Il piacere, come una Babele felice
di Davide Costantino Basile.
E’ forse erroneo considerare quanto appena citato dal titolo? E’ possibile pensare che il mito babelico della mescolanza delle lingue, improvvisamente venga sovvertito, e da punizione diventi miracolo? In questo breve enunciato è racchiusa tutta l’audacia di Barthes nell’andare oltre le classi grammaticali e morfo-sintattiche, per aprire un capitolo nuovo inerente alle problematiche testuali.
Perché io acquisto un libro? Perché come un cannibale mi getto su di lui, per cibarmi di esso, della sua essenza? Molto semplice, perché ne traggo piacere; è il piacere che mi porta a divorare un testo, è la sua linfa vitale ciò di cui io ho bisogno. Ma è giusto andare per piccoli passi.
Ho un libro tra le mani, lo sfoglio lentamente e nel frattempo ,a piccole dosi, lo leggo. L’intero testo, una frase o semplicemente un parola, può catturare la mia attenzione. Barthes, sa bene che se c’è qualcosa che mi piace, è perché è generata nel piacere, ma ciò a cui mira l’autore, che istituzionalmente muore, non è tanto il soggetto, quanto il campo, lo spazio potenziale all’interno del quale può darsi il piacere. L’aspetto invitante è che il piacere può darsi in una miriade di modi differenti; ad esempio una descrizione ossessiva, come riportato in Bouvard et Pècuchet:
"delle tovaglie, dei lenzuoli, degli asciugamani, pendevano verticalmente, attaccati con stanghette di legno a corde tese".
Barthes gusta qui un eccesso di precisione, una sorta di esattezza maniaca del linguaggio, una follia di descrizione. E ancora, in un testo di Stendhal, passa del cibo nominato: latte, tartine, formaggio alla panna Chantilly, marmellate di Bar, arance di Malta, fragole zuccherate. Ma qui ci sarebbe il rischio di pensare che si tratti solo di un piacere di pura golosità; semplicemente, accade che quando qualcuno rappresenta qualcosa al proprio interlocutore, allega alla rappresentazione l’ultimo stadio della realtà, ciò che in essa vi è di intrattabile e che non potrebbe essere fatto con termini quali idealismo o marxismo, poiché ci muoviamo sul piano della concretezza reale.
Si può stabilire allora un significato da attribuire al piacere? Per Barthes il piacere è soddisfazione, appagamento, è legato cioè a una pratica confortevole della lettura. E’ anche vero però che non bisogna cadere nell’ambiguità, quella generata dalla confusione dei termini piacere e godimento.
Non sono, infatti la medesima cosa; mentre cioè il piacere è appagamento, il godimento sconforta, fa vacillare, genera un mancamento che mette in discussione i principi psicologici, storici e culturali su cui si posa l’individuo. Allora è chiaro che si può riprendere Sade, il quale afferma che nell’ambito della ridistribuzione linguistica (che si attua sempre attraverso una frattura), si creano due bordi; da un lato la lingua, copiata quasi a mo di plagio, in forma canonica, così come la si conosce; dall’altro lato, i contenuti possono assumere una miriade di forme possibili, anche la forma della distruzione della lingua. Da un lato quindi la cultura, dall’altro evidentemente la sua distruzione. In termini semplicistici, potremmo intendere il piacere come cultura, il godimento come la sua distruzione. Ma perché il godimento è distruzione della cultura?
Il primo punto da analizzare è il carattere atopico del godimento. Barthes, infatti, passando per Lacan e Lecler, conclude che una delle sostanziali differenze tra il piacere e il godimento è che il secondo è fondamentalmente “indicibile”, cosa che del resto lo porterà a stretto rapporto con la paura. Il piacere invece, è dicibile, in termini di critica, poiché è cultura, e si rifà tanto al passato delle cose già dette, quanto al futuro, delle cose ancora da dire. La critica infatti, verte sempre su testi di piacere e mai di godimento.
Questa concezione di atopia, di non-luogo, non si contrappone al luogo, ma lo trapassa e lo sovverte, evidentemente facendo riflettere il lettore sulle pratiche di tale sovvertimento, che si ripercuote su quella che Barthes definirà “distruzione dell’arte”, ad opera degli artisti stessi, che modificano il loro significante.
Il piacere dal canto suo, per quanto ricco di pregi, non è mai certo. Infatti esso deriva sempre da una seconda o ancor più successiva lettura di un testo, che mi appaga e mi soddisfa. Il godimento è ben altra cosa: esso è novità (da non confondersi con lo stereotipo del nuovo; nove volte su dieci la novità altro non è che tale stereotipo); e allora per questo motivo il piacere non è mai certo, poiché non è sicuro che un testo, a una successiva lettura mi piacerà; e anche per questo infondo che Barthes affermerà che all’interno della teoria del testo, difficilmente possiamo trovare una posizione al piacere del testo. Per quanto concerne il godimento, invece, a contraddistinguerlo non vi è solo la sua indicibilità, ma anche e soprattutto il suo carattere di precocità. Infatti esso giunge sempre quando meno me lo aspetto, mi travolge, irruente, e si esaurisce in un unico lampo. Un po’ come quando si osserva un quadro contemporaneo; dopo il primo sguardo tutto finisce, e gli occhi dovranno allora posarsi su qualcos’altro, poiché tutto termina in uno sguardo fugace.
