modalità d'esame

per tutti gli studenti che dovranno sostenere l'esame di
Filosofia del Linguaggio mod.B a.a. 2009/2010


si rende noto che

-Il numero di battute dei propri elaborati dovrà essere compreso tra 14000 e 16000

-Bisognerà postare i propri lavori 14 giorni prima dell'appello scelto per sostenere l'esame

l'indirizzo e-mail a cui chiedere l'autorizzazione per postare è:
foucaultbarthes0910@gmail.com

per non avere problemi con le autorizzazioni si invita gli studenti ad utilizzare un indirizzo gmail per inoltrare le proprie richieste
Gli studenti che hanno usato il proprio account @mondoailati.unical.it per postare su altri blog relativi agli esami di Informatica, sono pregati di creare COMUNQUE un nuovo account

Programma d'esame

cicli: 07 e precedenti
A partire dalla sessione di giugno 2010 il programma d'esame consiste nello studio di:
-M.P. Pozzato, Semiotica del testo, Carocci
-Barthes, Variazioni sulla scrittura-Il piacere del testo, Einaudi
-Foucault, Ordine del discorso
e nella stesura di un elaborato da postare sul blog

sabato 22 maggio 2010

TUTTO SUL PIACERE.

L'auspicio maggiore di Barthes
non è forse una storia della scrittura
quanto la necessità di scrivere
"la triste,stupida,tragica storia di tutti
i piaceri a cui tutte le società
obiettano o rinunciano": una storia
atopica,asociale e in una certa
misura impossibile.


TUTTO SUL PIACERE
Di Angela Berardi



COME NASCE IL TESTO: “IL PIACERE DEL TESTO”
All'inizio degli anni settanta il clima culturale è quanto mai favorevole alla proliferazione dei discorsi "desideranti". Così “ Il piacere del testo” è un breve libro scritto tra il 1971 e il 1973 da Roland Barthes . E 'stato scritto in francese e poi tradotto in inglese. Barthes espone alcune delle sue idee sulla teoria della letteratura, questo è prima di tutto un pamphlet contro "la mitologia che tende a farci credere che il piacere (e particolarmente il piacere del testo) sia un'idea di destra". Alla sinistra che si riconosce asceticamente nel metodo, nell'impegno, nella conoscenza, nella solidarietà, Barthes propone qualcosa che è insieme rivoluzionario e asociale: il godimento. Negli ultimi lavori egli sviluppò una nuova teoria erotica e fortemente personale di lettura e di scrittura. Il “piacere del testo” infatti, è segnata dall’interesse per l’effetto fisico della letteratura e di altre forme d’arte, per i piaceri edonistici offerti al lettore dai testi letterari, dalla musica e dalla fotografia, e infine per la violenza (la repressione di tali piaceri e reazioni fisiche) insita nel linguaggio stesso. In termini meno enfatici, e meno datati, diremo che il suo discorso s'ispira all'idea che la conoscenza sia in sé deliziosa.

I NODI CRUCIALI.
Il piacere è qualcosa che riguarda tutti quei testi che si fanno leggere facilmente. C’è una nota negativa sui testi di piacere. L’operazione di Barthes è quella di mettere in discussione che tutti i testi linguistici siano uguali. Quello che mi ha colpitone”il piacere del testo” è proprio l’interesse e il “piacere” con cui viene trattato il testo in questione,e gli altri testi in generale. Barthes indica il piacere come “euforia” che durante tutto il testo viene affiancato ad altri “sentimenti”,sarà interessante vedere ancora più da vicino queste opposizioni e questi paragoni. Un altro argomento che ritengo interessante è il linguaggio con il quale viene trattato il”piacere”nell’accezione datagli dall’autore.

