modalità d'esame

per tutti gli studenti che dovranno sostenere l'esame di
Filosofia del Linguaggio mod.B a.a. 2009/2010


si rende noto che

-Il numero di battute dei propri elaborati dovrà essere compreso tra 14000 e 16000

-Bisognerà postare i propri lavori 14 giorni prima dell'appello scelto per sostenere l'esame

l'indirizzo e-mail a cui chiedere l'autorizzazione per postare è:
foucaultbarthes0910@gmail.com

per non avere problemi con le autorizzazioni si invita gli studenti ad utilizzare un indirizzo gmail per inoltrare le proprie richieste
Gli studenti che hanno usato il proprio account @mondoailati.unical.it per postare su altri blog relativi agli esami di Informatica, sono pregati di creare COMUNQUE un nuovo account

Programma d'esame

cicli: 07 e precedenti
A partire dalla sessione di giugno 2010 il programma d'esame consiste nello studio di:
-M.P. Pozzato, Semiotica del testo, Carocci
-Barthes, Variazioni sulla scrittura-Il piacere del testo, Einaudi
-Foucault, Ordine del discorso
e nella stesura di un elaborato da postare sul blog

lunedì 5 luglio 2010

Il piacere, come una Babele felice

di Davide Costantino Basile.

E’ forse erroneo considerare quanto appena citato dal titolo? E’ possibile pensare che il mito babelico della mescolanza delle lingue, improvvisamente venga sovvertito, e da punizione diventi miracolo? In questo breve enunciato è racchiusa tutta l’audacia di Barthes nell’andare oltre le classi grammaticali e morfo-sintattiche, per aprire un capitolo nuovo inerente alle problematiche testuali.

Perché io acquisto un libro? Perché come un cannibale mi getto su di lui, per cibarmi di esso, della sua essenza? Molto semplice, perché ne traggo piacere; è il piacere che mi porta a divorare un testo, è la sua linfa vitale ciò di cui io ho bisogno. Ma è giusto andare per piccoli passi.

Ho un libro tra le mani, lo sfoglio lentamente e nel frattempo ,a piccole dosi, lo leggo. L’intero testo, una frase o semplicemente un parola, può catturare la mia attenzione. Barthes, sa bene che se c’è qualcosa che mi piace, è perché è generata nel piacere, ma ciò a cui mira l’autore, che istituzionalmente muore, non è tanto il soggetto, quanto il campo, lo spazio potenziale all’interno del quale può darsi il piacere. L’aspetto invitante è che il piacere può darsi in una miriade di modi differenti; ad esempio una descrizione ossessiva, come riportato in Bouvard et Pècuchet:

"delle tovaglie, dei lenzuoli, degli asciugamani, pendevano verticalmente, attaccati con stanghette di legno a corde tese".

Barthes gusta qui un eccesso di precisione, una sorta di esattezza maniaca del linguaggio, una follia di descrizione. E ancora, in un testo di Stendhal, passa del cibo nominato: latte, tartine, formaggio alla panna Chantilly, marmellate di Bar, arance di Malta, fragole zuccherate. Ma qui ci sarebbe il rischio di pensare che si tratti solo di un piacere di pura golosità; semplicemente, accade che quando qualcuno rappresenta qualcosa al proprio interlocutore, allega alla rappresentazione l’ultimo stadio della realtà, ciò che in essa vi è di intrattabile e che non potrebbe essere fatto con termini quali idealismo o marxismo, poiché ci muoviamo sul piano della concretezza reale.

Si può stabilire allora un significato da attribuire al piacere? Per Barthes il piacere è soddisfazione, appagamento, è legato cioè a una pratica confortevole della lettura. E’ anche vero però che non bisogna cadere nell’ambiguità, quella generata dalla confusione dei termini piacere e godimento.

Non sono, infatti la medesima cosa; mentre cioè il piacere è appagamento, il godimento sconforta, fa vacillare, genera un mancamento che mette in discussione i principi psicologici, storici e culturali su cui si posa l’individuo. Allora è chiaro che si può riprendere Sade, il quale afferma che nell’ambito della ridistribuzione linguistica (che si attua sempre attraverso una frattura), si creano due bordi; da un lato la lingua, copiata quasi a mo di plagio, in forma canonica, così come la si conosce; dall’altro lato, i contenuti possono assumere una miriade di forme possibili, anche la forma della distruzione della lingua. Da un lato quindi la cultura, dall’altro evidentemente la sua distruzione. In termini semplicistici, potremmo intendere il piacere come cultura, il godimento come la sua distruzione. Ma perché il godimento è distruzione della cultura?

Il primo punto da analizzare è il carattere atopico del godimento. Barthes, infatti, passando per Lacan e Lecler, conclude che una delle sostanziali differenze tra il piacere e il godimento è che il secondo è fondamentalmente “indicibile”, cosa che del resto lo porterà a stretto rapporto con la paura. Il piacere invece, è dicibile, in termini di critica, poiché è cultura, e si rifà tanto al passato delle cose già dette, quanto al futuro, delle cose ancora da dire. La critica infatti, verte sempre su testi di piacere e mai di godimento.

Questa concezione di atopia, di non-luogo, non si contrappone al luogo, ma lo trapassa e lo sovverte, evidentemente facendo riflettere il lettore sulle pratiche di tale sovvertimento, che si ripercuote su quella che Barthes definirà “distruzione dell’arte”, ad opera degli artisti stessi, che modificano il loro significante.

Il piacere dal canto suo, per quanto ricco di pregi, non è mai certo. Infatti esso deriva sempre da una seconda o ancor più successiva lettura di un testo, che mi appaga e mi soddisfa. Il godimento è ben altra cosa: esso è novità (da non confondersi con lo stereotipo del nuovo; nove volte su dieci la novità altro non è che tale stereotipo); e allora per questo motivo il piacere non è mai certo, poiché non è sicuro che un testo, a una successiva lettura mi piacerà; e anche per questo infondo che Barthes affermerà che all’interno della teoria del testo, difficilmente possiamo trovare una posizione al piacere del testo. Per quanto concerne il godimento, invece, a contraddistinguerlo non vi è solo la sua indicibilità, ma anche e soprattutto il suo carattere di precocità. Infatti esso giunge sempre quando meno me lo aspetto, mi travolge, irruente, e si esaurisce in un unico lampo. Un po’ come quando si osserva un quadro contemporaneo; dopo il primo sguardo tutto finisce, e gli occhi dovranno allora posarsi su qualcos’altro, poiché tutto termina in uno sguardo fugace.

Qualcuno si potrebbe chiedere a questo punto se sia possibile categorizzare il piacere. Sembra sinceramente un’impresa ardua. In primis, il punto di partenza ci porta a considerare il carattere dilatorio del piacere del testo. Il testo di piacere è sempre breve, e assomiglia tanto a una sorta di introduzione, introduzione di qualcosa che non verrà mai detto o scritto. Il motivo è molto semplice. Come nota Barthes, ciò che in noi eccita della scena erotica, non è la scena in se, ma la sua preparazione, la sua anticipazione, i preliminari; non appena la scena sboccia dinnanzi ai miei occhi c’è delusione, non siamo appagati.

Inoltre non è possibile compiere una completa selezione dei testi di piacere e analizzarli; ci sarebbe tuttavia una mistica del testo; potrei materializzare tale piacere, oggettivarlo, renderlo simile a qualunque altro piacere (un piatto di pasta per esempio) e ascriverlo al catalogo delle mie sensualità; potrebbe però esservi al tempo stesso una perdizione soggettiva, e in quel caso si apre la strada al godimento, alla massima purezza della perversione.

Esatto perversione. Il lettore è tremendamente perverso. Il piacere non ha bisogno di scegliere con capriccio una ideologia, poiché esso è perverso, si allontana dall’unità morale imposta dalla società; siamo perversi nella commento, poiché come osservatori godiamo clandestinamente del piacere altrui.