Qualcuno si potrebbe chiedere a questo punto se sia possibile categorizzare il piacere. Sembra sinceramente un’impresa ardua. In primis, il punto di partenza ci porta a considerare il carattere dilatorio del piacere del testo. Il testo di piacere è sempre breve, e assomiglia tanto a una sorta di introduzione, introduzione di qualcosa che non verrà mai detto o scritto. Il motivo è molto semplice. Come nota Barthes, ciò che in noi eccita della scena erotica, non è la scena in se, ma la sua preparazione, la sua anticipazione, i preliminari; non appena la scena sboccia dinnanzi ai miei occhi c’è delusione, non siamo appagati.
Inoltre non è possibile compiere una completa selezione dei testi di piacere e analizzarli; ci sarebbe tuttavia una mistica del testo; potrei materializzare tale piacere, oggettivarlo, renderlo simile a qualunque altro piacere (un piatto di pasta per esempio) e ascriverlo al catalogo delle mie sensualità; potrebbe però esservi al tempo stesso una perdizione soggettiva, e in quel caso si apre la strada al godimento, alla massima purezza della perversione.
Esatto perversione. Il lettore è tremendamente perverso. Il piacere non ha bisogno di scegliere con capriccio una ideologia, poiché esso è perverso, si allontana dall’unità morale imposta dalla società; siamo perversi nella commento, poiché come osservatori godiamo clandestinamente del piacere altrui.
Ma i punti più alti di perversione li tocchiamo su due fronti:
- Quando traiamo piacere dalla lettura tragica, poiché esso deriva da un testo di cui conosciamo ogni singolo elemento, come nell’Edipo, in cui sappiamo che questi verrà smascherato. Sembra la variante del godimento. Infatti esso non solo è dato dalla novità, ma dalla ripetizione perfetta di parole o testi, che mantengono un velo magico e aurorale. Sia nel caso del nuovo, che in quello della ripetizione, vi si trova lo statuto dell’eccesso, del godimento.
- Quando in una mano portiamo il libro di piacere e nell’altra quello di godimento, un po’ come se al contempo fossimo assertori o edonisti della cultura e dall’altro fautori della sua distruzione.
Si è detto della possibilità di considerare come forma di godimento la ripetizione. Il fatto è che in una società come la nostra, essa è considerata eccessiva, e pertanto messa da parte.
Nel momento in cui la ripetizione perde la sua aura di magia, eccoci nello stereotipo, che è solo la ripetizione naturale privo di alcunché di inebriante. Qui Barthes realizza uno dei tantissimi rimandi a Nietzsche, il quale afferma che la verità è frutto del solidificarsi di ancestrali metafore. Allora alla stregua di questo, possiamo pensare che anche lo stereotipo nella sua solidificazione temporale diviene realtà. E’ anche vero però che esso mi nausea, qualora il legame tra due parole importanti diventa ovvio, e allora diserto tale legame: sono di nuovo nel godimento.
Fino a questo punto il percorso di Barthes è apparso piuttosto chiaro; egli, partendo da un contrasto nei confronti delle accuse di contraddizione logica (poiché il piacere del testo non si ricerca nella teoria del testo), giunge a dare rilevanza al piacere e al godimento, definendoli rispettivamente come appagamento e mancamento, e definendo le difficoltà oggettive di un’analisi dettagliata, “scientifica” di questi termini.
Ma è proprio qui che Barthes ancora una volta ci sorprende; se nella teoria del testo non c’è posto per il piacere, e se esso difficilmente può essere ricercato nella Linguistica, che Barthes ritiene poco “semiologica” e nemica del testo, allora ecco la presentazione di una nuova scienza: la Scienza dei Godimenti del Linguaggio, ovvero la scrittura, che rappresenta il kamasutra del linguaggio stesso.
Il testo mi desidera, ed è la scrittura la matrice di tale desiderio. Sono i vocaboli, i termini, il lessico, i rimandi che spingono il testo verso di me; e all’interno del testo trovo sempre l’altro, l’autore, morto istituzionalmente certo; ma io ho bisogno di lui, come lui ha bisogno di me.
Questo rivaluta il rapporto tra l’autore e il lettore; il primo non è la parte attiva che si estranea dal secondo come parte passiva; il testo è l’occhio attraverso cui egli mi osserva e mi parla. Sembra un po’ come riprendere l’esempio di Silesius, quando afferma che l’occhio attraverso il quale osservo Dio è lo stesso attraverso il quale egli osserva me. L’autore, ad ogni modo, non ha una collocazione fissa; egli è spesso alla deriva, si muove dietro i movimenti storici, gli chiedo tutto e niente.