IL CORPO DEL TESTO E IL CORPO.
Il piacere del testo è dato dall’interessa e dal modo in cui si guarda al corpo del testo. Gli eruditi Arabi, parlando del testo usavano questa stupenda parola:il corpo certo. Se leggo con piacere una frase, una storia o una parola, è perché sono state scritte nel piacere e di conseguenza io(lettore)sono interessato anche alla struttura anatomica del testo. Tutto questo ci porta ad una similitudine quanto mai giusta e appropriata: la parte più erotica di un corpo non è forse dove l’abito si dischiude? Nella perversione non ci sono zone, è l’intermittenza, come ha ben detto la psicoanalisi, che è erotica:quello della pelle che luccica fra due capi,fra due bordi;è proprio questo scintillio a sedurre,o anche:la messinscena di un’apparizione-sparizione. Non è questo il piacere dello streap-tease corporeo o della suspance narrativa. In una come nell’altra non c’è lacerazione, non ci sono bordi:un progressivo svelamento nella speranza di vedere il sesso o di conoscere la fine della storia. Paradossalmente è un piacere molto più intellettuale dell’altro. Ma quello che interessa a noi è il fatto che in alcuni romanzi non leggiamo tutto con la stessa intensità di lettura;si stabilisce un ritmo,disinvolto,poco rispettoso verso l’integrità del testo;l’avidità stessa della conoscenza c’induce a sorvolare o scavalcare certi passi per trovare al più presto i luoghi scottanti dell’aneddoto,questo ci porta a saltare impunemente le descrizioni,le spiegazioni,le considerazioni,le conversazioni. Diventiamo simili a uno spettatore di cabaret che sale sulla scena e accellera lo stripe-tease per arrivare alla fine affichè egli possa prendersi il suo piacere proprio come il lettore di testo nel momento in cui prende il suo di piacere. Il testo ha la forma del nostro corpo erotico, il piacere del testo sarebbe irriducibile al suo funzionamento grammaticale come il piacere del corpo è riducibile al bisogno fisiologico. Il piacere del testo è quando il mio corpo va dietro alle proprie idee,”il mio corpo infatti non ha le mie stesse idee”diceva Barthes.

IL PIACERE E LA NOIA
“[….]La noia non è semplice[…]”
Dalla noia non ci si toglie con un gesto si stizza o di liberazione. Così come il piacere del testo suppone tutta una sua produzione indiretta la noia non può valersi di nessuna spontaneità. Messi dinanzi ad un testo il lettore può sentirsi posto in una condizione di “stallo emotivo”, in questo caso,credo non sia possibile trovare alcun elemento per combatterla ma dobbiamo subirla in modo passivo. Si potrebbe azzardare dicendo che il testo di piacere non è necessariamente quello che riporta dei piaceri ma quello in qualche modo provoca un sentimento per l’appunto la noia. Tutti possono attestare che il piacere del testo non certo:niente dice che questo stesso testo ci piacerà una seconda volta;è un piacere friabile, scheggiato dall’umore,l’abitudine,la circostanza, è un piacere precario.

IL PIACERE PER IL TRAGICO
Sembrerebbe un accostamento strano, ma fra tutte le letture la più perversa è la lettura tragica:in questa si prova piacere nel sentire raccontare una storia di cui,ad esempio, si conosce già la fine, ma si fa finta di non sapere. Ad esempio anche in una fotografia, dice Barthes, quello che può colpirmi a primo acchito è un dettaglio straziante e tragico, come nella foto di Wessing nel quale la madre porto un lenzuolo bianco sul corpo del figlio morto per strada durante la rivoluzione in Nicaragua. Il vero piacere non risiede nell’effimera soddisfazione epistemica,ma nell’emozione di rivivere lo scioglimento della storia.
Essendo il piacere un sentimento,una emozione non dovrebbe sembrare strano il piacere verso il tragico perché questo suscita comunque il piacere del testo.

IL PIACERE E IL DESIDERIO
“[…]il piacere o è ozioso o è vano,è un’idea di classe o un’illusione[…]”
Il piacere è continuamente deluso,ridotto,sgonfiato a vantaggio di valori forti quali:la verità,la morte,il progresso,la gioia,la lotta ecc…però il suo rivale vittorioso è il DESIDERIO:ci viene continuamente parlato del Desiderio,mai del Piacere;il Desiderio avrebbe una dignità epistemica, il Piacere no. Ad esempio prendendo in considerazione un testo cosiddetto”erotico”,più che la scena erotica l’interesse è tale perché nasce dall’attesa,dalla preparazione;è in questo che sono”eccitanti”. Questi non sono libri di piacere ma sono libri del desiderio, perché l’interesse non è dato dal piacere di scoprire cosa accadrà ma c’è il desiderio di arrivare ad un determinato punto del testo. Il desidero nel testo riguarda anche l’autore perché nel testo in qualche modo desidero l’autore:detta alla Barthes”ho bisogno della sua figura come lui ha bisogno della mia”.

