nozione di verità e di obiettività sono riformulate all'interno del dominio della comunicazione e delle condizioni dell'argomentazione, e, per questo non può non sottovalutare il divenire e le differenze esistenti fra i partecipanti del discorso. La riflessione di Habermas tenta di fornire un'alternativa al pensiero costruito sul mito dell'autocoscienza del soggetto, che caratterizza la modernità, tramite l'instaurazione della dimensione intersoggettiva del linguaggio e di una ragione comunicativa. L'orizzonte dell'agire comunicativo produce un mutamento del paradigma, in quanto si passa dalla teoria del soggetto a quella dell'intesa comunicativa ed intersoggettiva, dove ciò che domina è la cultura del discorso come condizione implicita dei rapporti umani e l'accordo tra i partecipanti è raggiunto tramite forza dell'argomento migliore. Questa connessione tra verità e discorso fornisce la base per radicare il concetto di verità consensuale proposta da Habermas nella teoria dell'argomentazione. Secondo egli la comunicazione però può anche essere prigioniera della falsa coscienza ed essere perturbata da fraintendimenti e da incomprensioni prodotte da un'organizzazione difettosa del discorso. Per ovviare a questa comunicazione “distorta” l'argomentazione deve rispettare precise condizioni di svolgimento che garantiscono che il consenso sulla verità sia raggiunto nella situazione linguistica ideale, in cui è possibile un'intesa universale non coattiva, cioè non prodotta dalla forza dell'ideologia.
Oggi, stando a Foucault, psicanalisi, linguistica ed etnologia hanno decentrato l'uomo come soggetto, portando alla luce le leggi inconsce che presiedono ai suoi desideri, al suo linguaggio, alle sue stesse azioni e i meccanismi di produzione dei discorsi mistici: chi parla non è propriamente l'uomo, ma è la parola stessa . Questi temi, che hanno convinto Foucault ad avvicinare, nonostante le sue smentite, allo strutturalismo, sono state proseguite e approfondite in L'archeologia del sapere (1969) . Oggetto di quest'archeologia non sono le tradizioni, gli autori, le opere o le discipline, che rinviano tutte ad un soggetto cosciente come centro portante produttore di esse; essa ha invece il compito di dissotterrare e descrivere le regole che in una data epoca e società definiscono ' i limiti e le forme di dicibilità ', che determinano di che cosa è possibile parlare, che cosa si può costruire come sfera del discorso e quali sono le pratiche discorsive ammesse ed esercitate di fatto. I discorsi non sono sistemi di segni che rimandano ad altro, ma ' pratiche che formano sistematicamente gli oggetti di cui parlano ': essi sono dunque autosufficienti, si autoregolano e non sono riconducibili ad una causa o a un fondamento unico esterno ad essi, nè ad un soggetto trascendentale o empirico, nè a condizioni economiche e storico-sociali, nè allo spirito dei tempi.
E’ importante sottolineare, in ultima analisi, come Foucault respinga una concezione riduttiva del linguaggio - e quindi dei discorsi - semplicemente come insieme di segni, in termini cioè di referenti e di parole che ricalcano, in maniera neutra, gli oggetti; segni che rinviano a contenuti e rappresentazioni che esistono già, prima ancora di essere nominate. Per Foucault i discorsi sono piuttosto
delle pratiche che formano sistematicamente gli oggetti di cui parlano , sono complessi macchinari capaci di escludere dalla loro trama tutto ciò che non sono in grado di assimilare; sono da considerare nell’ordine dell’evento (événement), quindi non, ermeneuticamente, appartenenti al campo del testuale, della parola ridotta a puro segno, che riceve senso e significato a partire da qualcosa che le è esterno. Foucault parla piuttosto di enunciato, che include in sé, nella forma della compresenza e della simultaneità, chi parla, il testo che parla, e ciò di cui si parla, in un immanenza che non necessita di alcun rimando a referenti originari.


Mariastella Rango

BIBLIOGRAFIA

  • Discorso e verità nella Grecia antica, Michel Foucault a cura di Adelina Galeotti Donzelli Editore, Roma 1996

  • Sorvegliare e punire: nascita della prigione, Michel Foucault, Einaudi, Torino 1976.

  • L'archeologia del sapere,Michel Foucault, Rizzoli, Milano 1971.