Ma i punti più alti di perversione li tocchiamo su due fronti:

- Quando traiamo piacere dalla lettura tragica, poiché esso deriva da un testo di cui conosciamo ogni singolo elemento, come nell’Edipo, in cui sappiamo che questi verrà smascherato. Sembra la variante del godimento. Infatti esso non solo è dato dalla novità, ma dalla ripetizione perfetta di parole o testi, che mantengono un velo magico e aurorale. Sia nel caso del nuovo, che in quello della ripetizione, vi si trova lo statuto dell’eccesso, del godimento.

- Quando in una mano portiamo il libro di piacere e nell’altra quello di godimento, un po’ come se al contempo fossimo assertori o edonisti della cultura e dall’altro fautori della sua distruzione.

Si è detto della possibilità di considerare come forma di godimento la ripetizione. Il fatto è che in una società come la nostra, essa è considerata eccessiva, e pertanto messa da parte.

Nel momento in cui la ripetizione perde la sua aura di magia, eccoci nello stereotipo, che è solo la ripetizione naturale privo di alcunché di inebriante. Qui Barthes realizza uno dei tantissimi rimandi a Nietzsche, il quale afferma che la verità è frutto del solidificarsi di ancestrali metafore. Allora alla stregua di questo, possiamo pensare che anche lo stereotipo nella sua solidificazione temporale diviene realtà. E’ anche vero però che esso mi nausea, qualora il legame tra due parole importanti diventa ovvio, e allora diserto tale legame: sono di nuovo nel godimento.

Fino a questo punto il percorso di Barthes è apparso piuttosto chiaro; egli, partendo da un contrasto nei confronti delle accuse di contraddizione logica (poiché il piacere del testo non si ricerca nella teoria del testo), giunge a dare rilevanza al piacere e al godimento, definendoli rispettivamente come appagamento e mancamento, e definendo le difficoltà oggettive di un’analisi dettagliata, “scientifica” di questi termini.

Ma è proprio qui che Barthes ancora una volta ci sorprende; se nella teoria del testo non c’è posto per il piacere, e se esso difficilmente può essere ricercato nella Linguistica, che Barthes ritiene poco “semiologica” e nemica del testo, allora ecco la presentazione di una nuova scienza: la Scienza dei Godimenti del Linguaggio, ovvero la scrittura, che rappresenta il kamasutra del linguaggio stesso.

Il testo mi desidera, ed è la scrittura la matrice di tale desiderio. Sono i vocaboli, i termini, il lessico, i rimandi che spingono il testo verso di me; e all’interno del testo trovo sempre l’altro, l’autore, morto istituzionalmente certo; ma io ho bisogno di lui, come lui ha bisogno di me.

Questo rivaluta il rapporto tra l’autore e il lettore; il primo non è la parte attiva che si estranea dal secondo come parte passiva; il testo è l’occhio attraverso cui egli mi osserva e mi parla. Sembra un po’ come riprendere l’esempio di Silesius, quando afferma che l’occhio attraverso il quale osservo Dio è lo stesso attraverso il quale egli osserva me. L’autore, ad ogni modo, non ha una collocazione fissa; egli è spesso alla deriva, si muove dietro i movimenti storici, gli chiedo tutto e niente.

Così come l’autore, anche il piacere può essere sintetizzato come una costante e continua deriva. Infatti il piacere non è sempre eroico e trionfante, non è muscoloso ed energico. Io mi lascio trasportare dalle illusioni, dai giochi, dalle seduzioni, e vado alla deriva, pur rimanendo immobile.

Il piacere inoltre non coincide con testi di piacere, così come evidentemente il godimento non è dato da testi di godimento. Il piacere non è il rapporto tra il mimo e il modello ma tra il mimo e l’ingannato.

Come collocare precisamente il godimento e il piacere? Il godimento può essere il neologismo, sensualità degli alfabeti, scolpiti dall’abilità degli artigiani e dalla psicologia dei popoli; è la sensualità della significanza che non è significato, ma godimento. Allo stesso tempo, il piacere è il valore promosso al rango suntuoso di significante (con un chiaro rimando alla scrittura ad alta voce, che seduce attraverso le assonanze e le prosodie).

Il punto di partenza era abbastanza chiaro; il piacere del testo è una Babele felice.

La chiave di lettura scelta come punto di partenza, prevedeva la possibilità di considerare il piacere come realizzatosi lì dove vi è la coabitazione dei linguaggi, che lavorano spalla a spalla. Eppure le considerazioni di Barthes, ci portano ovviamente a considerare tutti i linguaggi come tante differenti regioni, incastonate in un immenso mosaico. E’ chiaro che questi linguaggi lottano per l’egemonia, e a prevalere su gli altri è quello che diviene doxa (opinione, differenziato dal paradoxa ovvero confutazione), divenendo cioè stereotipo. Lo stereotipo è il linguaggio dei media, dello sport, della politica.

A divenire doxa è il linguaggio cioè che riesce in ultima istanza ad aggredire l’avversario, ad additarlo come semiscientifico o semietico. Cioè quel linguaggio che con un unico termine riesce a descrivere, generalizzare, screditare e vomitare l’avversario, il nemico, come per fargliela pagare.

E noi, in quanto soggetti che vivono nel linguaggio, cosa facciamo? L’unica modo per salvarci è abitare uno di questi linguaggi, scegliere di esserne parte. Il carattere atopico del linguaggio ci permette di estraniarci dall’aspetto conflittuale dei linguaggi; è come se esso dicesse al contempo “agio ed esclusione”. Infatti tra due conflitti vi è sempre il periodo di pace, il tempo di una “buona birra fresca”. Il piacere del testo si colloca lì, lì dove cioè il carattere guerresco si placa e avviene la desquamazione della punta acuminata della penna dell’autore.

La domanda a questo punto che sorge spontanea è:”se il testo è scrittura, è linguaggio, allora come fa ad estraniarsi dal conflitto tra i linguaggi”?

L’idea di fondo è che dovrebbe comunque esistere un’ultima ennesima parola, definitiva. Allo stesso tempo, nel momento in cui io nomino sono nominato. Succede qualcosa di imprevisto al testo: in primo luogo il testo liquida ogni metalinguaggio, ed è in questo che è testo: nessuna voce (Scienza, Causa, Istituzione) sta dietro a ciò che dice.

Inoltre il testo opera una profonda distruzione della propria categoria discorsiva, il suo riferimento sociolinguistico: è la comicità che non fa ridere, la citazione senza virgolette. Emerge un nuovo stato filosofale della materia linguistica, è allora linguaggio e non un linguaggio.

Le conclusioni cui Barthes giunge sono emozionanti. Ogni volta che analizzo un testo che mi da piacere, in esso non ritrovo la mia soggettività, ma il mio individuo, l’elemento che mi separa dagli altri corpi: è il mio corpo di godimento quello che ritrovo; questo è anche il mio soggetto storico, e dopo una complessa combinatoria di elementi biografici, sociologici e nevrotici regolo il gioco del piacere (culturale) e del godimento (non culturale) e mi presento come soggetto attualmente fuori posto, venuto troppo tardi o troppo presto; troppo che non è ne un errore ne un rimpianto, ma che indica un posto nullo. Sono anacronistico, alla deriva, e il piacere si mostra come neutro.

La distinzione tra piacere e godimento permette a Barthes e alla sua opera di non essere mera satira; egli non ignora la possibilità di un accordo strutturale tra forme contestanti e forme contestate, ma non si sfugge alla logica del rovesciabile.

L’opera di Barthes resta suggestiva poiché attraverso la teoria dei godimenti del testo riesce a operare il rapporto tra piacere e godimento, e permette di superare la classica teoria del testo, trascendendo le classiche forme morfo-sintattiche del linguaggio.

