modalità d'esame

per tutti gli studenti che dovranno sostenere l'esame di
Filosofia del Linguaggio mod.B a.a. 2009/2010


si rende noto che

-Il numero di battute dei propri elaborati dovrà essere compreso tra 14000 e 16000

-Bisognerà postare i propri lavori 14 giorni prima dell'appello scelto per sostenere l'esame

l'indirizzo e-mail a cui chiedere l'autorizzazione per postare è:
foucaultbarthes0910@gmail.com

per non avere problemi con le autorizzazioni si invita gli studenti ad utilizzare un indirizzo gmail per inoltrare le proprie richieste
Gli studenti che hanno usato il proprio account @mondoailati.unical.it per postare su altri blog relativi agli esami di Informatica, sono pregati di creare COMUNQUE un nuovo account

Programma d'esame

cicli: 07 e precedenti
A partire dalla sessione di giugno 2010 il programma d'esame consiste nello studio di:
-M.P. Pozzato, Semiotica del testo, Carocci
-Barthes, Variazioni sulla scrittura-Il piacere del testo, Einaudi
-Foucault, Ordine del discorso
e nella stesura di un elaborato da postare sul blog

martedì 18 maggio 2010

Michel Foucault

La funzione-autore in Michel Foucault


Francesca Aversa
FSCC 109258


Nel 1969, davanti alla Societè Française de Philosophie, Michel Foucault tratta nella sua conferenza intitolata Che cos’è un autore? un tema a lui molto caro che è quello della sparizione dell’autore nella letteratura contemporanea. Per farlo prende in prestito la famosa citazione “Cosa importa chi parla?” dal suo amico contemporaneo Beckett che diventa il leitmotiv dell’intera conferenza e che viene utilizzata come paradigma dell’avvento di una nuova metodologia di analisi in cui al posto dell’autore come individuo si instaura la funzione che nella letteratura di Foucault è conosciuta come funzione-autore. A causa delle tematiche, trattate le parole di Foucault vennero subito assimilate al pensiero di Roland Barthes che, giusto un anno prima, era giunto alle medesime conclusioni nell’opera intitolata La mort de l’auteur.
La conferenza prende le mosse da una forte tendenza critica tipica della letteratura contemporanea e in forte rottura rispetto a quella dell’Ottocento. Nell’Ottocento, infatti, si studiava un’opera letteraria perché la si considerava utile per approfondire ed analizzare l’individualità dell’autore e per scoprirne il volto nascosto. Al contrario, nella letteratura contemporanea, si da sempre più spazio all’idea che un’opera non coincida con l’individualità concreta e psicologica dell’autore anzi si crede che l’opera porti, in un certo senso, alla morte dell’autore e che essa presupponga il sacrificio dei caratteri particolari del soggetto a vantaggio di quelli neutrali ed anonimi del linguaggio.
L’idea di Foucault ruota intorno al concetto fondamentale di una funzione-autore che si sostituisce all’autore come individuo e fa emergere le condizioni formali di pratiche discorsive specifiche ed è per questo che diviene necessario studiare il ruolo del linguaggio e del discorso nella filosofia foucaultiana. Nonostante tutto, però, bisogna rendersi conto che tralasciare la figura dell’autore non è cosa facile, poiché sentiamo con tale personaggio un forte legame e difficilmente riusciamo a metterne in dubbio l’evidenza: esso rappresenta il punto forte dell’individualizzazione nella storia delle idee e in quella delle scienze.

A partire dal 1966, Foucault si dedicò, assieme a Deleuze, alle edizioni francesi delle opere di Nietzsche e fu proprio a partire da questa esperienza che si rinforza in lui l’interrogativo su come trattare il rapporto opera-autore. L’attribuzione di un autore, poi, non costituisce una funzione omogenea e per dimostrarlo Foucault fa quattro esempi che minano la spontaneità nell’associare un’opera all’espressione di un parlante o di uno scrivente che noi chiamiamo autore.
Il primo di questi esempi vuole minare il carattere storico di questa categoria. Essa, infatti, emerge solo quando diventa necessario un referente giuridico a cui possa appellarsi la legge nel caso di violazione di norme.
Una seconda caratteristica è la maniera diversa in cui si esercita la funzione-autore in base alle differenti discipline. Prima del diciottesimo secolo il nome dell’autore era fondamentale nei testi scientifici poiché garante del valore di verità, mentre i testi letterari circolavano perlopiù in maniera anonima. Più tardi, ci spiega Foucault, questa situazione viene ribaltata tant’è che l’importanza di un’opera letteraria è strettamente connessa alla fama del suo autore, mentre una scoperta scientifica viene considerata valida ed innovativa a prescindere da chi l’ha portata a termine.
Il terzo esempio fatto da Foucault riguarda l’attribuzione di un insieme di opere (un corpus appunto) alla medesima persona. La critica moderna applica come metodo quello dell’esegesi cristiana che presenta, però, diversi limiti: non tiene conto degli pseudonimi, degli abbozzi, delle lettere e delle infinite tracce verbali che ogni autore lascia dietro se stesso.
Il quarto ed ultimo esempio si basa sull’ambiguità degli elementi grammaticali presenti nel testo che non rimandano ad una sola persona, ma testimoniamo una pluralità di individui parlanti e scriventi.
La categoria dell’autore non rappresenta una solida base di argomentazione e diventa difficile, di conseguenza, porsi altri quesiti come l’evoluzione di una mentalità o l’influenza di un pensiero all’interno di un’opera. L’opera, dice Foucault è «l’effetto superficiale di unità più consistenti» e richiede uno studio approfondito delle pratiche discorsive entro cui essa ha validità.
Lo strutturalismo, a cui Foucault non è certo estraneo, si basa sull’idea di intransitività della letteratura che è un principio che postula l’assenza di un senso basato sull’intenzionalità dell’autore, per dare spazio al proliferare di un linguaggio infinito rinnovato eternamente nella letteratura. Foucault, infatti, dà molta importanza alla forma e tutto ciò accade in seguito al primato ottenuto dal significante rispetto al significato dopo la diffusione delle idee della linguistica saussuriana e dell’influenza del formalismo russo.