  • Il Discorso e la società. La retorica nel pensiero del Novecento, Giuseppe Iannantuono, Paravia scriptorium

semiotica e televisione

oggi esistono tante analisi semiotiche di testi televisivi,ma malgrado ciò è significativo che ancora non sia stata fatta una riflessione metodologica unitaria e articolata su questo campo. I testi televisivi sono a livello semiotico complessi,molto più di quelli cinematografici,anche se di solito sono considerati mneo artistici dei film.L'analisi semiotica della televisione è votata ad una dimensione macro: diffcilmente vi potranno essere apllicate con finezza le categorie narrative,discorsive introdotte nelle lezioni precedenti. A mio avviso,per poter fare un analisi semiotica della televisione,bisogna avere una buona competenza su questo genere. La natura della programmazione,si è evoluta verso una direzione di una generale fluidificazione. Tutto questo, viene trasmesso più ritmato e meno segmentabile rispetto al passato. Con il passare del tempolo stile diventa uniforme,sia per il tono che per il ritmo di discorsi e musica;infine diventa necessario rendere riconoscibile una data sezione della programmazione più tradizionale,per i testi televisivi come quelli socio-semiotici,è spesso difficile trovare criteri testuali di chiusura. I semiotici possono confrontare i proprio risultati con quelli di altre discipline:ad esempio andare a verificare se l'analisi di un corpus di programmi,porti a risultati compatibili rispetto ad un pezzo di telespettatori intervistati. Solitamente l'analisi del programma è compatibile con il giudizio del pubblico,ma per analizzare un programma bisogna comunque interrogarsi su due ipotesi,soprattutto nel momento in cui l'analisi del programma risultasse incompatibile con il giudizio del pubblico:
è l'analisi fatta del programma a non essere adeguata,oppure sono stati i telespettatori ad interpretare in modo errato il testo televisivo?in entrambi i casi comunque può risultare interessante per ils emiotico confrontarsi con gli studi sociologici ed empirici della televisione,perchè avrebbe l'opportunità di riflettere a livello socio-semiotico su fenomeni importanti,tipo la condivisione delle competenze interpretative comuni. Questo problema, è sorto al centro di un indagine sul pubblico modello il quale lettore modello di Eco,non è il pubblico empirico ma quello presupposto dai programmi. Gli anglosassoni parlano di intended audience pensando al pubblico che il programma vuole raggiungere,per come è confezionato e nelle intenzioni di chi lo produce. I concetti di intended audience e di spettatore modello costituiscono tuttavia un area problematica,che possiamo definire così: indipendentemente da come un programma viene capito dal pubblico, che tipo di spettatore è delineato dal programma stesso?allora,le modalità attraverso cui il pubblico è rappresentato dalla televisione,sono grosso modo due: una implicita e l'altra esplicita. Nella prima,lo spettatore modello saraà caratterizzato da un dato livello culturale,presupposto dal programma per poter essere capito. La seconda modalità invece,e che in tv lo spettatore non è solo presupposto,come invece capita al lettore di un libro. Come tutti sappiamo,lo spettatore da sempre entra nello spettacolo televisivo. A questo punto è chiaro che abbiamo anche uno spettatore modello rappresentato,che funge da simulacro dello spettatore a casa e che spesso viene indotto ad una più alta adesione di ascolto al programma che sta vedendo. Pensiamo ad esempio al noiosissimo "varietà",dove gli ospiti sembrano comunque divertirsi,oppure ad un talk-show dove i partecipanti,rispondono collettivamente a domande banali. E' palese che il comportamento esibito sulla scena del pubblico,è usato dagli autori del programma in modo manipolatorio,per valorizzare il programma e far salire gli ascolti. Successivamente lo studio sul pubblico televisivo presupposto ed esibito dai programmi,si è per esempio sdoppiato in due ricerche: una storica ed una sincronica. La prima studia il cambiamento del ruolo del pubblico televisivo dagli anni cinquanta ai novanta. La seconda invece,analizza il ruolo e la rappresentazione del pubblico in un campione di ottanta programmi trasmessi da ottobre fino a Natale. Con il passare del tempo apparivano sempre più intercambiabili con le persone deputate alla funzione spettacolare. Adesso però sorge un'altro problema: ogni cosa minima veniva esplicitata dai conduttori,ogni nozione sembrava avere una condivisione da parte del pubblico incerta,quindi di conseguenza un discorso televisivo diventava contorto per la ricchezza delle cose cha facevano riferimento a lui stesso. Ad inizio anni novanta la televisione mostrava allo spettatore sullo schermo una specie di concezione multifunzionale della persona,non rispettando la diversificazione per settori del linguaggio e dei ruoli,non utilizzando le classiche persone comuni in base alla loro età,professione,provenienza ecc. In poche parole la formula del programma era diventata più importante dello spettatore. Qui la semiotica procede diversamente dalla sociologia,ovvero non indaga a priori come la televisone rappresenti classi determinate, ma classifica a posteriori,in base a come la televisione stessa raggruppa e descrive le persone. Il mezzo televisivo è visto da alcuni come quel dispositivo per ristrutturare il sociale,oppure come fattore di disgregazione. Altri studi sulla televisione indagano il rapporto fra la testualità e il consumo,fra individuo e collettività ecc. Tanta letteratura sulla fruizione televisiva contemporanea,mette l'accento sul consumo produttivo e sul ruolo attivo del pubblico. Ora bisogna che chiedersi se c'è traccia di tutto questo nel testo televisivo?ecco alcune importanti griglie di analisi:
1-interventi diretti del pubblico
2-carattere dei programmi
3-forme di resistenza del pubblico alle proposte dei conduttori
4-deposizione parziale delle regole
5-trasformazione dei programmi per via di alcune proteste
6-grado di apertura dei programmi
7-possibilità del pubblico,di accedere a tanti mezzi di comunicazione.