Foucault: funzione-autore

[] Credo che esista un altro principio di rarefazione di un discorso. Esso è sino a un certo punto, complementare al primo. Si tratta dell’autore. L’autore considerato, naturalmente, non come l’individuo parlante che ha pronunciato o scritto un testo, ma l’autore come principio di raggruppamento dei discorsi, come unità ed origine dei loro significati, come fulcro della loro coerenza […]

Da questa citazione voglio iniziare questo mio elaborato e concentrarmi particolarmente su ciò che Foucault definisce funzione-autore, ma per fare ciò bisogna, innanzitutto, iniziare da una conferenza, che egli tenne nel 1969, dal titolo “Che cos’è un autore”.

La conferenza ha inizio con una citazione di Beckett, ovvero : “Cosa importa chi parla?”.

Foucault adotta questa citazione come paradigma del fenomeno della sparizione dell’autore nella letteratura contemporanea e tenta di enunciare l’avvento di una nuova metodologia di analisi, rivolta anche al resto delle discipline, in cui, al posto dell’autore come individuo, si instaura quella, che Foucault definisce funzione-autore.

Le parole di Foucault ruotano intorno all’idea fondamentale di una funzione-autore, che si sostituisce all’autore come individuo, ed esemplifica così il metodo, definito da Foucault archeologico, di fare emergere le condizioni formali di pratiche discorsive specifiche. Abbandonare la figura dell’autore non è facile. L’attribuzione di un autore non costituisce una funzione omogenea. Foucault cita quattro esempi con cui si tende ad associare un’opera all’espressione volontaria di un soggetto parlante o scrivente, così definito autore. Il primo di questi esempi tiene conto del carattere storico, ovvero nel momento in cui diventa necessario un referente giuridico a cui la legge possa fare appello in caso di violazione di determinate norme.

Una secondo esempio è caratterizzato dal modo in cui la funzione-autore si esercita a seconda delle discipline (caratteristica non separabile dal contesto storico):

[…] nell’ordine del discorso scientifico l’attribuzione ad un autore era, nel medioevo, indispensabile, in quanto costituiva un indice di verità. Si riteneva che una proposizione detenesse dall’autore stesso il suo valore scientifico.[…]

Da queste parole s’intuisce come prima del XVIII secolo, il nome dell’autore era fondamentale per quanto riguardava il campo scientifico, mentre le opere letterarie circolavano per la maggior parte anonimamente.

Dopo questo periodo la situazione è un po’ cambiata, infatti il valore di un’opera letteraria si lega maggiormente alla notorietà dell’autore mentre in campo scientifico una scoperta viene ritenuta valida indipendentemente dalle caratteristiche individuali di chi l’ha prodotta.

Come terzo esempio Foucault giudica i problemi relativi all’attribuzione di un corpus di opere alla medesima persona. La critica non tiene conto, tuttavia, dei problemi relativi a pseudonimi, abbozzi, lettere e in generale del numero infinito di tracce verbali che un individuo lascia dietro di sé.

Per concludere, Foucault mostra l’ambiguità presenti in un’opera, i quali mettono in luce una pluralità di individui parlanti.

Bisogna dire che la conferenza di Foucault è stato assimilata all’articolo di Roland Barthes “La morte dell’autore” , in questo articolo si afferma il confluire di ogni soggettività nella scrittura, che per Barthes equivale al linguaggio.

Secondo Barthes l’autore viene sostituito dallo scripteur (il copista), proprio l’opposizione tra écrivain, che nell’articolo è sinonimo di auteur, e scripteur gioca un ruolo fondamentale per comprendere il carattere autonomo e storico del linguaggio letterario a cui Barthes sottomette tutte le attività prodotte intorno alla letteratura.

Per Foucault come per Barthes, soggetto e autore sembrano trovare un strada comune nel pensiero contemporaneo dove notiamo un annullamento delle loro caratteristiche individualizzanti

[…]un’analisi dell’opera che non si riferisce alla psicologia, all’individualità, né alla biografia personale dell’autore, ma a un’analisi delle strutture autonome, delle leggi della loro costruzione[…] (Intervista a Michel Foucault).

Un aspetto essenziale di questa concezione è il problema del rapporto tra linguaggio e soggetto: il soggetto dell'enunciato non è più la sua origine unica e assoluta, ma una funzione caratterizzata da una molteplicità di individui. Già secondo l’analisi che Foucault delinea in Le parole e le cose, il linguaggio appare in tutto il suo essere frammentario, anonimo, disperso: mormorio senza autore in cui esso mostra il suo ESSERE.

Tuttavia bisogna concentrare la nostra attenzione sugli effetti della morte dell’autore che in Foucault assume un aspetto peculiare, egli, infatti è molto restio nel descrivere una storia lineare dell’autore e ciò soprattutto emerge in Le parole e le cose dove più che delineare una continuità, Foucault si sofferma sui punti di rottura.

In un’intervista del 1970, Foucault si rifà esplicitamente al carattere autonomo ed intransitivo della scrittura che ritroviamo esemplificata negli scritti di Barthes, soffermandosi sull’aspetto trasgressivo di questa. Se la scrittura, da Sade fino a Bataille e Blanchot, ha potuto creare il luogo di un’etica autonoma destinata a fare scandalo in mezzo alla rete degli altri discorsi, la possibilità di una funzione

di autentica trasgressione della scrittura all’interno del mondo contemporaneo è pressoché scomparsa, dal momento che essa è stata recuperata all’interno del sistema borghese-capitalista Oltre ad insistere ulteriormente sul fatto che l’autonomia della letteratura sia una caratteristica puramente storica e non essenziale, Foucault afferma la necessità di integrare l’attività letteraria con un’azione di tipo politico. Parlando di Sade, Foucault afferma:

[…] Mi interesso alla letteratura, nella misura in cui è il luogo in cui la nostra cultura ha operato alcune scelte originarie. La condizione storica in cui la scrittura e la letteratura potevano crearsi un mondo autonomo dalle ideologie è venuta meno: Barthes, e quelli che come lui affermano l’intransitività della scrittura, non fanno che dilatare il discorso appartenente ad un’epoca conclusa, di cui Blanchot, il quale ancora seppe costituire con la letteratura uno spazio irriducibile allo spazio reale rappresenta l’ultimo grande emblema.[…]

In questa conferenza si capisce così il passaggio dall’interesse nei confronti del linguaggio e delle opere letterarie allo studio delle forme di potere.

Questo tipo di discorso non è senza conseguenze riguardo al problema dell’autore. La letteratura contemporanea, identificandosi con un luogo neutro è diventata l’alibi che scagiona colui che scrive, alleggerendolo dalla responsabilità della sua opera. Identificando nello scrittore il luogo passivo in cui si incontra un linguaggio superiore, ha cancellato l’atto linguistico che lega l’autore alla sua opera e che sta all’origine della figura dell’autore come referente giuridico delle parole pronunciate o scritte (Che cos’è un autore?). L’insistere da parte di Foucault sulla problematicità di certi caratteri tradizionali della figura dell’autore, ritenute oggi traballanti, sulla dispersione degli elementi , non equivale al decretarne la sua morte assoluta. Quando egli parla di funzione-autore, si pone seriamente il problema di occuparsi dei fitti intrecci di relazioni che ne prendono il posto, in opposizione all’abbandono al relativismo di un linguaggio anonimo e privo di ogni interesse etico e politico.

[…]Un’ermeneutica che si ripiega su una semiologia crede all’assoluta esistenza dei segni: abbandona la violenza, l’incompiuto, l’infinità delle interpretazioni per far regnare il terrore dell’indice, e sospettare il linguaggio[…] (Nietzsche, Freud e Marx,).