Così come l’autore, anche il piacere può essere sintetizzato come una costante e continua deriva. Infatti il piacere non è sempre eroico e trionfante, non è muscoloso ed energico. Io mi lascio trasportare dalle illusioni, dai giochi, dalle seduzioni, e vado alla deriva, pur rimanendo immobile.
Il piacere inoltre non coincide con testi di piacere, così come evidentemente il godimento non è dato da testi di godimento. Il piacere non è il rapporto tra il mimo e il modello ma tra il mimo e l’ingannato.
Come collocare precisamente il godimento e il piacere? Il godimento può essere il neologismo, sensualità degli alfabeti, scolpiti dall’abilità degli artigiani e dalla psicologia dei popoli; è la sensualità della significanza che non è significato, ma godimento. Allo stesso tempo, il piacere è il valore promosso al rango suntuoso di significante (con un chiaro rimando alla scrittura ad alta voce, che seduce attraverso le assonanze e le prosodie).
Il punto di partenza era abbastanza chiaro; il piacere del testo è una Babele felice.
La chiave di lettura scelta come punto di partenza, prevedeva la possibilità di considerare il piacere come realizzatosi lì dove vi è la coabitazione dei linguaggi, che lavorano spalla a spalla. Eppure le considerazioni di Barthes, ci portano ovviamente a considerare tutti i linguaggi come tante differenti regioni, incastonate in un immenso mosaico. E’ chiaro che questi linguaggi lottano per l’egemonia, e a prevalere su gli altri è quello che diviene doxa (opinione, differenziato dal paradoxa ovvero confutazione), divenendo cioè stereotipo. Lo stereotipo è il linguaggio dei media, dello sport, della politica.
A divenire doxa è il linguaggio cioè che riesce in ultima istanza ad aggredire l’avversario, ad additarlo come semiscientifico o semietico. Cioè quel linguaggio che con un unico termine riesce a descrivere, generalizzare, screditare e vomitare l’avversario, il nemico, come per fargliela pagare.
E noi, in quanto soggetti che vivono nel linguaggio, cosa facciamo? L’unica modo per salvarci è abitare uno di questi linguaggi, scegliere di esserne parte. Il carattere atopico del linguaggio ci permette di estraniarci dall’aspetto conflittuale dei linguaggi; è come se esso dicesse al contempo “agio ed esclusione”. Infatti tra due conflitti vi è sempre il periodo di pace, il tempo di una “buona birra fresca”. Il piacere del testo si colloca lì, lì dove cioè il carattere guerresco si placa e avviene la desquamazione della punta acuminata della penna dell’autore.
La domanda a questo punto che sorge spontanea è:”se il testo è scrittura, è linguaggio, allora come fa ad estraniarsi dal conflitto tra i linguaggi”?
L’idea di fondo è che dovrebbe comunque esistere un’ultima ennesima parola, definitiva. Allo stesso tempo, nel momento in cui io nomino sono nominato. Succede qualcosa di imprevisto al testo: in primo luogo il testo liquida ogni metalinguaggio, ed è in questo che è testo: nessuna voce (Scienza, Causa, Istituzione) sta dietro a ciò che dice.
Inoltre il testo opera una profonda distruzione della propria categoria discorsiva, il suo riferimento sociolinguistico: è la comicità che non fa ridere, la citazione senza virgolette. Emerge un nuovo stato filosofale della materia linguistica, è allora linguaggio e non un linguaggio.
Le conclusioni cui Barthes giunge sono emozionanti. Ogni volta che analizzo un testo che mi da piacere, in esso non ritrovo la mia soggettività, ma il mio individuo, l’elemento che mi separa dagli altri corpi: è il mio corpo di godimento quello che ritrovo; questo è anche il mio soggetto storico, e dopo una complessa combinatoria di elementi biografici, sociologici e nevrotici regolo il gioco del piacere (culturale) e del godimento (non culturale) e mi presento come soggetto attualmente fuori posto, venuto troppo tardi o troppo presto; troppo che non è ne un errore ne un rimpianto, ma che indica un posto nullo. Sono anacronistico, alla deriva, e il piacere si mostra come neutro.
La distinzione tra piacere e godimento permette a Barthes e alla sua opera di non essere mera satira; egli non ignora la possibilità di un accordo strutturale tra forme contestanti e forme contestate, ma non si sfugge alla logica del rovesciabile.
L’opera di Barthes resta suggestiva poiché attraverso la teoria dei godimenti del testo riesce a operare il rapporto tra piacere e godimento, e permette di superare la classica teoria del testo, trascendendo le classiche forme morfo-sintattiche del linguaggio.