le categorie descrittive in generale vannoa costituire i piani dove suddividere i testi nel momento dell'analisi e ognuna di esse prevede un altra articolazione in specifiche categorie operative.

Dopo aver stilato le voci della griglia,comincia ovviamente la fase operativa: si guardano i programmi e si annotano osservazioni ed esempi non più liberamente ma in riferimento alle tante voci della griglia. La stabilità di queste griglie è importante per tutta l'analisi del campione e la coerenza dell'indagine. Cambiare sempre e spesso le carte in tavola rischia di rendere tutto il lavoro abbastanza arduo quando bisogna trarre le conclusioni finali. Per la prima ricerca la grigglia è stata grosso modo questa:
1-principali ruoli attanziali
2-gradi di attività e passività
3-grado di adesione allo spettacolo
4-distribuzione dei ruoli
5-classificazione su basi sociali
6-regime di visibilità
7-diversi regimi percettivi
8-caratterizzazione
9-pricipali ruoli tematici
10-tipi di contratto
11-coversazione
12-livello di verità
13-strategie e manovre
14-performalità di pubblico e tv.

La griglia fu grosso modo questa anche se non è proprio precisa. Cocludo citandovi altre caratteristiche secondo me importanti dello spettatore modello di un programma televisivo che desumo dalla collocazione dello stesso programma nel palinsesto,dove è fondamentale considerare il terget di rete,orario e programma stesso.

Nel caso in cui ci troviamo ad analizzare una sola trasmissione, è chiaro che la griglia di analisi deve per forza considerare e tenere conto del genere a cui appartiene la trasmissione in oggetto. Ad esempio se si tratta di una corsa,sarà importante la procedura di assegnazione dei compiti e delle regole,la presentazione del concorrente come oggetto del saper fare e specialmente la modalità di svolgimento della performance e i risultati.