La neutralità dell’analisi dei significanti linguistici rinnega il compito primo della filosofia, così come esso prorompe nei testi di Nietzsche, che è quello di


[…]impadronirsi, violentemente, di un’interpretazione già esistente che deve rovesciare, capovolgere, fare a pezzi a martellate[…] (Nietzsche, Freud e Marx, ).

Per comprendere come l’analisi “archeologica” assume un posto così determinante a discapito dell’interesse per la critica letteraria è infatti indispensabile citare Nietzsche, come riferimento costante delle riflessioni di Foucault. Nietzsche infatti, nel momento in cui, nella Genealogia della Morale, vede nel linguaggio, e in chi lo detiene, il fondamento del potere che genera i discorsi filosofici e morali, pone per primo la domanda sul «chi parla» come centrale per la filosofia. A questo quesito la letteratura ha ribattuto con il motto «Cosa importa chi parla?». Foucault parla qui di una distanza mai colmata dove si situano tutti gli studi sul linguaggio che hanno portato alla dissoluzione dell’uomo/soggetto/autore.

Quando Foucault insiste, nel corso della conferenza sull’autore, non può fare a meno di citare di seguito l’autore/autorità, cioè Beckett, che ha emesso tale enunciazione; così facendo, Foucault non fa che aumentare il problema della questione sull’autore. Secondo Foucault, il vuoto lasciato dal soggetto deve fare scattare una ricerca ancora più approfondita che risponda alla domanda di Nietzsche ha posto.

Se il linguaggio continua ad incarnare uno dei luoghi privilegiati in cui il sapere si manifesta, la questione centrale non consiste nello studiare le sue forme. Il problema del linguaggio in Foucault non è mai separabile da altri due temi fondamentali, follia e trasgressione, che si incrociano continuamente, delineando, nel punto della loro intersezione, il vuoto lasciato dal soggetto. Per questo motivo si può capire come il linguaggio in Foucault non assuma lo stesso statuto autoreferenziale che ritroviamo nello strutturalismo di Barthes.

Queste sono le ragioni per cui, benché l’interesse per la letteratura in l’Archeologia del sapere sia scomparso dagli elementi del primo piano, Foucault continua a fare ampio riferimento al discorso sull’autore. Per comprendere la funzione-autore è dunque indispensabile concentrarsi

sull’ appropriazione del discorso, ovvero sul come si definisca il diritto di qualcuno a parlare e ad essere competente nella comprensione di un certo tipo di discorso, chiamando in causa elementi esterni quali il desiderio, gli interessi e i rapporti di potere. Lo statuto di autore comporta innanzitutto un sistema di differenziazione e di rapporti a diversi livelli.

Gli studi degli analitici permisero a Foucault di comprendere meglio il linguaggio e il suo funzionamento, quindi la definizione del discorso in quanto pratica Prendiamo in esempio l’analisi dei nomi propri enunciata da Searle (Atti linguistici) dove viene descritta la problematicità che lega il nome dell’autore alla produzione che gli viene attribuita. Secondo Searle il nome proprio non è una funzione puramente denotativa né tantomeno descrittiva. Il nome, secondo Searle, designa piuttosto un criterio elastico di identificazione. Foucault adotta le riflessioni di Searle per concludere che l’atto linguistico da cui si ottiene il nome dell’autore implica una pratica diversa dal nominare un semplice elemento del discorso. Quindi se l’autore come individualità scompare, resta la funzione classificatoria che permette di fare luce sui rapporti d’autentificazione, di spiegazione reciproca tra differenti testi che si ritengono attribuibili alla stessa persona, essa permetterebbe di delineare la figura dell’autore dall’esterno, come sagoma vuota che si crea dall’intersezione delle diverse pratiche che compongono la funzione-autore.

La funzione-autore indica inoltre che un certo tipo di discorso assume un’importanza specifica, segnando una rottura con il discorso da cui ha preso le mosse, essa

[…]dà vita a un certo gruppo di discorsi e al suo modo di essere singolare è quindi caratteristica di un certo modo di esistenza, di circolazione e di funzionamento di certi discorsi all’interno di una società […]

In un’intervista di qualche anno prima Foucault insiste, citando non a caso l’esempio di Blanchot, sul nome come funzione primordiale

[…]è attraverso il nome che in un’opera si segna una modalità irriducibile al mormorio anonimo di tutti gli altri linguaggi[...]

La funzione-autore sostituisce al nome di un’individualità la molteplicità dei discorsi sulla modalità di circolazione, di valorizzazione, di attribuzione, di appropriazione dei discorsi; è per questa ragione che Foucault propone di sostituire all’autore il ruolo di fondatore di discorsività . Un fondatore di discorsività, ad esempio, Marx o Freud, segna l’avvento di una nuova metodologia per lo studio del sapere dal momento che, come già Foucault rilevava in una conferenza del 1964, nel suo pensiero

[…]più ci si inoltra nell’interpretazione e più ci si avvicina, contemporaneamente, a una regione molto pericolosa nella quale non solo l’interpretazione incontra il suo punto di capovolgimento, ma dove essa stessa scompare come interpretazione, portando forse con sé la scomparsa dello stesso interprete[...]

Nell’intento di porre fine all’autore come individuo, Foucault si rivolge alla peculiarità di certe figure, quali Freud e Marx, le quali, rendendo possibile un discorso fondato non tanto su analogie quanto sulle differenze ,permettono la proliferazione infinita di altri discorsi e delineano quindi la condizione formale dell’esistenza delle discipline (Cfr. L’ordine del discorso, p. 21).

Questa tematica sul proliferare infinito dei discorsi ci richiama da vicino alle tesi esposte in L’ordine del discorso. È dunque possibile rintracciare già nella conferenza qualche accenno allo studio del controllo delle pratiche discorsive, e si fa spazio quindi alla questione dei rapporti di potere. Sicuramente questa tematica non emerge improvvisamente nel pensiero foucaultiano: l’idea del moltiplicarsi all’infinito dei discorsi non può essere separato dall’interrogarsi sui rapporti di potere. Foucault afferma che ciò che caratterizza la cultura contemporanea non è voler sapere tutto, ma voler dire tutto, moltiplicare all’infinito gli oggetti dei discorsi . Il discorso ha un legame molto stretto sia con il desiderio sia con il potere, non tanto poiché nasconde il desiderio o perché è strumento ideologico del sistema, ma in quanto il discorso stesso è in primo luogo oggetto di desiderio, ciò di cui il potere cerca di impadronirsi (L’ordine del discorso, p.13). L’unico modo per impadronirsi del discorso, immettersi nel suo grande anonimato, è isolarlo, delimitarlo, definire l’opposizione per cui esso può essere vero o falso, imporre dei nomi, così come quelli degli autori, la cui autorità ostacoli questo proliferare. Foucault, parla di un proliferare pericoloso dei discorsi (L’Ordine del discorso, p. 12), in opposizione al quale l’autore si pone come principio di economia, di rarefazione, secondo l’espressione adottata in seguito (L’ordine del discorso, p. 19-23).

C’è dunque una doppia tendenza che emerge dall’accostare il tema dell’autore allo studio dei rapporti di potere,non c’è separazione fra il proliferare di un discorso, il rapporto che questo detiene con il desiderio di moltiplicarsi all’inifinito, e il discorso sul potere che per impadronirsene lo limita. Questa volontà di impadronirsi del discorso, volontà di dire, viene letta da Foucault come la chiave fondamentale che ha permesso che, nei diversi contesti storici, si producessero certi tipi di opposizioni tra il discorso vero e quello falso (L’ordine del discorso, p. 17).