PIACERI A CONFRONTO
A Barthes interessa il fatto che ci siano testi prodotti da un sistema linguistico e costruiscano un desiderio nel lettore e lo soddisfino:ad esempio la visione di un quadro o di una foto che colpisce lo spettatore. Per quanto riguarda il desiderio del lettore mi viene naturale,e mi si permetta, l’accostamento con il desiderio dello stesso Barthes di conoscere le tecniche e l’uso della fotografia. Del resto la fotografia come il testo deve essere letta e può piacere come non può piacere.
Noi siamo spectator sia nei libri che nella fotografia. Nella fotografia il suo piacere è dato da due elementi: studium e punctum, il primo è il gusto per qualcuno ,è l’applicazione; il secondo è quella fatalità che mi punge. Questi due elementi potrebbero essere accostati anche ai testi, soprattutto lo studium che appartiene all’ordine del to like, esso mobilita un semi-desiderio, è lo stesso genere d’interesse svagato,piano,irresponsabile che mostriamo in certi libri, che ci piacciono e definiamo “buoni”.
Il tempo nella fotografia è bloccato, essa non inventa ma è l’autenticazione stessa, il passato è ormai sicuro quanto il presente che è ciò che tocchiamo. Nei testi accade la stessa cosa , il testo è atopico, se non il suo consumo almeno nella sua produzione. Da questa atopia esso prende e comunica al lettore uno stato particolare. Un testo che piace può far ritornare tanti ricordi così come una fotografia ne è un esempio ciò che racconta Proust allorchè chinandosi un giorno per togliersi le scarpe , scorse all’improvviso nella sua mente il vero volto della nonna.

La fotografia è contingenza pura e non può essere altro, contrariamente al testo, il quale attraverso l’azione improvvisa di una parola può fare passare una descrizione alla riflessione. La cosa importante è il modo in cui chi partecipa alla comunicazione- testo o fotografia che sia- si predispone verso un altro comunicativo e questo lo spiazzo.

QUANDO IL PIACERE VIENE OSCURATO
C’è un oscurantismo del piacere. Prendendo in considerazione la popolazione Francese,sembra che un Francese su due non legge. La metà della Francia è privata anzi si priva del piacere del testo. Anche se riportiamo il piacere del testo nel campo della sua teoria e non in quello della sociologia è sempre un’alienazione politica che è in causa. Questa preclusione del piacere è data da due morali:piattezza e rigore. Si direbbe che l’idea di piacere non lusinghi più nessuno.

QUALE IL LINGUAGGIO USATO PER IL PIACERE?
“[…]il linguaggio viene sempre da qualche parte,è topos guerriero[…]”
Prima si rappresentava il mondo del linguaggio come un immenso e perpetuo conflitto di paranoie. Nella guerra dei linguaggi ci possono essere momenti tranquilli,e questi momenti sono testi. Fra sue assalti di parole, il piacere del testo è sempre possibile,non come rilassamento, ma come passaggio incongruo di un altro linguaggio come esercizio di una fisiologia diversa. Il piacere del testo è come una brusca cancellatura del valore guerresco. La linguistica enuncia bene la verità sul linguaggio, ma solo in questo:”che nessun inganno viene commesso consapevolmente”. Nel testo di piacere, le forze contrarie non sono più in stato di repressione ma di divenire. Niente è veramente antagonistico, tutto è plurale.”Il linguaggio che parlo dentro di me-continua Barthes- non è del mio tempo, è esposto per natura al sospetto ideologico; è quindi con lui che mi occorre lottare. Il piacere del testo non ha preferenze qunto a ideologie. Leggiamo un testo come una mosca vola nel volume di una stanza: L’ideologia passa sul testo e sulla sua lettura come s’imporpora un viso, ogni scrittore di piacere ha di questi inetti rossori. Qui è il mio piacere:questo non ha probabilità di venire se non con il nuovo assoluto.” Il nuovo non è un modo,è un valore, fondamento di ogni critica. Il piacere è prodotto dalla ripetizione, dallo stereotipo. Ed ecco che si fa avanti il linguaggio di ripetizioni:tutte le istituzioni ufficiali di linguaggio sono macchine per ripetere. Lo stereotipo è la parola ripetuta, questa ritorna ogni volta come per miracolo, per essere ogni volta ri-adeguata. Perché la ripetizione sia erotica bisogna che sia formale. La parola può essere erotica a due condizioni opposte, tutte e due eccessive: se è ripetuta a oltranza o al contrario se è inaspettata, succulenta per la novità.
Il testo è il linguaggio senza il suo immaginario,e ciò che manca alla scienza del linguaggio perché venga manifestata l’importanza generale. Sul piacere del testo non è possibile nessuna tesi, appena un ispezione, che taglia corto.
Eppure si gaude! Eppure,a dispetto di tutto, io godo del testo.

COSA PORTA UN TESTO AD ESSERE “PIACIUTO”.
L’interesse per un testo è dato dal modo in cui questo viene scritto. Più un testo è scritto in modo confacente , senza malizia, in un tono compunto e più è più facile rovesciarlo ed è proprio questo rovesciamento, in quanto produzione pura,dice Barthes ,a sviluppare superbamente il piacere del testo. Considerare il testo come soggetto attivo e vivo: nessun elemento del mondo che ci appartiene sa vivere le diverse epoche dell’esistenza come sa farlo il libro. Se il testo arriva a farsi ascoltare indirettamente produce in noi il miglior piacere.