LUIGI TARASI

semiotica e televisione

semiotica e televisione

oggi esistono tante analisi semiotiche di testi televisivi,ma malgrado ciò è significativo che ancora non sia stata fatta una riflessione metodologica unitaria e articolata su questo campo. I testi televisivi sono a livello semiotico complessi,molto più di quelli cinematografici,anche se di solito sono considerati mneo artistici dei film.L'analisi semiotica della televisione è votata ad una dimensione macro: diffcilmente vi potranno essere apllicate con finezza le categorie narrative,discorsive introdotte nelle lezioni precedenti. A mio avviso,per poter fare un analisi semiotica della televisione,bisogna avere una buona competenza su questo genere. La natura della programmazione,si è evoluta verso una direzione di una generale fluidificazione. Tutto questo, viene trasmesso più ritmato e meno segmentabile rispetto al passato. Con il passare del tempolo stile diventa uniforme,sia per il tono che per il ritmo di discorsi e musica;infine diventa necessario rendere riconoscibile una data sezione della programmazione più tradizionale,per i testi televisivi come quelli socio-semiotici,è spesso difficile trovare criteri testuali di chiusura. I semiotici possono confrontare i proprio risultati con quelli di altre discipline:ad esempio andare a verificare se l'analisi di un corpus di programmi,porti a risultati compatibili rispetto ad un pezzo di telespettatori intervistati. Solitamente l'analisi del programma è compatibile con il giudizio del pubblico,ma per analizzare un programma bisogna comunque interrogarsi su due ipotesi,soprattutto nel momento in cui l'analisi del programma risultasse incompatibile con il giudizio del pubblico:
è l'analisi fatta del programma a non essere adeguata,oppure sono stati i telespettatori ad interpretare in modo errato il testo televisivo?in entrambi i casi comunque può risultare interessante per ils emiotico confrontarsi con gli studi sociologici ed empirici della televisione,perchè avrebbe l'opportunità di riflettere a livello socio-semiotico su fenomeni importanti,tipo la condivisione delle competenze interpretative comuni. Questo problema, è sorto al centro di un indagine sul pubblico modello il quale lettore modello di Eco,non è il pubblico empirico ma quello presupposto dai programmi. Gli anglosassoni parlano di intended audience pensando al pubblico che il programma vuole raggiungere,per come è confezionato e nelle intenzioni di chi lo produce. I concetti di intended audience e di spettatore modello costituiscono tuttavia un area problematica,che possiamo definire così: indipendentemente da come un programma viene capito dal pubblico, che tipo di spettatore è delineato dal programma stesso?allora,le modalità attraverso cui il pubblico è rappresentato dalla televisione,sono grosso modo due: una implicita e l'altra esplicita. Nella prima,lo spettatore modello saraà caratterizzato da un dato livello culturale,presupposto dal programma per poter essere capito. La seconda modalità invece,e che in tv lo spettatore non è solo presupposto,come invece capita al lettore di un libro. Come tutti sappiamo,lo spettatore da sempre entra nello spettacolo televisivo. A questo punto è chiaro che abbiamo anche uno spettatore modello rappresentato,che funge da simulacro dello spettatore a casa e che spesso viene indotto ad una più alta adesione di ascolto al programma che sta vedendo. Pensiamo ad esempio al noiosissimo "varietà",dove gli ospiti sembrano comunque divertirsi,oppure ad un talk-show dove i partecipanti,rispondono collettivamente a domande banali. E' palese che il comportamento esibito sulla scena del pubblico,è usato dagli autori del programma in modo manipolatorio,per valorizzare il programma e far salire gli ascolti. Successivamente lo studio sul pubblico televisivo presupposto ed esibito dai programmi,si è per esempio sdoppiato in due ricerche: una storica ed una sincronica. La prima studia il cambiamento del ruolo del pubblico televisivo dagli anni cinquanta ai novanta. La seconda invece,analizza il ruolo e la rappresentazione del pubblico in un campione di ottanta programmi trasmessi da ottobre fino a Natale. Con il passare del tempo apparivano sempre più intercambiabili con le persone deputate alla funzione spettacolare. Adesso però sorge un'altro problema: ogni cosa minima veniva esplicitata dai conduttori,ogni nozione sembrava avere una condivisione da parte del pubblico incerta,quindi di conseguenza un discorso televisivo diventava contorto per la ricchezza delle cose cha facevano riferimento a lui stesso. Ad inizio anni novanta la televisione mostrava allo spettatore sullo schermo una specie di concezione multifunzionale della persona,non rispettando la diversificazione per settori del linguaggio e dei ruoli,non utilizzando le classiche persone comuni in base alla loro età,professione,provenienza ecc. In poche parole la formula del programma era diventata più importante dello spettatore. Qui la semiotica procede diversamente dalla sociologia,ovvero non indaga a priori come la televisone rappresenti classi determinate, ma classifica a posteriori,in base a come la televisione stessa raggruppa e descrive le persone. Il mezzo televisivo è visto da alcuni come quel dispositivo per ristrutturare il sociale,oppure come fattore di disgregazione. Altri studi sulla televisione indagano il rapporto fra la testualità e il consumo,fra individuo e collettività ecc. Tanta letteratura sulla fruizione televisiva contemporanea,mette l'accento sul consumo produttivo e sul ruolo attivo del pubblico. Ora bisogna che chiedersi se c'è traccia di tutto questo nel testo televisivo?ecco alcune importanti griglie di analisi:
1-interventi diretti del pubblico
2-carattere dei programmi
3-forme di resistenza del pubblico alle proposte dei conduttori
4-deposizione parziale delle regole
5-trasformazione dei programmi per via di alcune proteste
6-grado di apertura dei programmi
7-possibilità del pubblico,di accedere a tanti mezzi di comunicazione.

le categorie descrittive in generale vannoa costituire i piani dove suddividere i testi nel momento dell'analisi e ognuna di esse prevede un altra articolazione in specifiche categorie operative.

Dopo aver stilato le voci della griglia,comincia ovviamente la fase operativa: si guardano i programmi e si annotano osservazioni ed esempi non più liberamente ma in riferimento alle tante voci della griglia. La stabilità di queste griglie è importante per tutta l'analisi del campione e la coerenza dell'indagine. Cambiare sempre e spesso le carte in tavola rischia di rendere tutto il lavoro abbastanza arduo quando bisogna trarre le conclusioni finali. Per la prima ricerca la grigglia è stata grosso modo questa:
1-principali ruoli attanziali
2-gradi di attività e passività
3-grado di adesione allo spettacolo
4-distribuzione dei ruoli
5-classificazione su basi sociali
6-regime di visibilità
7-diversi regimi percettivi
8-caratterizzazione
9-pricipali ruoli tematici
10-tipi di contratto
11-coversazione
12-livello di verità
13-strategie e manovre
14-performalità di pubblico e tv.