Il formalismo russo inaugura il rifiuto del testo letterario fondato su un’analisi psicologica del’autore e baluardo di questa concezione è l’opera di Šklovskji L’arte come artificio comparso nel 1919. La corrente formalista russa esercita una grandissima influenza sullo strutturalismo francese basti pensare a due figure quali Roman Jakobson e Tzvetan Todorov che hanno costituito un vero e proprio ponte tra le due culture.
Tornando alla conferenza, ricordiamo che in questa vennero trattati temi già precedentemente affrontati nell’opera La mort de l’auteur di Roland Barthes. In questo piccolo articolo vengono riproposte importanti riflessioni come il confluire della soggettività nella scrittura che per Barthes è un ambito autonomo del linguaggio. Secondo Barthes la nascita dell’autore è un fenomeno concomitante alla nascita dell’individuo nell’età moderna. Così l’età contemporanea è caratterizzata dalla messa in discussione della soggettività e del carattere antropologico delle scienze che hanno prodotto un discorso letterario di cui gli autori non sono gli artefici. L’autore, secondo Barthes, viene sostituito dallo scripteur ovvero dal copista. Nella letteratura di Barthes l’opposizione tra écrivain (sinonimo di auteur) e scripteur gioca un ruolo fondamentale.
Già in lavori precedenti ( Sur Racine) Barthes aveva messo in discussione la centralità dell’autore e l’idea di un legame causale tra lui e la sua opera. Infatti, l’autore e l’opera sono solo il punto di partenza di un’analisi il cui orizzonte è il linguaggio.

Alla fine del testo della sua conferenza Foucault approda all’idea che l’autore è una figura variabile nel corso del tempo e della storia, non definita ma sempre legata alle pratiche di una società in cui i testi vengono trattati. Per Barthes e per Foucault il soggetto e l’autore incontrano l’annullamento della loro capacità individualizzante. Non si può negare che in entrambi i pensatori il discorso sulla morte dell’autore si leghi ad un’opposizione alla borghesia. Un aspetto importante di questa concezione è la problematizzazione del rapporto tra linguaggio e soggetto: il soggetto dell’enunciato non è più la sua origine unica ed assoluta, ma è una funzione rivestibile da una molteplicità di individui. Il linguaggio della letteratura contemporanea è irriducibile al pensiero e non funge da pura traduzione delle rappresentazioni del pensiero. Esso appare in tutto il suo essere frammentario e anonimo. È un mormorio senza autore in cui esso mostra il suo essere più proprio e ritrova lo spessore che lo pone come oggetto di scienza.
Il linguaggio è indipendente dal soggetto parlante e dagli oggetti designati. La sua materialità assieme alla limitatezza della parola, aprono al linguaggio letterario un infinito spazio di nuovi e possibili significati in cui ciò che si esprime non è la parola dell’autore, né dell’uomo, né quella di Dio, ma il linguaggio stesso.
Nel diciannovesimo secolo, ci dice Foucault, la situazione storica del periodo ha fatto nascere la filologia e la letteratura che, secondo lui, sono due facce della stessa medaglia. Foucault, nonostante sia molto vicino alle idee di Barthes, col passare del tempo comincia a diffidare dell’idea dell’autonomia della letteratura rispetto agli altri discorsi teorici e del primato del significante sul significato. Secondo Foucault, la letteratura, in quanto discorso sul linguaggio puro, manifesta un certo carattere paradossale, per cui essa è allo stesso tempo incompatibile con il discorso sull’uomo, poiché il linguaggio è sempre anteriore al soggetto, e tuttavia costantemente ricondotta al campo del trascendentale e all’emergere dell’uomo come oggetto di studio, dal momento che essa è uno dei prodotti di quella che Foucault chiama analitica della finitudine ovvero di un pensiero che tenta di definire le condizioni di possibilità della conoscenza a partire dalla contestazione del limite finito della natura umana. La linguistica strutturale è una contro-scienza perché se da un lato conduce alla dissoluzione dell’uomo, dall’altro manifesta sempre i tratti della riflessione trascendentale perché si fonda sull’opposizione significato/sistema.
Nonostante il riconoscimento di questa natura paradossale del linguaggio, che si riflette nella letteratura e nella linguistica, non vuol dire che la posizione di Foucault porti ad un superamento di esse. Infatti da un lato si può presupporre un atteggiamento di sospensione tra creare una nuova forma di pensiero oppure chiudersi in un modo di sapere costituito nel secolo precedente. L’idea che la letteratura non fa altro che parlare di se stessa e del linguaggio e che è necessaria per lo studio di quest’ultimo non è più sufficiente e ciò è dimostrato nella teoria di Foucault dal fatto che egli utilizzi maggiormente il termine discorso rispetto linguaggio. Infatti, non studia il linguaggio, ma il discorso in quanto insieme delle rappresentazione epistemiche in un dato momento storico.