CONCLUSIONI
L’intento di questo elaborato è stato quello di descrivere un qualcosa di astratto in modo concreto proprio affiancandolo in alcuni casi a qualcosa di veramente concreto. Come già detto quello che mi ha colpito di Barthes è il modo in cui parla del piacere e da qui il mio interesse ad estrapolare le nozione più significativa per me, per dar vita all’excursus del piacere.

giovedì 20 maggio 2010

Il Testo. Tra piacere e godimento.

Il testo. Tra piacere e godimento
di Eluisa Pia Giglio


Il testo è un oggetto feticcio e questo feticcio mi desidera. Il testo mi sceglie, attraverso tutta una disposizione di schermi invisibili, di cavilli selettivi: il vocabolario, i riferimenti, la leggibilità ecc.

( Barthes, Roland, Le plaisir du texte, 1973, Edition du Seuil, Paris )

La scrittura è il soggetto costante di Barthes, anzi, forse nessuno come lui ha riflettuto sull’essenza della scrittura in modo così brillante e appassionato.
È la materia del linguaggio a parlare nei due testi che Barthes scrive tra gli anni 1971-73, e che l'editore Einaudi ha riunito in un unico volume: la materia dei segni come gesto, come traccia, in Variazioni sulla scrittura, e la materia come energheia che sfugge alla dicibilità della rappresentazione, nel Plaisir du texte.
Due libri destinati a diversa fama: il primo destinato ad una collana dell’Istituto Accademico di Roma, mai pubblicato, e apparso postumo solo nel 1994, il secondo, invece, di grande ed immediato successo. Sensualità degli alfabeti, scolpiti dall'abilità degli artigiani e dalla psicologia dei popoli, e sensualità della "significanza", che non è il significato, - Barthes intende marcare la distanza dalla “significazione” saussuriana - ma piuttosto il "godimento", la jouissance.


Che cos’è la significanza? È il senso in quanto prodotto sensualmente.


Osserva giustamente Barthes che se alla domanda “cosa conosciamo del testo?”, la semiologia è riuscita a dare risposte più o meno convincenti, la stessa cosa non è però accaduta per un’altra domanda fondamentale: “che cosa godiamo nel testo?”
Si tratta, riprendendo le parole dell’autore stesso, di “riaffermare il piacere del testo contro l'indifferenza scientifica ed il puritanesimo dell'analisi sociologica, contro l'appiattimento della letteratura ad un suo semplice apprezzamento”.
Alla scienza del linguaggio Barthes oppone "la scienza dei godimenti del linguaggio", cioè la scrittura, che è una pratica, o meglio, un insieme di pratiche, e non un metalinguaggio. Infatti la scrittura genera testi, ciascuno dei quali è anche il miglior commento a se stesso: ogni testo è un esempio di ars erotica, ed è un trattato di questa arte.
Ciò che vorrei, però riprendere in maniera particolare, è la difficile distinzione, che a mio avviso non si esaurisce del tutto all’interno del libro, tra piacere e godimento, in cui Barthes si cimenta continuamente.
L'assenza di un termine che li racchiuda entrambi favorisce l'ambiguità: in quanto coestensivo, ma anche contrapposto al godimento, il plaisir riesce sovente ad usurparne il posto, e ad allontanarlo dalla scena.
Tuttavia, alcune differenze sono a dir poco rilevanti: il piacere è appagamento, è soddisfazione, è legato ad un forte edonismo della cultura; il godimento, al contrario, è mancamento, perdita, distruzione della cultura, pathos emozionale portato al suo eccesso. Il piacere del testo è l’euforia, è legato ad una pratica confortevole della lettura, mentre il godimento è quella scossa, che fa perdere al soggetto la consistenza del proprio Io. ( Il brio del testo sarebbe la sua volontà di godimento)
In ciò quella del godimento rassomiglia alla concezione del sublime kantiano, caratteristico di una bellezza talmente sconvolgente ed intensa, da provocare insieme due sensazioni contrastanti, quali repulsione ed attrazione. Il godimento è espressione della propria deriva pulsionale, ed ha una natura asociale.
Testo di piacere, invece, è quel testo, la cui scrittura prova che il lettore è desiderato.
Debussy affermava che il compito dell’artista è quello di cercare umilmente di far piacere, così come Oscar Wilde sosteneva che “l’artista è colui che crea cose belle”.
Il testo deve, dunque, sedurre il lettore.
Si configura qui la predilezione, da parte di Barthes, del dionisiaco nietzscheiano rispetto al raziocinio. Nietzsche attribuiva, infatti, ad Euripide la colpa di aver eliminato dalla tragedia, e quindi dall'arte, l'elemento dionisiaco in favore di valori morali ed intellettualistici; criticava Socrate e la sua folle presunzione di dominare la vita con la ragione, perché, secondo lui, "la razionalità ad ogni costo è una malattia". Dioniso era, infatti, il dio dell’esaltazione dei valori vitali, dell’irrazionalità, della passione e quindi, della creatività artistica.