La funzione-autore, quindi, deve essere vista in applicazione allo studio dei sistemi di verità che delimitano le pratiche discorsive. Tutto ciò non è avvenuto in maniera omogenea nella storia né tanto meno nei vari campi del sapere, infatti, l’autorialità scientifica ha un effetto di verità diverso rispetto a quello incarnato da una figura come Freud nei confronti della psicoanalisi.

Per concludere, tale elaborato, citerò una frase che riassume le posizioni del filosofo riguardo alla figura dell’autore:

[…]non domandatemi chi sono e non chiedetemi di restare lo stesso: è una morale da stato civile; regna sui nostri documenti. Ci lasci almeno liberi quando si tratta di scrivere […]

Bibliografia delle opere citate:

Roland Barthes, Il piacere del testo

Roland Barthes, La mort de l’auteur

Michel Foucault, Le parole e le cose

Michel Foucault, Nietzsche, Freud e Marx

Michel Foucault, Che cos’è un autore?

Michel Foucault, L’archeologia del sapere

Michel Foucault, L’ordine del discorso

John Searle, Atti linguistici





Laura Liberti

POTERE DEL DISCORSO, POTERE SUL DISCORSO

Di Alberto Marino

Partendo dal discorso della lezione inaugurale di Foucault al College de France, tenterò di mettere in luce il “potere” del discorso in quanto prassi, facendo riferimento anche ad altri filosofi che hanno trattato l’argomento. Inoltre analizzerò come, secondo Foucault, nella nostra società vi sono “poteri” di controllo e selezione per padroneggiare il discorso in quanto evento materiale.