In un’intervista del 1970, Foucault si rifà al carattere autonomo della scrittura che ritroviamo negli scritti di Barthes, soffermandosi sugli aspetti trasgressivi di questa. Questo tema viene anche accennato nell’opera L’ordine del discorso, dove Foucault paragona la scrittura ad una sorta di assoggettamento. Oltre ad insistere sul fatto che l’autonomia della letteratura sia una caratteristica storica, spiega la necessità di integrare la letteratura con un’azione di tipo politico ed è in questo momento che si cerca di capire l’oscuro passaggio in Foucault dall’interesse della letteratura allo studio delle forme di potere che è un discorso non senza conseguenze per quanto concerne la figura dell’autore. la letteratura contemporanea è un luogo neutro che scagiona colui che lo scrive, alleggerendolo della responsabilità della sua opera. Identificando nello scrittore un luogo passivo in cui si incontra un linguaggio superiore, ha cancellato l’atto linguistico che lega l’autore alla sua opera e che sta all’origine della figura dell’autore come referente giuridico delle parole pronunciate o scritte. L’insistere da parte di Foucault sulla problematicità di certe caratterizzazioni tradizionali della figura dell’autore , ritenute, oggi traballanti, non equivale a decretarne la sua morte assoluta. Alla luce della critica che Foucault fa nell’intervista del 1970 bisogna chiedersi se egli, invece di sigillare la morte dell’autore, non voglia al contrario, optare per una direzione diversa. Quando egli parla di funzione-autore si pone seriamente il problema di occuparsi dei fitti intrecci di relazioni che ne prendono il posto, in opposizione all’abbandono al relativismo di un linguaggio anonimo e scevro di ogni interesse politico ed etico.
Per capire come la cosiddetta analisi archeologica della funzione-autore assume un posto così determinante a discapito dell’interesse per la critica letteraria è infatti indispensabile citare Nietzsche come riferimento costante delle riflessioni foucaultiane.
Nietzsche, infatti, nel momento in cui nella Genealogia della Morale vede nel linguaggio e in chi lo detiene il fondamento del potere che genera discorsi filosofici e morali, pone per primo la domanda sul «chi parla» come centrale per la filosofia. A tale interrogativo la letteratura ha combattuto col motto già citato «Cosa importa chi parla?». Foucault parla qui di una distanza mai colmata entro cui si situano tutti gli studi sul linguaggio che hanno portato alla dissoluzione dell’uomo/soggetto/autore. Eppure non è così semplice sbarazzarci di lui. Il vuoto lasciato dall’autore deve fare scattare una ricerca ancora più approfondita che risponda dell’impegno filosofico che la domanda di Nietzsche ha posto.
Abbandonare la letteratura significa inaugurare una teoria delle pratiche discorsive che non poggi esclusivamente sulle forme del linguaggio. Se il linguaggio continua ad incarnare uno dei luoghi privilegiati in cui il sapere si manifesta, la questione centrale non consiste nello studiare le sue forme: esso non è altro che una superficie di una trama molto complicata che si apre dietro di esso. Il problema del linguaggio in Foucault non è mai separabile da altri due temi fondamentali, follia e trasgressione che si incrociano continuamente delineando nel loro punto d’incontro il vuoto lasciato dal soggetto. Per questo motivo si può capire come il linguaggio in Foucault non assuma lo stesso statuto autoreferenziale che ritroviamo nello strutturalismo di Barthes. Esso non pone le condizioni formali allo studio delle altre discipline con le quali,al contrario, si intreccia continuamente. Il problema dell’autore è un caso particolare della ricerca metodologica cui Foucault offre un dispiegamento teorico. Come facciamo ad affrontare certe unità epistemologiche a noi familiari come quelle di autore, libro, teoria all’interno di un’analisi che procede proprio smembrandole? E Foucault risponde facendo entrare in gioco oltre a delle pratiche discorsive, delle pratiche non discorsive. Per comprendere la funzione-autore è necessario concentrarsi sul regime di appropriazione del discorso, ovvero sul come si definisca il diritto di qualcuno a parlare e ad essere competente nella comprensione di un certo tipo di discorso, chiamando in causa degli elementi esterni quali il desiderio , gli interessi e i rapporti di potere. Lo statuto di autore comporta, innanzitutto, un sistema di differenziazione e di rapporti a diversi livelli. L’atto linguistico da cui si ottiene il nome dell’autore implica una pratica diversa dal nominare un semplice elemento del discorso. Quindi se l’autore come individualità scompare, resta la funzione classificatoria che permette di fare luce sui rapporti di omogeneità, di filiazione, d’autentificazione, di spiegazione reciproca o concomitante tra differenti testi che si ritengono attribuibili alla stessa persona: essa permetterebbe di delineare la figura dell’autore dall’esterno, come sagoma vuota che si crea dall’intersezione delle diverse pratiche che compongono la funzione-autore.

La funzione-autore indica inoltre che un certo tipo di discorso assume una valenza ed un’importanza specifica, segnando una rottura con il discorso da cui ha preso le mosse, essa dà vita a un certo gruppo di discorsi e al suo modo di essere ed è quindi caratteristica di un certo modo di esistenza, di circolazione e di funzionamento all’interno di una società. Si potrebbero associare questi procedimenti alle categorie elaborate da Foucault in cui si propone un’analisi degli enunciati in base ad un principio di rarefazione,il quale si propone di filtrare tutto ciò che rimanda ad un’intenzione soggiacente per fare emergere la singolarità dell’enunciato in quanto evento, così come esso si presenta nel suo aspetto più esplicito e superficiale. La funzione-autore, sprovvista delle caratteristiche di interiorità e di intenzionalità, si collocherebbe precisamente entro questo tipo di pratiche. Foucault insiste sul nome come funzione primordiale poiché, secondo lui, è attraverso il nome che in un’opera si segna una modalità irriducibile al mormorio anonimo di tutti gli altri linguaggi. Propone di sostituire all’autore il ruolo di fondatore di discorsività. Già in una conferenza del 1968, Foucault dice che ciò che caratterizza la cultura contemporanea non è voler sapere tutto, ma voler dire tutto,moltiplicare all’infinito gli oggetti del discorso. Il discorso ha un legame molto stretto sia con il desiderio che col potere, non tanto poiché nasconde il desiderio o perché è strumento ideologico del sistema dominante: il discorso è, in primo luogo, oggetto del desiderio, ciò di cui il potere cerca di impossessarsi e l’unico modo per impadronirsi del discorso è isolarlo, delimitarlo, definire l’opposizione per cui esso può essere vero o falso, imporre dei nomi, così come quelli degli autori, la cui autorità ostacoli questo proliferare. L’autore non scompare in Foucault: continua a scrivere nonostante la sua individualità sia stata travolta dal partage tra il desiderio, che moltiplica i discorsi e il potere, che li limita
C’è comunque una doppia tendenza che emerge nell’accostare il tema del’autore allo studio dei rapporti di potere, tendenze che emergerà più tardi in maniera esplicita: non c’è separazione fra il proliferare di un discorso, il rapporto che esso detiene con il desiderio di moltiplicarsi all’infinito, e il discorso sul potere che per impadronirsene lo limita. Questa volontà di impadronirsi del discorso, questa volontà di dire, viene letta da Foucault come la chiave fondamentale che ha permesso che, nei diversi contesti storici, si producessero certi tipi di opposizioni tra il discorso vero e quello falso.
La funzione-autore deve essere considerata all’interno del metodo critico che egli applica allo studio dei sistemi di verità che delimitano le pratiche discorsive.