Se il piacere può nascondere le fonti del godimento, ciò accade in quanto esso è dicibile, in quanto occupa dei luoghi: invece il godimento è in-dicibile, è atopos.
"Lo scrittore di piacere (e il suo lettore) accetta la lettera; rinunciando al godimento ha il diritto e il potere di dirla: la lettera è il suo piacere, ne è ossessionato”.
Il testo di godimento non può essere giudicato quale giusto o sbagliato, perché va al di là del testo stesso. Il testo di godimento è un testo impossibile, intrattabile ed estraneo ad ogni critica, pertanto non si può argomentare su un testo del genere ma soltanto in esso.
"Sul piacere del testo non è possibile nessuna tesi. Non potendosi dire, il piacere si metterebbe nell'essere spiegato sulla via generale delle motivazioni, di cui nessuna può essere definitiva".
Esso è perciò talmente imprevedibile, che sfugge al controllo del suo stesso autore. Da qui il fallimento nel fondare una scienza del piacere come principio critico.
Proprio perché caratterizzato da quest’indicibilità, la critica verte sempre sui testi di piacere e mai su quelli di godimento.
Il linguaggio, giacchè parte della doxa, della natura umana, viene inevitabilmente contaminato dalla vita sociale ed è per questo topico.
Diversamente il testo (purchè non sia un metalinguaggio) è atopico, neutro, almeno nella sua produzione; proprio perchè è esente da ogni norma politica o morale e costituisce una sorta di superamento sociolinguistico, Barthes lo definisce perverso: il godimento del testo è necessariamente perverso, poichè "nessun godimento si può proporre in una cultura di massa".
Barthes osserva che un francese su due non legge. Privandosi della lettura i francesi non rinunciano solo ai canoni del bello ideale e della perfezione, espressi dalle civiltà greco-romane, ma, cosa più importante, essi si privano del piacere. Anche se in passato vi era la tendenza ad imitare e valorizzare le opere greche e latine attraverso la lettura e la loro riscoperta, pur avendo precluso il piacere inteso alla maniera di Barthes, ci si poteva comunque vantare del fatto che in qualche modo la lettura non era trascurata, anzi valorizzata. Oggi, invece, il piacere della lettura sembra non attrarre più nessuno. Forse è troppo difficile da ricercare, rintanato nelle pieghe e nelle intermittenze, “là dove l’abito si schiude”, direbbe Barthes, e le società sono portate, naturalmente, a rinunciare, a precludersi ogni forma di piacere.
Il soggetto assiste pertanto all'erotica distruzione della cultura e gode della sua caduta.
Viene decretata la preclusione del piacere del testo, a favore del conformismo culturale, razionalista. Ma il piacere dell'arte, essendo libero da qualsiasi morale culturale, politica o religiosa, non deve giustificarsi dinnanzi ad essa, in quanto è puro, possiede l'innocenza del divenire al di là del bene e del male.
"Guarda i buoni e i giusti! Chi odiano essi di più? Colui che spezza le loro tavole dei valori, colui che infrange, che delinque, ma questi è colui che crea." (Nietzsche).
Proprio in assenza di riferimenti estrinseci il linguaggio di testo trova la propria massima esplosione dionisiaca di godimento.
Ad avviso di Saussure, il linguaggio sarebbe un segno composto dalla corrispondenza arbitraria tra significante e significato; ciò può essere vero nel linguaggio quale strumento sociale, ma non in quello di testo, che è atopico, ed il suo godimento non dipende dal suo significato contenutistico, ma dalla sensualità della significanza.
Da Barthes i due termini vengono presentati come sinonimi: il godimento è significanza e la significanza è godimento, che eccede il valore del significato.
Per l’autore di cui ci stiamo occupando, la più perversa tra le letture è quella tragica: "provo piacere a sentir raccontare una storia di cui conosco già la fine", perchè il vero godimento nella tragedia non risiede nell'effimera soddisfazione epistemica, ma nell'emozione di rivivere lo scioglimento della storia.
La tragedia greca, la favola che la mamma ci raccontava ogni sera, il romanzo preferito; tutto ciò scatena il piacere della veggenza, l’illusorio potere di riuscire a condurre il gioco, oppure la volontà di non essere nuovamente delusi, come quando leggemmo o sentimmo la parola fine in un racconto che volevamo finisse diversamente. “È la progressione del godimento”, fenomeno che, oggi, nell’ epoca delle soap opera e della cultura di massa, si attua di rado.