La griglia fu grosso modo questa anche se non è proprio precisa. Cocludo citandovi altre caratteristiche secondo me importanti dello spettatore modello di un programma televisivo che desumo dalla collocazione dello stesso programma nel palinsesto,dove è fondamentale considerare il terget di rete,orario e programma stesso.

Nel caso in cui ci troviamo ad analizzare una sola trasmissione, è chiaro che la griglia di analisi deve per forza considerare e tenere conto del genere a cui appartiene la trasmissione in oggetto. Ad esempio se si tratta di una corsa,sarà importante la procedura di assegnazione dei compiti e delle regole,la presentazione del concorrente come oggetto del saper fare e specialmente la modalità di svolgimento della performance e i risultati.



LUIGI TARASI

Tesina: L'ordine del discorso

MICHEL FOUCAULT “L’ORDINE DEL DISCORSO”
“L’ordre du discours” rappresenta un progetto teorico che viene messo in atto in vista della realizzazione di tre obiettivi: rimettere in questione la nostra volontà di verità, restituire al discorso il suo carattere di evento, togliere via la sovranità del significante. Ed è proprio su questo che procederò con la mia analisi.
Foucault spiega il proprio metodo, i progetti di lavoro, il proprio campo di indagine; soprattutto, esamina le procedure che controllano, selezionano, organizzano e distribuiscono la produzione del discorso.
“Ma che c’è dunque di tanto pericoloso nel fatto che la gente parla e che i suoi discorsi proliferano indefinitamente? Dov’è dunque il pericolo?”
La frase posta in premessa dall’autore segna il punto di inizio della ricerca che si sviluppa attraverso le pagine successive e che pone come obbiettivo quello di descrivere ciò che è l’ordine del parlare dell’epoca e quali devono essere invece i traguardi futuri.
Nel testo Foucault riconosce al discorso una sua realtà materiale considerandolo pervaso da poteri e pericoli che non si possono cogliere istintivamente. La sua tesi rende espliciti i meccanismi di controllo, selezione, organizzazione e distribuzione della produzione del discorso presenti in ogni società. Questo avviene tramite certe procedure che depotenziano la materialità del discorso e che riguardano il desiderio e il potere.
Foucault descrive innanzitutto le procedure di esclusione esterna del discorso evidenziando che nella società dell’epoca la produzione del discorso è, appunto, controllata, selezionata, organizzata e distribuita attraverso procedure destinate a scongiurarne i poteri ed i pericoli ed a ridurne l’alea. Partendo da un’analisi del discorso che è scrittura per una filosofia del soggetto fondatore, lettura per una filosofia dell’esperienza e scambio per una filosofia della mediazione, esso è un’insieme di eventi discorsivi e in quanto tale non è né sostanza né accidente, né qualità o processo, non è immateriale perché avviene nella materialità, “esso è ciò per cui e attraverso cui si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi".
Egli individua tre procedure di esclusione o controllo che colpiscono il discorso:

-INTERDETTO
-PARTIZIONE / ragione - follia
-VOLONTA’ DI VERITA’
In quanto Tabù rituali, diritto di parlare o meno di qualcosa, esclusività di esporre un argomento, sono i tipi di interdetto che rendono il discorso non accessibile a chiunque ed ovunque. Questo perchè il discorso non è solo manifestazione (o negazione) di un desiderio, ma è elemento di lotta nel gioco di forze contrapposte, ovvero nelle dinamiche del potere. Esso stesso è un potere.
Altra procedura di esclusione è la partizione o ragione-follia: l’opposizione tra ragione e follia, da cui nasce l’idea del Folle come colui i cui discorsi non circolerebbero come quelli degli altri. Dunque più che un principio di esclusione l’autore lo definisce una partizione (partage); la parola di alcuni viene considerata “nulla”, come se fosse inesistente, è la parola del folle, di nessun valore, perché egli è inesistente per il diritto (non può firmare un contratto), inesistente per la chiesa (nel rituale della messa non può ricevere la comunione). Il folle fa rumore, non parla.
“E’ curioso constatare come per secoli in Europa la parola del folle o non era intesa, oppure, se lo era, veniva ascoltata come una parola di verità” (pag. 11).
Infatti, per svariate epoche, il discorso del folle venne preso per verità di Dio, per semplice eresia o addirittura cadeva nel nulla, dimenticato nel momento esatto della sua enunciazione. In molti casi si attribuivano al folle strani poteri ad esempio quello di prevedere l’avvenire, la “follia” si riconosceva attraverso le sue parole che non erano ascoltate né accettate. Ma oggi tutto questo persiste? La parola del folle è dall’altra parte della separazione? Decisamente si. Afferma Foucault:
”basti pensare a tutta la rete di istituzioni che consente a qualcuno, medico o psicanalista, di ascoltare questa parola e che consente al paziente di venire a portare o a trattenere le sue povere parole”.
La separazione, dunque, anche se si dice cancellata, persiste e il medico ascolta sempre un discorso nel mantenimento di una cesura. La partizione al giorno d’oggi è ancora utilizzata, l’ascolto del discorso è carico di desiderio e potere. Poiché tutti i tipi di esclusione fanno parte di un sistema istituzionalmente costruito, si comprende che essi hanno ben salde origini nella storia e che nel corso delle epoche la struttura del sistema venne modificata più volte in concomitanza delle variazioni sociali.
Un terzo livello è quello del vero contro falso (volontà di verità). Vero e falso sono concetti contingenti alla storia, in continuo movimento, sorretti da istituzioni che usano anche la coercizione per imporre la “verità” accettabile. Non è nel livello della proposizione dove Foucault situa la partizione vero/falso, ma su una scala più ampia, quella che considera la volontà di verità degli uomini lungo il corso della storia. Storicamente, per esempio, Foucault cita la Grecia del VI secolo, dove il discorso vero fosse quello pronunciato da chi di diritto e secondo il rituale richiesto(annunciava ciò che stava per accadere e pertanto contribuiva alla realizzazione dell’imminente evento). Un secolo dopo il discorso era vero in base a quel che effettivamente diceva. E’ la volontà di sapere che muta, e che pone l’osservatore da una prospettiva che deve soddisfare dei canoni di veridicità. Parlando della “nostra” società, Foucault dice:
“questa volontà di verità, come gli altri sistemi di esclusione, poggia su di un supporto istituzionale: essa è rinforzata, e riconfermata insieme, da tutto uno spessore di pratiche come la pedagogia, certo, come il sistema dei libri…”(pag. 15).
Ciò che conta, quindi, è come la società valorizza, distribuisce e attribuisce il sapere (e la verità). Il discorso della verità, la volontà di verità, istituzionalmente sanzionata, preme sugli altri discorsi, perché parola del potere.
Per comprendere la verità o la falsità di un discorso l’uomo ha bisogno di concentrarsi sul potere di costruire ambienti d’oggetti dai quali scopriremo poi enunciati veri o falsi. La volontà di verità è l’aspetto che più incuriosisce l’uomo poiché legato a doppio nodo con il desiderio di impadronirsi del discorso, con la possibilità di acquisire potere su di esso e con esso. Se è vero che il “discorso vero” è basato su fatti realmente riscontrabili, è anche vero che il discorso del folle può essere reale o vero nonostante le sue parole possano sembrarci falsità. E non è altrimenti vero che nei nostri discorsi appare spesso lo scherzo, che null’altro è se non il camuffamento di una verità? Allora come possiamo regolarci e capire cos’è che rende un discorso vero? L’analisi letterale, grammaticale di un discorso non può di certo aiutarci. Il pensiero del parlante forse? Ma come possiamo noi comprendere la verità insita nella parole di qualcuno?. Il discorso per quanto possa essere analizzato risulta realtà, non verità, poiché esso non riesce a donarci e farci comprendere appieno la sua entità. E’ realtà per il solo fatto che esso viene pronunciato, poiché viene enunciato da un parlante e udito, compreso, riconosciuto da un ricevente; è realtà perché occupa una posizione temporale e spaziale nel momento esatto della sua proliferazione; è realtà perché prima della sua enunciazione è realtà di verità, è pensiero in atto. La verità quindi non è riscontrabile nel suo senso stretto come ciò che è giusto e reale, ma come ciò che realmente può esser vero o falso.