Per concludere questa nostra riflessione, si può citare un pensiero di Foucault che riassume efficacemente le posizioni del filosofo intorno alla figura dell’autore: «Non domandatemi chi sono e non chiedetemi di restare lo stesso: è una morale da stato civile; regna sui nostri documenti. Ci lasci almeno liberi quando si tratti di scrivere»….

I discorsi sorvegliati. Il controllo della "polizia discorsiva".

I discorsi sorvegliati.
Il controllo della “polizia” discorsiva.

di Annabella Muraca


I discorsi non proliferano liberamente ma sono sottoposti, attraverso procedure e meccanismi specifici, a controlli e limitazioni.
Questo tema è trattato da Foucault nel discorso inaugurale del suo corso al College de France negli anni ’70, in cui tratta, anche, della potenza degli enunciati imprevisti e dei metodi che, nel corso della storia, sono stati utilizzati per controllare i discorsi e diminuirne il potere sovversivo.
Alla morte del grande filosofo J.Hyppolite, gli esponenti del Collegio dei Docenti, designano Foucault come suo successore.
La tradizione prevede che il nuovo eletto declami un discorso “classico”, ma Foucault fa una scelta rivoluzionaria e decide di discutere delle caratteristiche e delle norme del discorso dandone, anche, svariati esempi.
Foucault, stabilisce, così, di violare le regole e, infatti, analizzando il testo, si può notare un’assenza d’inizio nel suo discorso, poiché, secondo la sua convinzione, nessuno è primo autore e organizzatore di un discorso ma esiste già una tradizione in cui chi parla deve inserirsi.
Il suo discorso prende, infatti, questa forma:

“Nel discorso che devo oggi tenere e in quelli che mi occorrerà tenere qui, forse per anni, avrei voluto poter insinuarmi surrettiziamente.
Più che prendere la parola, avrei voluto esserne avvolto, e portato ben oltre ogni inizio possibile.
Mi sarebbe piaciuto accorgermi che al momento di parlare una voce senza nome mi precedeva da tempo […]
Inizi, non ce ne saranno dunque: e invece d’essere colui donde viene il discorso, secondo il capriccio del suo svolgimento, sarei piuttosto una sottile lacuna, il punto della sua scomparsa possibile. […]
C’ è in molti, penso, un simile desiderio di ritrovarsi, d’acchito, dall’altra parte del discorso, senza aver dovuto considerare dall’esterno ciò che esso poteva avere di singolare, di temibile, di malefico forse.”


L’autore, solo al termine del suo discorso inaugurale, riesce a comprendere che la voce da cui desiderava essere anticipato e avvolto era quella di J.Hippolite e , infatti, scrive: “Capisco meglio perché avevo tanta difficoltà a cominciare. Ora so bene qual è la voce che avrei voluto mi precedesse, che mi portasse […]
So cosa c’era di tanto temibile nel prendere la parola, poiché la prendevo in questo luogo ove l’ho ascoltato, e ove non c’è più, lui, per intendermi.” (cfr. p.40)
Le tematiche sopra accennate sono state, in seguito, inserite all’interno di un testo abbastanza breve pubblicato, inizialmente, in Francia nel 1971 e, in seguito, nel 1974 con il titolo “L’ordine del discorso”, in Italia dalla casa editrice Einaudi.



La “polizia discorsiva” di cui parla Foucault



Il testo di Foucault, ancora oggi, è utile poiché ci permette di captare come la “polizia” discorsiva agisce costantemente nei fatti della vita quotidiana.
L’autore, in un passo del testo, inizia a trattare così la tematica della “polizia discorsiva”:


“Ma che c'è dunque di tanto pericoloso nel fatto che la gente parla e che i suoi discorsi proliferano
indefinitamente? Dov'è dunque il pericolo? […]
Si sa bene che non si ha il diritto di dir tutto, che non si può parlare di tutto in qualsiasi circostanza, che chiunque, insomma, non può parlare di qualunque cosa.
Tabù dell’oggetto, rituale della circostanza, diritto privilegiato o esclusivo del soggetto che parla […]
Il discorso non è semplicemente ciò che manifesta il desiderio, il discorso non è semplicemente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò per cui, attraverso cui, si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi” (cfr. p.5).