Altri spunti preziosi all’interno del suo discorso sono quelli in cui Barthes introduce la distinzione piacere/godimento all’interno delle dinamiche testuali, e soprattutto, nella sfera della ricezione.
Innanzitutto, come conseguenza alla differenza di base tra i due termini, pone la distinzione tra almeno due regimi di lettura: quello che va direttamente alle articolazioni del testo, ignorando i giochi di lingua, e la lettura che non fa passare niente, che aderisce al testo, che “legge”, nel senso più pieno della parola, che affonda nella sua materialità per ritrovare quella leggerezza dell’atopia sopracitata, e che scivola, infine, nella perdita della propria soggettività.
Mentre il racconto classico comporta il piacere della tmesi, (dalla parola greca tmēsis, “taglio”, che si produce al momento del consumo del testo; l’autore non può prevederla, e d'altronde egli non potrebbe voler scrivere ciò che non si leggerà ) di un ritmo di lettura che non rispetta l’integrità del testo, ma va direttamente alle sue articolazioni, il testo di godimento (testo-limite, moderno) imprime una lacerazione al linguaggio stesso; la lettura di godimento coglie in ogni punto del testo l’asindeto che taglia i linguaggi – e non l’aneddoto.
Sembra che per Barthes la scrittura acquisti valore nel momento in cui è in grado di produrre fratture e lacerazioni. Quando invece si propone come strumento risolutore di ogni contrasto non funziona.
Infatti, la scrittura stessa nasce da un bisogno di divisione, la sua natura è di produrre collisioni, rotture e fratture tramite cui ridistribuire la lingua. La frattura che conduce al godimento è il “fading” (letteralmente “sbiadire”, “svanire”. Si tratta di un termine che si riferisce al segnale elettromagnetico che arriva in modo discontinuo). Barthes ritiene che il fading sia il luogo in cui il soggetto è colto nel pieno del godimento: si trova, infatti, davanti alla possibilità di poter scoprire o no la presenza ed il pensiero dell’autore nascosto dietro schermi invisibili.
È nelle zone di intermittenza che il lettore deve cercare il piacere del testo. Come in un corpo erotico, infatti, il piacere non risiede nelle zone erogene, ma nella messinscena di un’apparizione-sparizione: nell’intermittenza della pelle che luccica tra due capi, fra due bordi, come quelli di una camicia semiaperta.

Per Barthes, sarebbe questa l’opposizione radicale: il piacere è prodotto dalla ripetizione, dallo stereotipo; il godimento è prodotto dall’evento, dall’eccezione e si scatena tutto in una sola volta. Ma nel passo immediatamente successivo, dimostra di volere contemporaneamente la ripetizione ( che quindi potrebbe generare godimento) e l’evento, la cultura e la sua distruzione. La parola può, pertanto, risultare erotica a due condizioni, che si pongono agli antipodi: se è ripetuta ossessivamente o, al contrario, se è inaspettata e fonte di novità.
L’innovazione è la funzione del testo di godimento, sempre “moderno” rispetto alla propria contemporaneità, col compito di rinnovare il linguaggio andando a colpire le strutture della lingua.
Il suggerimento è quello di una retorica descrittiva, ma in grado di ospitare le lacerazioni del desiderio: le rotture di costruzione (anacoluti) e le rotture di subordinazione (asindeti) sono le tracce di fratture più profonde; è tutta l'enunciazione che, in questo modo, "va a pezzi".

Concludendo, come ho detto inizialmente, a mio avviso, Il piacere del testo è un libro che non giunge mai ad una conclusione chiara ed esplicita, ad una verità assoluta, contro ogni intuizionismo, in favore del dubbio, delle ipotesi che cercano questa verità, o almeno un abbozzo di essa. Un libro in cui, senza dubbio, emerge il gusto per la scrittura frammentaria, in cui le interruzioni tra un paragrafo e l’altro, senza titoli, stimolano a proseguire nella lettura, nella riflessione.
Bisogna lasciarsi al piacere della lettura di un testo senza preconcetti, ma solo in base a quello che la sua lettura trasmette a noi personalmente in quel momento. Questo tipo di lettura coinvolge tutti i sensi, ci porta in un mondo immaginario dal quale si torna alla realtà arricchiti da questa nuova esperienza. Per la formazione del gusto della lettura è necessario provare questo piacere fondamentale e profondo, è necessario che l'individuo riesca a godere della lettura al punto da desiderare nuovamente quel piacere nel corso di tutta la vita.




mercoledì 19 maggio 2010

Limiti e possibilità dell’agire linguistico nello spazio pubblico.