Ne “L’ordine del discorso” Foucault inizia il discorso mettendo in luce la sua inquietudine nel prendere la parola, nell’essere il primo a trattare questo argomento. Spiega come questa inquietudine nasca dal fatto che il discorso è una realtà materiale, un’esperienza transitoria che potrà o svanire nel nulla ed essere dimenticata o creare una moltitudine di conseguenze. Egli stesso paragona la sua situazione ad una performance teatrale: un’attività fine a se stessa, un evento al cospetto del pubblico. Questa comparazione con la performance teatrale ricorda l’artista esecutore di cui parla Hannah Arendt. L’artista esecutore compie un’attività che non lascia dietro di sé un’opera o un oggetto finito, ma che è fine a se stessa. Inoltre la sua performance esiste solo se vi è un pubblico ad assistere. La Arendt, in “Vita Activa”, distingue le tre attività che caratterizzano la vita umana: lavoro, opera e azione. Se le prime due sono legate alla produzione di qualcosa, l’agire è la sola attività che metta in rapporto diretto i soggetti linguistici e che non necessita di oggetti materiali. L’azione è un’attività senza opera e la condizione umana ad essa legata è la pluralità.
L’azione, tipicamente, dà luogo a qualcosa di nuovo o imprevisto. Ogni azione è un nuovo inizio: ha un inizio predeterminato, ma un fine imprevedibile. La nostra azione si mescola alle azioni degli altri e nasce una catena di conseguenze che non può essere controllata (forse per questo motivo Foucault aveva timore di parlare di qualcosa che poteva creare conseguenze del tutto impreviste). Dunque la prassi, per la Arendt, ha bisogno di una pluralità di esseri unici e l’unica cosa che crea è uno spazio relazionale, l’infra, che è immateriale. L’autrice continua affermando che il discorso rappresenta l’aspetto linguistico dell’azione e permette all’aspetto operativo della prassi di rivelarsi attraverso il linguaggio. Questi aspetti messi in luce dalla Arendt sono presenti anche nell’enunciazione di Benveniste e negli enunciati performativi di Austin.
Benveniste parla di Situazione di disocorso o enunciazione: il momento in cui la langue come potenza si trasforma in atto attraverso l’atto di parole (L’azione del prendere la parola). Il filosofo mette in luce come vi sono elementi linguistici che hanno senso e si riferiscono soltanto alla presa di parola: ad esempio i pronomi personali IO-TU, che si riferiscono alla persona che in quel momento ha rotto il silenzio prendendo la parola e all’ascoltatore. Elementi che non hanno alcun riferimento extralinguistico. Oltre ai pronomi personali, anche tutti i deittici dei nostri discorsi dipendono dall’enunciazione: qui, ora, questo, ecc. Dunque è sempre presente un’azione: quella di enunciare attraverso i deittici che ci permettono di indicare la nostra presa di parola. Secondo Benveniste il linguaggio non è uno strumento di comunicazione, ma garantisce la stessa perché ne determina la soggettività : la capacità del parlante di porsi come io, di dichiararsi autore della frase. Egli parla anche di enunciati esecutivi: non descrivono l’azione, ma la compiono. Si crea l’evento soltanto attraverso le parole, attraverso l’enunciazione. Gli enunciati esecutivi di Benveniste richiamano inevitabilmente gli enunciati performativi di Austin. La parola performativi deriva dal termine inglese perform. Infatti essi sono enunciati che non descrivono una situazione o ci dicono se l’asserzione sia vera o falsa. Attraverso essi si compie l’azione. “Prendo questa donna come mia legittima sposa”è un esempio di enunciato performativo. Se esistono le circostanza appropriate questa frase è un vero e proprio impegno, è una vera e propria azione.
Del carattere attivo del linguaggio si occupa anche Malinowski parlando di Comunicazione Fatica. Egli afferma che vi sono delle occasioni in cui non è importante ciò che si dice, ma le parole riescono a creare una socialità che prima non c’era. La comunicazione fatica permette di rompere il silenzio e di mettersi in contatto con l’altro. Anche qui il linguaggio non ha un fine fuori di sé, crea soltanto uno spazio di socialità che prima non esisteva.
A sostenere la forza del linguaggio in quanto prassi è anche Wittgenstein che, attraverso un semplice esempio, distingue la prassi dalla produzione. Egli paragona il produrre al cucinare. Per cucinare seguiamo regole definite dallo scopo che dobbiamo raggiungere, la pietanza da preparare. Alla fine abbiamo un’opera, cosa che non succede nell’agire. L’esempio eclatante dell’agire per Wittgenstein è proprio il linguaggio, che è caratterizzato dall’arbitrarietà. Chi non segue le regole del cucinare, non otterrà ciò che desiderava. Chi, invece, non segue le regole grammaticali dirà soltanto qualcosa in modo diverso, poiché il linguaggio non ha nessun scopo esterno che impone determinate regole.
Per comprendere meglio come il linguaggio abbia il potere di compiere un’azione, come non descriva l’evento, ma rappresenti l’evento stesso, voglio far riferimento, attraverso due teorici, a un tipo di discorso frequente nella nostra società: il discorso politico.
<< E’ il linguaggio politico sugli eventi politici, piuttosto che gli eventi stessi […]ciò di cui il pubblico fa esperienza: anche gli avvenimenti più prossimi derivano il proprio significato dal linguaggio che li descrive. Per queste ragioni il linguaggio politico è la realtà politica.>> (M. Edelman, 1992, p.98)
<< […]Il linguaggio della politica è il linguaggio del potere; è il linguaggio della decisione. Esso registra e modifica le decisioni: è il grido di battaglia, verdetto e sentenza, statuto, ordinanza e norma, giuramento solenne, notizia controversa, commento e dibattito. >> (Lasswell)
Dalle loro parole è chiaro come i discorsi dei politici non vadano a descrivere nulla, ma sono puramente eventi: ordini, promesse, giuramenti, ecc. Anche Foucault afferma che il discorso non è ciò che traduce le lotte di sistemi di dominazione, ma è il mezzo attraverso il quale si lotta e si cerca di impadronirsi del potere.
Dopo aver messo in luce il forte potere del discorso, ora possiamo comprendere il perché dell’inquietudine di Foucault rispetto al suo discorso inaugurale. A prescindere da questa esitazione iniziale, poi l’autore si concentra sui pericoli dei discorsi: <<[…]suppongo che in ogni società la produzione del linguaggio è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità>> (Foucault, 1971, p. 5). Dalle sue parole si comprende come la materialità del discorso sia tanto pericolosa per chi gestisce il potere da essere sottoposta a controlli e selezioni. Le procedure di controllo vengono suddivise in tre gruppi:
1. Procedure di ESCLUSIONE: la più evidente è quella dell’interdetto. Come sappiamo nella nostra società non si ha il diritto di dire tutto. Non si può parlare di qualsiasi cosa. Infatti le regioni in cui l’interdetto ha più forza sono la sessualità e la politica, considerate come pericolose all’interno di un discorso.
Altro principio di esclusione è la partizione tra ragione e follia. Dal Medioevo il discorso del folle non può circolare come quello degli altri: la sua parola è considerata senza significato e senza effetto. Capita anche, però, che gli si attribuiscono strani poteri, come quello di dire verità nascoste, di annunciare l’avvenire. Dunque la sua parola o non viene presa in considerazione, o viene ascoltata come parola di verità. Si crede che oggi questa partizione sia finita, ma secondo Foucault questa partizione esiste ancora attraverso le istituzioni (medici, psicoanalisti, ecc.) che si occupano dei folli.
Il terzo tipo di procedura di esclusione è la volontà di verità. La partizione creata dalla volontà di verità esiste fin dalla Grecia del VI secolo: il discorso vero, all’epoca, era quello pronunciato da chi di diritto, da chi si occupava di giustizia e attribuiva a ciascuno la sua parte. Era il discorso di chi regnava e cui tutti dovevano sottomettersi. Ma già un secolo dopo la più alta verità non risiedeva in quel che il discorso era o faceva, bensì in quel che diceva, cioè l’enunciato stesso. Le mutazioni scientifiche avvenute nel corso dei secoli possono essere lette come l’apparizione di nuove forme di volontà di verità. Dunque è la volontà di sapere che muta e che influenza i discorsi.
Le procedure di controllo o esclusione, analizzate fino ad ora, si esercitano dall’esterno e si riferiscono alla parte del discorso che mette in gioco il potere e il desiderio.
2. Procedure di LIMITAZIONE: questo gruppo è costituito da procedure interne, cioè esercitate dal discorso stesso per classificare, ordinare, padroneggiare la dimensione del discorso come evento. Un primo tipo di procedura messa in luce da Foucault è il commento. Tutte le narrazioni si raccontano più volte, si ripetono e dunque i discorsi vengono modificati con il passare del tempo. Una sola e stessa opera può dar luogo a tipi di discorso diversi. Il commento, quindi, crea una sfasatura tra il testo originale e quello ripetuto. Da una parte esso consente la costruzione di nuovi discorsi, dall’altra ha il ruolo di dire ciò che era stato silenziosamente già detto.
Un secondo tipo di procedura di limitazione è l’autore. Foucault per autore non intende l’individuo parlante che ha scritto o pronunciato il testo, ma un principio di raggruppamento dei discorsi. Esistono discorsi che circolano senza essere attribuiti a nessun autore: parole quotidiane, decreti, e tutto ciò che si trasmette nell’anonimato. L’autore è ciò che dà all’inquietante linguaggio della finzione unità, ordine, inserzione reale. L’individuo che si mette a scrivere un testo riprende sempre questa funzione dell’autore.
Il terzo tipo di procedure appartenente a questo gruppo sono le discipline. La loro organizzazione si oppone sia al principio dell’autore che a quello del commento. Al primo perché una disciplina viene definita da un campo di oggetti, metodi, tecniche e strumenti che costruiscono un sistema anonimo, non legato ad un’individualità. Si oppone anche al commento perché ciò che si suppone in partenza non è un senso che deve essere riscoperto, ma la costruzione di nuovi enunciati.
La disciplina, nonostante ciò, rappresenta un principio di limitazione perché è la somma di tutto ciò che può essere vero a proposito di qualcosa. Però prendendo il caso della medicina, non è costituita dal totale di ciò che si può dire di vero sulla malattia, poiché le discipline sono caratterizzate da errori come da verità. Inoltre affinché una proposizione possa appartenere a una disciplina deve rispondere a dei requisiti: un piano di oggetti determinati, l’uso di strumenti concettuali o tecnici ben definiti e l’iscrizione ad un orizzonte teorico.
3. Un terzo gruppo di procedure di controllo colpisce le condizioni di messa in opera dei discorsi e quindi limita l’individui che vogliono tenerli (i soggetti parlanti). Un primo esempio è il rituale che definisce la qualificazione che deve possedere l’individuo parlante e i gesti e i comportamenti che deve attuare. Esso fissa l’efficacia delle parole, il loro effetto. Un esempio di rituale è il discorso religioso. Il secondo esempio che mette in luce Foucault sono le Società di Discorso, le quali hanno la funzione di conservare e proteggere i discorsi per farli circolare in spazi chiusi e distribuirli secondo regole specifiche. Altro esempio sono le dottrine che, al contrario delle società di discorso, tendono a diffondersi grazie al desiderio di reciproca appartenenza che accomuna i credenti di una determinata dottrina. La condizione richiesta è il riconoscimento delle stesse verità e l’accettazione di regole prestabilite. Infine abbiamo l’appropriazione sociale dei discorsi. L’educazione permette ad ogni individuo di accedere a qualsiasi tipo di discorso, ma allo stesso tempo distribuisce e alimenta le distanze tra classi sociali. Ogni sistema di educazione è un modo politico di mantenere o modificare l’appropriazione dei discorsi con i saperi e i poteri che essi comportano.
Foucault parla anche di elisione della realtà del discorso attraverso:
- IL SOGGETTO FONDATORE: colui che anima le forme vuote della lingua, che fonda orizzonti di significati che la storia non dovrà più spiegare e che saranno presi come fondamenti teorici.
- L’ESPERIENZA ORIGINARIA: il discorso esiste già nel mondo come esperienza originaria, ma è reso tale grazie al linguaggio.
- LA MEDIAZIONE UNIVERSALE: sembra che il discorso stesso sia il centro dell’attenzione, ma esso non è altro che un discorso già tenuto, o meglio rappresenta le cose stesse e gli eventi che si fanno discorso. Ecco che anche in Foucault viene ripreso il concetto di discorso come evento, come azione.
Partendo da questi elementi, l’autore si pone davanti a sé tre obiettivi: rimettere in questione la nostra volontà di verità, restituire al discorso il suo carattere di evento e togliere via la sovranità del significante.

Concludendo, in questo elaborato ho cercato di analizzare il “potere del discorso” e i “poteri” di controllo su di esso partendo dall’idea di Foucault.
Il potere del discorso è stato messo in luce dalla sua forza di creare una realtà intersoggettiva, nella quale il nostro discorso influenza le concezioni degli altri ed è inevitabilmente influenzato da ciò che ci ha preceduto. Il suo potere è talmente grande che nella società si sono creati strumenti di controllo (poteri sul discorso) per lenirlo, indebolirlo. Essi sono stati presentati attraverso il riferimento a “L’ordine del discorso” di Foucault.

Potere e Linguaggio



POTERE E LINGUAGGIO:

l'Ordine del Discorso

come tentativo di assoggettamento del Pensiero

e isolamento degli individui.


Attraverso il suo discorso d'apertura che segna l'inizio del suo insegnamento presso il Collage de France , Michael Foucault , affronta un tema su cui pochi hanno riflettuto in maniera così diretta , preferendo affidare le proprie considerazioni a metafore narrative e letterarie , che spesso però sono state poco comprese a causa della complessità a dell'apparente trasparenze dell'elemento in discussione, confondendo la cruda realtà con la fantascienza.