Il libro di Foucault è, quindi, considerato come una sorta di software utile per analizzare e decifrare i meccanismi di controllo, selezione e distribuzione di quelle procedure che ne depotenziano la materialità.
Per Foucault, però, questo controllo non ha un nucleo ma si muove all’interno di una fitta rete di relazioni che permettono ai discorsi di proliferare, infatti, egli stesso all’interno di un passo sostiene: “suppongo che in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurare i poteri e i pericoli, di padroneggiare l'evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità”. (cfr. p.4-5).
E’ da questo momento in poi che l’autore inizia ad individuare quelle costrizioni proprie del discorso: quelle che limitano i poteri, quelle che realizzano una selezione tra i soggetti parlanti ecc.
Queste limitazioni agiscono, però, in contesti diversi come le università, le famiglie, i luoghi di lavoro e di ritrovo e su di essi le istituzioni vigilano in maniera pedante e insistente per evitare che un certo ordine del discorso venga violato.
Infatti le regole del discorso, che possono essere evidenti o meno, non servono solo per comunicare ma anche per limitare, proprio come avviene in una partita di scacchi, dove una mossa realizzata ne esclude immediatamente un’altra.
Questa sorta di “polizia” discorsiva sarebbe alimentata da un senso d’inquietudine rispetto al discorso e su cui, da tempo, si vigila, e, infatti, Foucault sostiene: “E l'istituzione dice: Non devi aver timore di cominciare; siamo tutti qui per mostrarti che il discorso è nell'ordine delle leggi; che da tempo si vigila sulla sua apparizione, che un posto gli è stato fatto, che lo onora ma lo disarma; e che, se gli capita d'avere un qualche potere, lo detiene in grazia nostra, e nostra soltanto”. (cfr, p.4).
Se nella storia, quindi, si procede in maniera costante all’imbrigliamento dei discorsi è perché, proprio nella proliferazione assidua di quest’ultimi, si nasconde un qual cosa di misterioso e minaccioso.
E’ per tutti questi motivi che, nella nostra quotidianità, non si può discutere di tutto in qualsiasi circostanza, e allo stesso tempo non tutti hanno la grande capacità di dire le cose con credibilità ed efficacia, vi sono, infatti, dei rituali di circostanza da rispettare, e vi è un diritto privilegiato o esclusivo di alcuni soggetti a parlare rispetto ad altri.
Per Foucault, quindi, i discorsi sono caratterizzati da procedure di controllo e di esclusione che accerchiano il discorso agendo al suo esterno o al suo interno.
Una fitta rete di limitazioni, infatti, contribuisce a controllare la produzione discorsiva, e permette, anche, di disegnare i caratteri di verità e di falsità propri del discorso.
Possiamo dire, quindi, che questa attenzione nei confronti dei discorsi deriva dal fatto che la comprensione della realtà non può essere ridotta ai meri fattori economici, bensì la realtà e l’organizzazione della nostra società è sostenuta dagli atti linguistici e dai discorsi stessi.
Ne “L’ordine del discorso”, Foucault, individua tre procedure di controllo e di delimitazione del discorso che agiscono a livelli diversi.
Alcune “circondano” il dialogo dall’esterno, altre dall’interno e, altre ancora, riguardano, invece, le condizioni di messa in opera del discorso stesso.
Ciò che, in questa sede, ho deciso di trattare è l’azione interna della “polizia discorsiva” e cioè: commento, autore e discipline.
Secondo Foucault, in questo caso: “sono i discorsi stessi che esercitano il loro proprio controllo; procedure che fungono piuttosto da principi di classificazione, d’ordinamento, di distribuzione, come se si trattasse questa volta di padroneggiare un’altra dimensione del discorso: quella dell’evento (événement) e del caso.” (cfr. p.11).
Vigono, per Foucault, all’interno della società, dei “dislivelli” tra quei discorsi che passano e si dileguano e quelli che, invece, restano proprio come i testi primari, oggetto di commenti che contribuiscono a dare una “sistematina” al testo.
Possiamo, quindi, individuare: quei discorsi che “si dicono” con il passare dei giorni e si sviluppano con le relazioni sociali e che transitano nel momento stesso in cui vengono pronunciati e, quei discorsi che, invece, sono alla base di un numero elevato di atti nuovi che permangono nel tempo, che vengono ripresi e trasformati, quei discorsi, dunque, che al di là della loro formulazione, sono detti e sono ancora da dire.
Il commento, quindi, secondo Foucault, da un lato permette di riaprire il dibattito su un certo testo e di costruire dei discorsi nuovi, ma dall’altra parte: “ il commento ha come unico ruolo, quali che siano le tecniche messe in opera, di dire infine ciò che era articolato laggiù.
Deve, secondo un paradosso che sposta sempre ma cui non fugge mai, dire per la prima volta quel che tuttavia era già stato detto e ripetere instancabilmente ciò che, nondimeno, non era mai stato detto. […].
Il commento scongiura il caso del discorso assegnandogli la sua parte: esso consente certo di dire qual cosa di diverso dal testo stesso, ma a condizione che sia questo testo stesso ad essere detto e in qualche modo compiuto. […]
Il nuovo non è in ciò che è detto, ma nell’evento del suo ritorno.” (cfr, p.13).
L’atro principio di rarefazione del discorso che, a primo acchito, sembra complementare al commento è l’autore: “ considerato, naturalmente, non come l’individuo parlante che ha pronunciato o scritto un testo, ma l’autore come principio di raggruppamento dei discorsi, come unità ed origine dei loro significati, come fulcro della loro coerenza.
Questo principio non opera ovunque, né in modo costante […]. (cfr. p.14).
Analizzando questo passo si può, quindi, dedurre che anche la funzione dell’autore ha conosciuto destini diversi in base ai generi e ai mutamenti della storia.
Vi sono, infatti, campi in cui l’attribuzione del testo all’autore è un regola e questo avviene nel discorso letterario, in quello filosofico e in quello scientifico, anche se è abbastanza palese che questa figura non svolge sempre la stessa funzione.
Nei testi scientifici, infatti, specificare il nome dell’autore è sempre stato necessario, poiché garantiva un indice di verità, nell’ordine del discorso letterario, invece, la funzione dell’autore ha iniziato a rafforzarsi solo dopo il Medioevo.
A partire dal XVII secolo, infatti, si smette di far circolare poemi, drammi o commedie anonime e si inizia a pretendere da essi che indichino la loro provenienza, poiché solo l’autore può garantire una certa unità del testo e, infatti, relativamente a ciò, Foucault scrive: “L’autore è ciò che da all’inquietante linguaggio della finzione le unità, i nodi di coerenza, l’inserzione nel reale” (cfr. p.14)
Quindi, per comprendere meglio queste affermazioni, possiamo sostenere che l’autore si ritaglia un percorso, così come può fare un giornalista o un regista che, dovendo stilare un articolo o girare una scena, inserisce alcune delle diverse possibilità nel reale.
Sostanziale, al fine di una migliore comprensione, è la differenza tra commento e autore di cui parla Foucault: “Il commento limitava il caso del discorso col gioco di un’identità che ha forma dalla ripetizione e dallo stesso. Il principio dell’autore limita questo medesimo caso col gioco d’una identità che ha la forma dell’individualità e dell’io” (cfr. p.15).
Sempre nello stesso gruppo di limitazioni interne al discorso, accanto al commento e all’autore, troviamo le discipline o l’organizzazione dei saperi disciplinari, definite come insieme di campi e metodi che vengono esposti con regole e contenuti ben determinati e i cui risultati, invece, funzionano come principio di controllo della produzione del discorso.
Anche in questo caso si tratta di “un principio relativo e mobile. Principio che consente di costruire, ma secondo un gioco angusto.” (cfr. p.15).
La disciplina, come terzo principio, si oppone sia all’autore che al commento e, soprattutto, “viene definita da un campo di oggetti, da un insieme di metodi, da un corpus di proposizioni considerate come vere […] tutto questo costituisce una sorta di sistema anonimo a disposizione di chi voglia o possa servirsene[…]. in una disciplina a differenza del commento, ciò che si suppone in partenza non è un senso che deve essere riscoperto, né un'identità che deve essere ripetuta; bensì ciò che è richiesto per la costruzione di nuovi enunciati.
Perché ci sia disciplina, occorre dunque che vi sia possibilità di formulare, e di formulare indefinitamente, nuove proposizioni[…]” (cfr. p.15-16).
Anche la disciplina stessa, quindi, implica una cesura e non dice tutto ciò che è vero a proposito di qualcosa, infatti una proposizione, affinché possa appartenere a questa o a quella disciplina, deve sottoporsi a dei principi rigidi e complessi.
La disciplina, inoltre, deve riferirsi a degli oggetti ben determinati, difatti, nell’esempio che Foucault fa nel suo discorso, si sostiene che nel XIX secolo una proposizione non poteva più essere considerata medica se, utilizzata nel discorso popolare, si impregnava di un carattere qualitativo e metaforico.
Descrizioni di una malattia che si avvalgono di espressioni come “liquidi riscaldati” o “solidi disseccati” non sono più accettabili e vanno sostituite con altre metafore come, ad esempio, irritazione e infiammazione.
Certo non è solo una questione di linguaggio scientifico e di pratiche, infatti, per appartenere ad una disciplina, una proposizione deve iscriversi in un certo tipo di orizzonte teorico, “Entro i suoi limiti ogni disciplina riconosce proposizioni vere o false, ma essa respinge ai suoi margini tutta una teratologia del sapere”. (cfr. p.17).
La disciplina,dunque, è un principio di controllo della produzione del discorso; essa gli fissa i limiti col gioco d'una identità che ha la forma di una perenne riattualizzazione delle regole.
Concludo questo mio lavoro sostenendo che autori, commenti e disciplina, hanno un ruolo positivo e moltiplicatore, ma per individuarlo bisogna prendere in considerazione la loro funzione restrittiva e costruttiva.