Le conclusioni di Foucault

di Annalisa Laganà

«Ogni volta che è in gioco il linguaggio, la situazione diviene politica per definizione, perché è il linguaggio che fa dell’uomo un essere politico»[1].

In questi termini la studiosa tedesca Hannah Arendt (1906 – 1975) sintetizza e ripropone le affermazioni aristoteliche sull’uomo come «zoon politikon»[2] e come «zoon logos echon»[3], quali descrizioni di due aspetti tra loro complementari della natura umana, che si esplica, quindi, necessariamente nello spazio sociale. La culla di uno spazio sociale così inteso è la polis greca che, in quanto struttura pubblica e democratica[4] prototipica, consente al soggetto di esprimere la sua natura sociale nell’isonomia[5] dei cittadini. Tutti, con il logos, partecipano attivamente alla vita politica della città: nella polis tutte le strade portano all’agorà, perché qui si possa esprimere la socialità costitutiva della persona, nel rispetto della libertà di ognuno e nella necessaria limitazione della propria.

Sigmund Freud (1856 – 1939) ipotizzerà l’origine della civiltà proprio sulla base di queste condizioni e limitazioni del singolo che, nonostante la natura asociale e amorale delle sue pulsioni, avverte la necessità biologica (in senso ampio, come condizione di vita) della convivenza con i propri simili[6]. Il principio di realtà, l’assunzione di regole morali – sia sulla linea ontogenetica che su quella filogenetica – limita un aspetto della natura dell’uomo, per far sì che il secondo possa esprimersi:

L’uomo delle origini stava meglio perché non conosceva alcuna limitazione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era ridotta. L’uomo civile ha barattato un po’ della sua possibilità di essere felice con un po’ di sicurezza[7].

Se la felicità dell’uomo ante-sociale coincideva con la sua assoluta libertà, ora la sua sicurezza è determinata dal controllo (autonomo e istituzionale) dei suoi atti di parole[8], dacché «l’azione e […] il discorso […] (sono) due facoltà umane […] complementari e superiori e tutte le altre»[9].

Ecco che la società, perché sia possibile, deve costruirsi secondo due funzioni: deve essere al contempo luogo delle possibilità e luogo dei limiti. In questa direzione esordisce Michel Foucault (1926 – 1984), nel testo della sua lezione inaugurale al Collège de France, L’ordine del discorso[10], quando, presentando la sua tesi generale, afferma:

In ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità[11].

Con queste parole Foucault inizia a confrontarsi con l’enorme potere del linguaggio: gli atti linguistici, infatti, sono da considerarsi azioni che influenzano concretamente le determinazioni della realtà, atti di significazione collocati nella dimensione sociale[12], proprio perché l’azione esige il discorso[13] in tutte le circostanze sociali, in quanto tali istituzionalizzate[14], e «il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile»[15]. Allora, come la prassi sociale si impone alla libertà delle pulsioni dell’individuo, così le «procedure d’esclusione»[16] intervengono a regolare l’ordine del discorso, limitando le possibilità del sistema linguistico nelle sue determinazioni particolari, in rapporto alle convenzioni del vivere in comunità. Il sistema di possibilità linguistico deve adattarsi al sistema di possibilità storico–sociale, senza che tra i due sistemi si possa strutturare un’organizzazione gerarchica; infatti, questi interagiscono sullo stesso livello: in assenza di testo, non si può considerare l’esistenza di vincoli sociali sulla produzione del testo stesso. Questo stato di cose è determinato proprio dal fatto che le circostanze che influenzano la libera produzione linguistica sono variabili nel loro senso, nella loro portata, nelle loro implicazioni, sulla linea diacronica - «il molto provvisorio teatro»[17] - e su quella sincronica – le differenze culturali – e questo impone di adottare procedure che sono valide solo se applicabili a situazioni particolari, senza pretese universalistiche. Un altro motivo sorregge la non applicabilità di norme di limitazione estese a tutta la struttura linguistica: i testi, in quanto atti comunicativi prodotti da sistemi linguistici verbali, dotati di onniformatività semiotica, possono assumere come contenuto tutto il pensabile; per questo i paradigmi limitati sono solo quelli che consentono scambi comunicativi ristretti, come nel caso delle lingue settoriali, che infatti non ammettono alcuna forma di creatività.