Stiamo parlando del discorso e del linguaggio in generale che a differenza di quanto si creda, secondo Foucault, è uno strumento di controllo non indifferente, non solo perchè è un fenomeno che investe praticamente tutta la società umana vivente sulla terra, ma anche perchè vi è una sorta di assoggettamento spontaneo al linguaggio: esso ci circonda fin dalla nascita , cresciamo con e attraverso esso,e senza non sarebbe neanche lontanamente prospettabile una società come la nostra.

Ma la convinzione dell' originalità e della libertà con cui ci muoviamo in esso, e che, a parer comune caratterizza il fenomeno linguistico, non è che l'elemento meschino del linguaggio che, presentandosi sotto mentite spoglie ci costringe a vivere una condizione anosognostica che ci rende facilmente assoggettabili.

Il linguaggio, che nella visione comune è definito come strumento di comunicazione, è in realtà molto di più. Esso è considerato dai più alti teorici dell'evoluzionismo ( tra cui Darwin) il tratto distintivo della specie umana , l'elemento caratterizzante,quel'1,5% di patrimonio genetico che segna lo scarto evoluzionistico tra noi e i primati;per la fenomenologia e i teorici della mente rappresenta la possibilità di sintesi e l'unico elemento che rende possibile la creazione della conoscenza condivisa nell' intersoggettività;alla tradizione piagetiana che ne fa l'elemento fondante del proprio se , fanno eco i teorici dell'esperienza sonora , tra cui spicca Tomatis che parla di specchio sonoro tra madre e bambino: quel filo conduttore che permetterebbe attraverso la voce materna di costruire in primis la nostra identità soggettiva, e costituirà in seguito l'elemento di possibilità di distinzione tra il sé e l'altro.

La fondamentale importanza del linguaggio è ormai risaputa e non mi sembra il caso di scomodare le tradizioni ermeneutiche ed analitiche per continuare a ribadire il concetto: Il linguaggio è tutto ciò che ci circonda e tutto ciò che siamo, esso è l'estrinsecazione di un processo di semiosi, che rappresenta l'unica fonte di possibilità che ha una mente di rapportarsi con il mondo e di crearsi la consapevolezza non solo della realtà esterna ma anche della propria stessa esistenza.

Tuttavia gli uomini usano il linguaggio in maniera così spontanea e meccanica , da dimenticare spesso , non solo la sua cruciale funzione , ma anche che questa pratica non è resa possibile solo grazie ad una facoltà innata, più volte segnalata da numerose correnti di studio , ma che esso è frutto di una convenzione sociale.

Quando nasciamo ci troviamo catapultati in una determinata etnia, in una specifica società avente una propria cultura e una propria lingua. Nello stesso modo in cui aderiamo in maniera spontanea e non consapevole alla maggior parte di usi e costumi che ci circondano, anche la comunità linguistica ci rende parte integrante del proprio organismo, automaticamente.

Ci troviamo così ad aderire ad un sorta di setta chiusa , più o meno allargata che ci fa sentire quello che si chiama “senso di appartenenza” , ma nello stesso tempo ci isola dalle altre comunità e ci rende, e rende gli altri, diversi rispetto a noi.

L'adesione ad una comunità linguistica ha i suoi pro e i suoi contro. Essa implica cioè l'adesione a delle regole che se da una parte ci permettono di uscire dal così detto “mentalese” o “idioletto” dall'altra probabilmente ci porta a rischiare in maniera quasi del tutto inconsapevole, componenti essenziali di tutti gli esseri viventi , cui fa capo La Libertà.

Ma ne vale davvero la pena?

É proprio in questa prospettiva che si staglia la riflessione di M. Foucault ne “l'Ordine del Discorso”.

Prima di capire di che tipo di libertà stiamo parlando e in che senso il nostro autore parla di Ordine, vorrei fare un inciso.

É ovvio che nessuno potrebbe mettere in discussione l'importanza di avere un qualche insieme di regole che ci garantisca la comprensione reciproca, che è poi la base della socialità e della sopravvivenza di noi esseri umani; tuttavia è importante porre al centro alcune riflessioni nonostante la mia sensazione sia quella che esse portino effettivamente alla chiusura in un circolo vizioso di riflessioni,che condurrebbero all'eremitismo nonché all'afasia, colui che le praticherebbe con meno distacco rispetto al nostro. A mio avviso, pertanto, la presa di coscienza basta e avanza ,più che altro per cercare di vedere il linguaggio sotto una prospettiva diversa: ovvero come una “gabbia” senza la quale però non potremo sopravvivere.

Probabilmente il connubio di termini “Ordine del discorso” potrebbe farci fraintendere le vere intenzioni dell'autore.

A primo acchito ci viene infatti da pensare che il contenuto di un testo arrecante tale titolo sia quello di un qualsiasi testo normativo, che parli di grammatica e di regole sintattiche per la costruzione di periodi, frasi o proposizioni. Leggerlo in questi termini è quanto più di restrittivo si potesse fare. Certo anche questi elementi sono inclusi all'interno dell'ordine del discorso di cui Foucault parla, tuttavia il concetto è molto da estendere. Quando parliamo di Ordine del discorso bisogna pensare non solo all'ordine interno di una lingua stabilito in seguito all'educazione e alla “piega” che, nel corso della sua formazione, quella determinata lingua ha preso rispetto ad un'altra, ma anche ad un ordine sistemico è profondo che parte da un controllo istituzionale su qualsiasi prodotto della mente umana e quindi anche sulla produzione linguistica, di cui i primi (cioè l'ordine interno di una lingua) sono solamente conseguenze indotte.

Anche il concetto di produzione linguistica è da intendersi in senso molto lato, poiché non si intende solo un controllo dell'istituzione sui mezzi di comunicazione,fenomeno non certo nuovo, ma un controllo ben più serrato che deriva da anni e anni di sottomissioni, di chiusure culturali e di “BrainWash”.

I rapporti interpersonali si svolgono con, per e nella lingua.

Una lingua è di per se istituzionalizzata e regolata da norme che sempre più spesso prescindono dalle vere esigenze delle strutture linguistiche stesse: modi, tempi, argomenti, tutto è influenzato da un potere che pervade la lingua e ne fa elemento strumentale per il controllo delle relazioni sociali e della mente inquanto singola unità.

In particolar modo Foucault rintraccia 3 tipi di sistemi di esclusione che limitano la produzione linguistica :

  • L'interdizione
  • La partizione della follia
  • La volontà di verità

Il primo di riferisce alla censura e all'auto censura che dipendono dalle variabili dell'argomento , del soggetto parlante e del contesto. Nella fattispecie si riferisce all'impossibilità di dire tutto in qualsiasi momento; la nostra società è permeata di tabù soprattutto se si pensa ad esempio, ai discorsi dal contenuto sessuale; ma l'interdizione può anche riguardare il soggetto stesso, ad esempio vi sono i casi di determinate produzioni linguistiche in cui è richiesto che il soggetto sia “quello richiesto dal protocollo” affinchè il discorso sia efficace (il rituale).

La partizione della follia si riferisce all'inefficacia dei discorsi e delle volontà esplicate e non dei soggetti considerati folli o interdetti. In passato i folli non avevano alcuna rilevanza sociale e la loro volontà non veniva in nessun modo presa in considerazione. Volendo capovolgere il rapporto tra causa ed effetto possiamo portare alla luce la lunga tradizione di pregiudizi intorno agli afasici, fortunatamente interrotta da Paul Brocà nel 1861, che dimostrò le capacità di giudizio dei pazienti affetti da afasia: fino a tale data infatti l'afasia era considerata fonte di perdita delle capacità di intendere e di volere, e portava dal punto di vista sociale e giudiziario alla perdita completa di tutti i diritti.

Il terzo criterio di esclusione o limitazione si riferisce allo spostamento del criterio di verità : dal discorso ben fatto, oggi infatti tale criterio è intrinsecamente legato al paradigma empirico-scientifico.