LA MATERIALITA' DEL DISCORSO

di Fabiola Cosenza

Nel seguente elaborato si mettono a confronto le posizioni di quattro diversi filosofi, scelte dalla scrivente, al fine di problematizzare ed esemplificare la tesi che Michel Foucault ha espresso nel suo discorso inaugurale al Collège de France, secondo la quale, dal momento che ci sono delle procedure di controllo sui testi, è evidente che esista un qualche potere della parola che fa della stessa un “oggetto”.
Prima di presentare le diverse tesi, cercherò di mettere in luce come la capacità di produrre linguaggio verbale sia in sé un’azione che “produce” in una qualche forma un oggetto al pari della performance di un ballerino.
La parola detta, oltre a quella scritta, ha una sua materialità e dunque è un qualcosa che crea un fatto. Dal momento che le parole, i testi, i discorsi di cui Foucault parla, non sono altro che degli atti comunicativi, prenderò in considerazione la teoria degli atti linguistici di John Langshaw Austin e l’idea dell’azione umana collegata al discorso di Hannah Arendt, a conferma della tesi del filosofo francese con annessi altri spunti di riflessione. Strettamente legata all’idea del potere delle parole di Foucault è l’idea di linguaggio per Roland Barthes, secondo l’autore infatti, i sistemi ideologici che caratterizzano la sfera sociale non sono altro che materializzazioni del linguaggio medesimo attraverso le parole che creano situazioni oggettivamente tangibili.

Un sentimento di inquietudine accompagna Foucault, facilmente intuibile sin dalle prime battute tenute per la lezione inaugurale del 2 dicembre 1970, al Collège de France:

“inquietudine nei confronti di ciò che il discorso è nella sua materiale realtà di cosa pronunciata o scritta, inquietudine nei confronti di questa esistenza transitoria, destinata magari cancellarsi, ma secondo una durata che non ci appartiene” (Foucault, 1971, p. 4).