Le procedure d’esclusione, dunque, concernano il desiderio e il potere. Oltre a queste, esistono altre procedure di controllo e delimitazione del discorso. Se le procedure d’esclusione sono procedure attuate dall’esterno, vi sono procedure interne al discorso, ovvero sono i discorsi stessi che tendono al controllo. Sono procedure che funzionano come principi di classificazione, di ordinamento e di distribuzione che vogliono padroneggiare una dimensione del discorso che Foucault chiama dell’evento (èvènement) e del caso.
Tra le procedure di controllo (o di limitazione) vi sono:
il commento, che limita il discorso, lo controlla, lo fossilizza. Per l’autore nelle società esiste un dislivello tra i discorsi: quelli che “si dicono” ma che non restano, passano nel momento in cui vengono enunciati; e quelli che restano, che originano nuovi atti, che vengono ritualmente trasmessi, che variano, che vengono ripresi o citati (esempi forniti per il nostro sistema culturale: testi religiosi e giuridici, letteratura, libri scientifici). Le categorie non sono immodificabili: quello che oggi si commenta domani sarà dimenticato. Ma la funzione resta, per Foucault. Dunque, tra i testi primitivi (primari) e quelli di commento vi è una relazione per cui i primi possono tornare, riattualizzarsi, moltiplicare il proprio senso. Si possono, allora, costruire nuovi discorsi. Il commento deve dire per la prima volta quel che era stato detto e che non era stato detto. Il commento è un discorso che non nasce dal caso, parte da un testo, dice cose anche diverse, ma ripropone il testo di partenza. Nel commento
‘..il nuovo non è in ciò che è detto, ma nell’evento del suo ritorno ’ (pag. 22).
L’ autore: Foucault non intende per autore chi scrive o recita un testo, ma la funzione dell’autore trascende la presenza e la materialità di chi realmente scrive un’opera; a seconda delle epoche, in Europa l’autore ha conferito status di verità alla propria opera solo in virtù della sua firma, oppure non si è preoccupato di rendere nota la sua identità, come per i testi del Medioevo. Nel medioevo la attribuzione ad un autore costituiva indice di verità. Si riteneva che quanto dicesse un autore autorevole detenesse automaticamente valore scientifico, e dal XVII secolo questa funzione non ha cessato di venir meno, in campo scientifico ed in campo letterario. Foucault afferma che sarebbe assurdo negare o elidere l’individuo che scrive un’opera o inventa un teorema scientifico, ma ciò non toglie che il discorso, o l’opera, o l’invenzione va analizzato anche per quello che è e non soltanto per chi lo ha scritto. Credo che la funzione dell’autore implichi la fase del commento, che ripete ciò che esiste in salsa nuova. Il principio dell’autore, invece, limita il discorso alla sua individualità, cerca di dare coerenza alle infinite possibilità del linguaggio.
La disciplina, o meglio l’organizzazione delle discipline, richiama principi diversi da quelli del commento e della funzione dell’autore. La disciplina è un insieme di metodi, un corpus di proposizioni considerate come vere. Essa non è ripetitiva, ma al contrario è propositiva, necessita di nuovi enunciati. Però non tutto quello che può esser detto di vero costituisce il patrimonio di una disciplina, perché in una disciplina convergono anche errori che poi avranno una funzione propositiva, e poi la verità, in una specifica disciplina, deve essere esposta secondo regole determinate con contenuti determinati (strumenti concettuali o tecnici, metafore accettabili). Per l’autore “la disciplina è un principio di controllo della produzione del discorso” (pag. 29). Lo fa riattualizzando le regole per cui una proposizione può dirsi “nel vero”, appartenente a buon diritto ad una disciplina, se ne condivide i campi teorici. L’organizzazione della disciplina limita dall’interno il discorso.
Un terzo gruppo di procedure di controllo del discorso colpisce le condizioni di messa in opera dei discorsi, e quindi limitano (e selezionano) gli individui che vogliono tenerli (i soggetti parlanti). Non tutte le regioni del discorso sono alla portata di tutti, perché appesantite da sistemi di regole e condizioni per la loro attuazione. Foucault dice che lo scambio e la comunicazione sono “figure positive che operano all’interno di sistemi complessi di restrizione”, da cui non sono indipendenti.
Il rituale è un sistema di costrizione che implica comunicazione: il rituale definisce le qualità che deve avere l’officiante (che deve agire, muoversi e parlare secondo formule convenzionali, dunque restrittive); determina l’efficacia del discorso su coloro che ascoltano e impone dei limiti. Le proprietà del parlante determinano dunque chi può officiare un rito e chi no.
Altri esempi di limitazione del soggetto parlante:
-le società di discorso fanno circolare i discorsi in ambienti chiusi. Un tempo erano i rapsodi che, soli, possedevano la conoscenza dei poemi da recitare ed eventualmente da trasformare e tra parola ed ascolto i ruoli non erano mutabili. Oggi sono la “istituzionalizzazione del libro”, e cioè la differenza tra lo “scrittore” e qualsiasi altro essere scrivente o parlante, il segreto scientifico, l’appropriazione del discorso economico o politico, la dottrina che diffonde un unico insieme di discorsi.
- le dottrine assoggettano bidirezionalmente soggetti parlanti e discorsi;
- l’appropriazione sociale dei discorsi: l’educazione consente a qualsiasi individuo di accedere a qualsiasi tipo di discorso, ma è anche vero che distribuisce e vieta permessi segnati dalla distanza tra le classi sociali. Per Foucault “ogni sistema di educazione è un modo politico di mantenere o di modificare l’appropriazione dei discorsi, con i saperi ed i poteri che essi comportano” (pag. 35).
In conclusione, i soggetti parlanti non possono accedere a tutti i tipi di discorso, e non tutti i tipi di discorso sono fatti propri dai gruppi sociali. Questi sono i sistemi di assoggettamento del discorso.
L’autore poi parla di elisione della realtà del discorso nel pensiero filosofico attraverso alcuni temi, quali:
-il soggetto fondatore, incaricato di animare le forme vuote della lingua;
-esperienza originaria: il discorso esiste già nelle cose ed esprime il suo senso, quindi è il linguaggio che deve parlare di qualcosa che già esiste;
-la mediazione universale: lo scambio continuo dei discorsi non è che un gioco che alla fine, finisce con l’annullare il discorso stesso. Sembrerebbe che in tutto questo lavoro si mettesse al centro dell’attenzione il discorso stesso, invece si finisce con il valorizzare il discorso già tenuto che è diventato “evento”. L’autore propone quindi di smuovere le acque e di indurre il pensiero resistente a:
- rimettere in questione la volontà di verità.
- restituire al discorso il carattere di evento.
- eliminare l sovranità del significante.
Dunque propone di applicare alcuni principi guida:
-principio di rovesciamento: l’autore, la disciplina, la volontà di verità che secondo la tradizione, sono la scaturigine del discorso, producono invece la rarefazione del discorso.
-principio di discontinuità: il fatto che ci siano sistemi di rarefazione non significa che vi è un discorso sotterraneo che non è venuto alla luce. I discorsi sono pratiche “discontinue”: si incrociano, si affiancano ma anche si ignorano e si escludono.
-principio di specificità: il discorso non è un gioco di significati precostituiti ma è una pratica che imponiamo alle cose.
-principio dell’esteriorità: dal discorso bisogna partire non per andare verso il suo nucleo interno ma verso le sue condizioni esterne di possibilità.
A questo punto quattro nozioni governano l’analisi:
evento – serie – regolarità – condizione di possibilità. Esse si contrappongono alle nozioni che hanno dominato la storia tradizionale delle idee:
evento > creazione
serie > unità
regolarità > originalità
condizione di possibilità > significato
I discorsi, allora, devono essere considerati, non solo, come si è fatto fin’ora, per far apparire strutture di lunga durata ma devono essere trattati come “insieme di eventi discorsivi” accettando di introdurre l’alea come categoria nella produzione degli eventi. Occorre tener conto che nel discorso incide il caso, il discontinuo, la materialità.
La ricerca ispirata a questi quattro principi opera secondo due prospettive diverse ma articolate fra loro: la critica e la genealogia. Dunque “da una parte l’insieme critico”: mettere in atto il principio del rovesciamento ed individuare le forme di esclusione, della limitazione e della appropriazione ed indagare sul perché sono sorte e si sono elaborate; dall’altra “l’insieme genealogico”: come si sono formati i discorsi attraverso a dispetto o con l’appoggio dei sistemi di costrizione.
E traccia i percorsi di tale analisi: la partizione tra follia e ragione nell’epoca classica, il linguaggio della sessualità dal XVI al XIX secolo, ma soprattutto il discorso vero e il discorso falso, il rituale e l’irrituale partendo dalla sofistica, passando dall’Inghilterra del XVII secolo che vede nascere nuove strutture politiche e finendo alla società industriale ed alla sua ideologica positivistica.
L’analisi del discorso sembra offrire strumenti più raffinati per interpretare i fenomeni culturali legati alla contemporaneità: la specializzazione accademica con i suoi effetti di frammentazione e distorsione della diffusione culturale; la televisione quale forma di produzione e istanza di controllo della cultura popolare e delle identità culturali all’epoca della globalizzazione; le relazioni di potere che presiedono al discorso scientifico, con particolare attenzione all’affermarsi delle nuove tecnologie; il rinnovarsi delle forme di potere per il controllo dei nuovi media come internet. Non è possibile chiudere la lista degli studi culturali ispirati a Foucault ed all’analisi del discorso. Bisogna però rilevarne l’uso anche in una prospettiva che potremo definire metodologica, o riflessiva, definita Critical Discourse Analysis.