Il rapporto tra linguaggio e fattori economici, sociali , culturali , politici ecc. di una comunità è ambivalente. Il linguaggio e la sua organizzazione influenza gli stessi e ne è influenzato. Credo sia questo l'elemento fondamentale che Foucault ha voluto porre in rilievo: l'influenza reciproca tra sistema linguistico e sistema mondo, la dipendenza di questi ultimi dal pensiero e la conseguente trasformazione dei rapporti interpersonali.

Il pensiero sfugge all'apparenza da qualsiasi tipo di controllo, tuttavia il soggetto è continuamente influenzati ed esposto ai “fattori del proprio tempo”, che ne modificano i criteri di valutazioni e di percezione delle cose: sistemi educativi caratterizzate da particolari pratiche punitive e di assoggettamento possono condurre non solo alla censura linguistica ma anche psichica (non poche volte infatti si evitano di dire alcune cose, e a volte anche di pensarle, cioè ci si autocensura).

Per meglio spiegare il rapporto stretto tra assoggettamento linguistico e psichico userò una metafora letteraria. Nel 1948 esce dalla penna di G. Orwell uno dei più grandi capolavori letterari della produzione artistica del primo 900: !984 (di cui il genio di Radford ne farà anche un capolavoro cinematografico nell'omonimo anno).

Al fine di controllare ogni aspetto della vita dei propri sudditi, il sistema Oceania introduce non solo il reato Psicologico,che, basato sulla legge del legittimo sospetto ,si regge su un sistema di terrore che si concretizza con l'esecuzione capitale pubblica di coloro che la pensano in modo diverso. Ma un sistema del genere non poteva non prevedere un riorganizzazione linguistica : ogni anno il SOCING divulga nel paese nuovi dizionari per educare la popolazione alla così detta Neolingua, una lingua che prevede sempre meno termini attraverso l'abolizione di lemmi inutili e la loro sostituzione con forme più semplici ,composte ,prefissate e suffissate.

Il pensiero verbale viene limitato dalla diffusione di sempre meno termini che si accompagna all'abolizione di concetti rivoluzionari e dissidenti, in poche parole è il tentativo di infantilizzare le menti e di disarmarle di pensieri complessi e che potrebbero sfuggire al controllo delle istituzioni.

Non credo che una prospettiva tanto catastrofica potrebbe realmente concretizzarsi, tuttavia non serve un'analisi molto approfondita per scoprire nel linguaggio pubblico e privato odierno un repentino ed inarrestabile processo di svuotamento dei concetti più alti a causa del loro uso non idoneo in determinati contesti: amore, pace ,rivoluzione, coesione sociale sono ormai “solo parole”.

Svuotare le parole dei propri significati, significa svuotare le menti dei concetti su cui si basa la loro valutazione critica del reale.

É facilmente intuibile che in questa prospettiva anche i rapporti interpersonali vengono ad essere distorti. Ciò di cui Foucault parla in un passo del suo discorso è anche il tentativo di controllo del discorso tra i soggetti. L'esempio ci è offerto tanto dall'opera orwelliana quanto dall'opera di Brabury, Fahrenheit 451, altra pietra miliare della letteratura contemporanea. In entrambe le opere è messo ben in evidenza ciò che si rischia nel momento in cui il rapporto IO-TU viene ad essere interrotto.

L'isolamento, la paura dell'altro ,il sospetto rendono l'individuo indifeso e facilmente plagiabile, in quanto non ha più la sicurezza che ciò che lo circonda sia effettivamente reale , poiché questa sicurezza solo l'altro può offrircela attraverso le sue parole.

La storia ci insegna che, al di là di metafore drammatiche e dai contorni fantascentici, che la letteratura di ogni epoca ci mette a disposizione, ogni regime basa la propria tattica di controllo sull'isolamento dell'individuo che non potendosi più confrontare perde il senso della realtà.

È doveroso a questo punto fare un piccolo accenno circa le strutture linguistiche e i modi di rapportarsi al linguaggio e al discorso da parte di particolari forme di regimi restrittivi.

I “Totalitarismi” sono sempre stati caratterizzati da particolari tipi di strutture linguistiche : il linguaggio del despota è spesso caratterizzata da un impostazione forte e severa non solo nei termini usati,ma anche la fermezza della voce e il tono sempre alto sono appositamente studiati per incutere timore e contribuire a creare quel clima di sottomissione che fa del popolo, sudditanza.

Al dì là delle strategie dialettiche dei capi di regime, a mio avviso possiamo riscontrare anche delle costanti sul rapporto tra l'istruzione e l'educazione e i vari regimi. Quando si tratta di creare una situazione di sottomissione , la scuola , gli enti di istruzione istituzionalizzata nonché i centri di divulgazione comunicativa pubblica e privata, sono sempre stati presi di mira al fine di infondere determinate idee e concetti e di indurre a certi tipi di comportamenti.

Credo che sia in questo senso che Foucault muove critica ai modi e agli scopi che spingono ad una certo tipo di organizzazione della didattica pittosto che un'altra. A tal proposito possiamo fare un piccolo accenno al linguaggio stesso della didattica. Durante il corso della storia non sono cambiati solo le materie insegnate, modi tempi e luoghi d'insegnamento, ma anche il rapporto insegnante-studente si è modificato. Nella crescita emotiva e culturale di ognuno di noi, credo che questo rapporto possa essere quasi paragonato al rapporto genitore-figlio , in quanto a mio avviso l'insegnante supplisce spesso alle lacune dei genitori in ambito non affettivo ma culturale. Nell'insegnamento però è stato troppo spesso adottato un modello clericale di comunicazione : dove il dialogo è praticamente assente e le nozioni sono elargite quasi sempre in un rapporto “ IO parlo, Tu asclolti”. Nonostante l'annosità di questo modello, esso è tuttavia estremamente contemporaneo. La nostra cultura è oggi caratterizzata da un tipo di fruizione dell'informazione che limita fortemente l'uso del dialogo: le Tv e i mezzi di comunicazione di massa più “primitivi” associati a quelli di ultima generazione , se da una parte ci hanno permesso di far entrare il mondo in casa nostra dall'altro hanno contribuito alla nostra chiusura all'interno delle 4 mura domestiche.

L'esperienza al dialogo diretto e “degli occhi degli altri” ci fa sempre più paura poiché ad esse ci hanno disabituato , e sono riusciti a farci preferire stili comunicativi più facili,veloci e meno “imbarazzanti” che garantiscono al sistema un controllo totale e immediato.

Dopo questo brevissimo exploit , che ci ha fornito solo una piccolissima idea di quanto sia effettivamente complesso lo studio della storia del linguaggio, in quanto esso è influenzato da una serie infinita di variabili indotte e non, che più o meno consapevolmente ci inducono non solo a parlare ma anche a pensare in un certo modo piuttosto che in un altro, possiamo concludere dicendo che:

Le Parole sono tutto e sono niente, a volte è così facile pronunciarle e a volte non bastano a descrivere ciò che sentiamo. Ma sono ciò che rende possibile il rapporto fondamentale IO-TU da cui deriva non solo la creazione diretta della coscienza singola e personale di ogni individuo ma probabilmente, questa dicotomia è alla base dei processi filogenetici micro e macro: individuali , sociali, biologici.

Il fine ultimo di Foucault è l'analisi del linguaggio come elemento di libertà e nello stesso tempo di assoggettamento. Lungi dal voler sprofondare in un circolo vizioso che condurrebbe al solipsismo afasico, l'idea fondamentale è il ritorno alle cose stesse, alle parole stesse, al discorso stesso come elemento di crescita personale attraverso gli altri: l'unica cosa che ci rende umani nel nostro essere intimamente sociali.

CICORIA ANGELICA