Foucault si trova a dover pronunciare il suo discorso su quello che egli stesso definisce “teatro”. Si può subito fare il parallelismo tra chi pronuncia un discorso o, in termini più ampi, tra chi utilizza una lingua e pertanto la utilizza sempre all’interno di una comunità, dinnanzi ad un pubblico e l’artista, (ad esempio un ballerino), che si muove a passi di danza, tradizionalmente su di un palcoscenico, ma sempre dinnanzi ad un uditorio.
In entrambi i casi di attività, quella discorsiva e quella della danza, possiamo parlare di attività che non lasciano dietro di sé un oggetto materiale e finito, ma sono attività che hanno il proprio fine in se stesse. Il “fine” di tali attività coincide con il loro stesso svolgimento e non si depositano in un’opera particolare.
Strettamente legata alla mancanza di un oggetto materiale come prodotto dell’attività sia di un discorso che di una danza, deriva il carattere della performance, ossia, entrambi le azioni in oggetto, esistono solo e soltanto se svolte al cospetto di un pubblico. La mancanza della produzione di un oggetto materiale, fisico finale presuppone che affinché esista l’azione vi sia un pubblico, o una comunità, dinnanzi al quale o all’interno della quale, chi compie l’azione ne possa essere testimone.
Ciò che caratterizza l’esecuzione di una danza da parte di un ballerino, e quindi per analogia, ciò che caratterizza l’esecuzione di un discorso per chi prende la parola, non è altro che:

- lo svolgere una attività che non lascia dietro di sé un’opera e in cui quindi svolgimento e fine coincidono;
- la necessità di svolgere l’attività a cospetto di un pubblico per testimoniare l’esistenza stessa dell’atto[1].

La tesi di Foucault è la seguente:

“...in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità”. (Foucault, 1971, p. 4)

L’autore parla di parole, eppure queste parole sono “oggetti” in un certo senso, non il frutto di un lavoro ma di un’azione. Riusciamo a pensare alle parole come “oggetti materiali” solo nel momento in cui sono scritte, ma ciò è vero anche per le parole dette. La parola detta è qualcosa che crea un fatto.

I testi, i discorsi presi in considerazione da Foucault sono “atti di comunicazione”. È la materialità delle parole, il loro potere all’interno della società che spinge Foucault a fare un’ analisi delle procedure di controllo sociale dei testi. Talune sono specifiche, riguardano la parola, il discorso, sono dovute al timore di ciò che vi è di tagliente nella parola, nella sua capacità di dare origini a situazioni ogni volta diverse, irripetibili, mai eguali.
Colui che produce un testo da seguito ad una serie di effetti e conseguenze molto concrete e materiali, può ad esempio intimidire, sedurre, dare luogo a situazioni che solo attraverso l’uso della parola possono esistere.

A sostegno della tesi secondo cui la parola detta crea una certa situazione e da luogo ad un evento, farò riferimento alla teoria degli “atti linguistici” di John L. Austin. Tale teoria fa di Austin uno dei più fini analisti del linguaggio ordinario. Austin intende gli atti linguistici come l’insieme del linguaggio, quindi tutto il linguaggio verbale umano può essere analizzato come un insieme di atti. Considerato il padre degli enunciati performativi, lo studioso vuole evidenziare attraverso di essi una verità generale di cui i performativi sono il caso più eclatante: tutti gli enunciati sono anche.

“[…]supponete che vi si pesti un piede e vi dica «Mi scuso». Oppure suppone che abbia in mano la bottiglia di champagne e dica «Battezzo questa nave Queen Elizabeth». […] In tutti questi casi sarebbe assurdo considerare ciò che ho detto un resoconto dell’esecuzione dell’azione che indubbiamente è stata fatta – l’azione di […] battezzare, scusarsi. Diremo piuttosto che, nel dire cosa faccio, compio effettivamente l’azione. Quando dico «Chiamo questa nave Queen Elizabeth» non descrivo la cerimonia battesimale, compio effettivamente il battesimo […]. Enunciati di queste specie sono quelli che diciamo performativi.”[2]

Gli enunciati performativi non descrivono l’azione ma la compiono. Sono azioni non solo che eseguiamo, che compiamo, che realizziamo con le parole, ma che non potremmo realizzare altrimenti se non con le parole. Sono azioni che compiamo parlando, si fa qualcosa perché si dicono certe parole. Anche nella teoria di Austin emerge l’aspetto sociale e contestuale dell’azione: gli enunciati performativi realizzano l’azione, e non la descrivono, per il solo fatto di esser detti, a patto però, che ci siano le circostanze appropriate. Per circostanze appropriate si deve intendere il fatto che chi le compie/dice, chi parla/agisce, abbia il ruolo sociale adeguato.
Laddove mancano certe circostanze sociali, laddove non si rispettano certe convenzioni sociali, laddove chi pronuncia il performativo non ha il ruolo per compiere quella determinata azione, l’azione stessa non riesce, siamo in presenza di un performativo infelice. Se ad esempio, una persona non consacrata al ministero del sacerdozio e non rivestendo il ruolo di funzionario del comune, pronuncia la formula “Battezzo questo bambino Antonio”, ecco che l’azione fallisce. Al contrario, se la formula viene pronunciata da un sacerdote o da un funzionario del comune, le parole cambiano una situazione di fatto, creano un evento nuovo che non sarebbe stato possibile creare se non attraverso quelle parole.
Austin utilizza gli enunciati performativi per introdurre una tesi generale sul linguaggio verbale umano, ossia: “il performativo è il punto di lancio per dimostrare che tutto il linguaggio verbale umano è prassi, è azione”.
La teoria generale degli atti linguistici comprende tre grandi gruppi:
- atti locutori, ossia l’azione di dire qualcosa;
- atti illocutori, ossia l’azione compiuta nel dire qualcosa;
- atti perlocutori, ossia l’azione compiuta col dire qualcosa.

Legata all’idea di prassi, e quindi di azione, è il pensiero di Hannah Arendt che sostiene l’inesistenza di una azione umana che non sia legata al discorso.
Nel suo testo “Vita Activa”, l’autrice propone di designare tre fondamentali tipi di attività umane:
- l’attività lavorativa, che corrisponde allo sviluppo biologico del corpo umano ed è quindi correlata alla condizione della vita biologica;
- l’operare, cioè l’attività che dà luogo ad un ambiente artificiale;
- l’azione, che è quell’attività che mette in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali.
Il prodotto dell’agire è una relazionalità, una rete di relazioni che non preesiste all’azione stessa ma che coincide con quest’ultima. È dunque solo con la parola, con il discorso, e quindi con la prassi, che noi ci inseriamo nel mondo.


“…Discorso e azione sono le modalità in cui gli esseri umani appaiono gli uni agli altri non come oggetti fisici, ma in quanto uomini. […]
L’azione senza discorso non sarebbe più azione perché non avrebbe più un attore, e l’attore, colui che compie gli atti, è possibile solo se nello stesso tempo sa pronunciare delle parole. L’azione che egli inizia è rivelata agli altri uomini dalla parola, e anche se il suo gesto può essere percepito nella sua nuda apparenza fisica senza accompagnamento verbale, acquista rilievo solo l’espressione verbale mediante la quale egli identifica se stesso come attore, annunciando ciò che fa, che ha fatto o intende fare.
Nessun’altra attività umana esige il discorso nella stessa misura dell’azione. In tutte le altre attività, il discorso gioca un ruolo subordinato, come mezzo di comunicazione o mero accompagnamento di qualcosa che si potrebbe anche compiere in silenzio. È vero che il discorso è estremamente utile come mezzo di comunicazione e informazione, ma come tale potrebbe essere sostituito da un linguaggio di segni che potrebbe provarsi ancora più utile e conveniente per esprimere certi significanti.”
[3]

Il potere del discorso, secondo la Arendt, sta nel suo potere di cominciare qualcosa di nuovo e questo è, seppur materialmente intangibile, un qualcosa che esiste come se fosse un oggetto materiale che avviene sotto gli occhi di un altro essere parlante, rivelando così, (quindi altro potere insito nel discorso) l’attore dell’azione stessa.
Si ritrova la nozione di attività esemplificata con la performance del danzatore sopra citata. Sebbene non si possa parlare di una reificazione del discorso, notiamo che esso modifica uno spazio che la Arendt chiama l’Infra, ovvero quella sfera pubblica che è data dall’intreccio delle relazioni umane. Ogni volta che si agisce la nostra azione si deposita su questo intreccio preesistente di relazioni umane e sarà essa stessa modificata ulteriormente dalle azioni degli altri.
Due rilevanti azioni compiute nella sfera pubblica, interamente linguistiche e nelle quali si può leggere in maniera più chiara la materialità dei discorsi umani sono il perdono e la promessa. Le comunità politiche si reggono su questi due tipi di azioni che non potrebbero essere svolte diversamente se non attraverso l’uso del linguaggio. Il perdono, un requisito dell’azione, rende reversibile ciò che è stato, si può paragonare in un certo qual modo all’antidoto dell’azione che ha come suo punto debole, e quindi veleno, proprio il fatto di non essere reversibile. Il perdono modifica una situazione di fatto già avvenuta. Attraverso la promessa si riesce a rendere meno incerto quel che sarà, si relaziona quindi ad un tempo futuro. Anche in questo caso si può pensare alla promessa come una sorta di antidoto contro un altro punto debole dell’azione che è l’imprevedibilità.

"I sistemi ideologici sono delle finzioni […], dei romanzi […].Ogni finzione è sorretta da una parola sociale, un socioletto, con cui si identifica: la finzione è quel grado di consistenza a cui arriva un linguaggio quando ha fatto eccezionalmente presa e trova una classe sacerdotale (preti, intellettuali, artisti) per parlarlo comunemente e diffonderlo".[4]

I sistemi ideologici esistono perché si concretizzano, arrivano ad assumere un certo grado di materialità attraverso il linguaggio. Ed è attraverso il linguaggio che si può attribuire un certo grado di importanza a determinate istituzioni, anzi, è l’essenza stessa del loro esistere.
Barthes attribuisce alle parole una tangibilità talmente forte e persistente che è proprio dalla lotta tra ideologie che altro non sono se non parole. La parola che riesce a prevale sull’altra evidenziando un potere maggiore rispetto alle parole concorrenti, è quella che domina nella vita sociale. La materialità del linguaggio per Barthes è da rintracciare nella vita d’insieme degli uomini ed è questa la dimensione di tangibilità che crea. Proprio perché non si tratta di entità intangibili, ma come già espresso da Foucault, ci troviamo davanti a qualcosa dotata di una sua oggettività osservabile all’interno della società per ciò che crea, è dotata di potere. Barthes scrive ancora, «il testo è il linguaggio senza il suo immaginario» di conseguenza il testo stesso non può che essere considerato un oggetto, di piacere o di godimento, che sottrae alla sfera più ampia del linguaggio in generale. Il linguaggio, così come il testo, produce sempre qualcosa. Se il linguaggio caratterizza la società e la determina, il testo ha un carattere asociale, produce piacere o godimento che è tale però solo per colui che lo legge ed è in questa caratteristica che si può ritrovare l’elemento materiale.
Se Foucault con il termine testo e discorso intende l’enunciato linguistico, il testo di Barthes si riferisce esclusivamente al testo scritto, ed è quindi considerabile in se stesso come materialità. La scrittura è infatti il mezzo attraverso cui il linguaggio può far godere il lettore. Sarebbe tuttavia un errore considerare un testo materiale solo per questa ragione, la sua materialità sta proprio nell’effetto di godimento e di piacere che questo crea nel lettore.

In conclusione, ciò che accomuna la riflessione di questi autori è il fatto di non considerare il linguaggio e le parole come elementi neutri: essi si muovono sempre all’interno di uno spazio, danno sempre origine a qualcosa che, seppur non sempre percepibile a livello sensoriale, determina e domina la vita sociale. E’ il potere delle parole che muove le folle facendo loro compiere azioni positive o negative e che determinano la stessa realtà sociale, per tale ragione bisogna


[1] Virno, Paolo, Grammatica della moltitudine, DeriveApprodi, 2002.

[2] Austin, John L., Saggi Filosofici, tr. italiana di Guerini e associati, Milano, 1990.
[3] Arendt, Hannah, The Human Condition, 1958, tr. Sergio Finzi, Vita activa, introduzione di Alessandro Dal Lago, Bompiani, Milano, 1964 pp. 128-130.
[4] Barthes, Roland, Le plasir du texte, 1973.