A queste condizioni la teoria linguistica di Louis Hjelmslev (1899 – 1965) crolla sui suoi fondamenti[18]; infatti, il linguista danese considerava necessaria una teoria linguistica che acquisisse la stessa oggettività e universalità di applicazione di una teoria matematica, che fosse capace di descrivere e predire «tutti i testi […] possibili o concepibili, compresi testi che non esisteranno fino a domani o più tardi»[19], sulla base dei sistemi linguistici già esistenti. Non solo, la generalità scientifica della teoria linguistica doveva essere tale da permettere di costruire «qualunque testo composto in qualunque lingua»[20]: il teorico del linguaggio, dunque, a qualunque cultura appartenga, deve concepire una teoria che possa applicarsi a lingue che egli non conosce o non ancora esistenti o che non esisteranno mai. Questa convinzione radicale di Hjelmslev palesa come, dagli scopi della teoria linguistica che verte sulla prassi linguistica in quanto suo oggetto di studio, è esclusa la prassi linguistica stessa, in favore di una legge scientifica unificata:

La teoria linguistica non può essere verificata […] con riferimento a […] testi o lingue esistenti. Essa può essere giudicata solo con riferimento al carattere coerente ed esauriente del suo calcolo[21].

Se la teoria di Hjelmslev fosse considerata valida in tutte le sue parti, si negherebbe la rilevanza assegnata al contesto sociale, - nell’interpretazione aristotelica da un lato e foucaultiana dall’altro - nel quale le ragioni originarie del linguaggio si insediano.

La necessità di porre un limite alla prassi linguistica diventa una condicio sine qua non dell’esistenza stessa del linguaggio verbale, le cui strutture non consentono la sussistenza del carattere di una ricorsività davvero illimitata. Questo è quanto emerge anche dalle considerazioni di Louis Borges (1899 – 1986) nel racconto fantastico La biblioteca di Babele [22]. Questo luogo, che è il luogo che comprende tutti i testi possibili (intesi come libri e come atti comunicativi verbali) su «tutto ciò che è dato esprimere in tutte le lingue»[23], compresi elenchi e ripetizioni privi di un senso testuale, si estende in uno spazio ossimorico (anche nel suo significato etimologico, “acutamente folle”) che si dice infinito, ma che si dimostrerà, al contempo, finito, che esiste ab aeterno, ma le cui unità minime sono limitate e calcolabili:

L’universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone di un numero indefinito e forse infinito di gallerie esagonali […]. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente.[24]

E ancora:

A ciascuna parete di ciascun esagono corrispondono cinque scaffali; ciascuno scaffale contiene trentadue libri […]; ciascun libro è di quattrocentodieci pagine; ciascuna pagina di quaranta righe; ciascuna riga di quaranta lettere.[25]

La Biblioteca è totale[26] e la sua totalità suggerisce allo stesso tempo infinità e compiutezza. Il punto medio tra queste due suggestioni sta nel considerare le possibilità della Biblioteca, e quindi del sistema linguistico (entrambi limitati nello spazio e modificabili nel tempo), date in un numero enorme, ma non infinito. Questa conclusione è raggiunta anche dallo studioso tedesco Kurd Lasswitz (1848 – 1910) nel suo racconto breve intitolato La Biblioteca Universale[27]. Qui l’autore fa calcolare al professor Wallhausen la quantità di tutti i volumi che esprimerebbero tutto lo scibile, secondo tutte le combinazioni possibili di lettere; la lunghezza che raggiungerebbero messi tutti su un’unica fila; lo spazio che occuperebbero se racchiusi in un’unica biblioteca. Il professore ottiene quantità incommensurabili, che però, se sottratte a loro stesse danno come risultato zero: «È un numero finito e concettualmente ben definito»[28]. Non solo anche in questo caso il numero di possibilità linguistiche è limitato, ma anche qui si presenta il problema del senso dei testi, che non può dirsi presente in tutte le possibilità contenute nella Biblioteca Universale, infatti, questa comprende «ogni possibile letteratura, sia sensata che priva di senso»[29]. Dunque, rispetto a tutti i testi delle Biblioteche (di Borges e Lasswitz), solo le combinazioni valide consentono di accettare la loro utilizzabilità, e tra queste non possono rientrare elenchi e ripetizioni che, nel contesto sociale in cui vanno a inserirsi, non hanno un senso testuale. Ci suggerisce a proposito il linguista Oliver Soutet:

Indipendentemente dalla situazione enunciativa, ogni elemento del testo, e dunque ogni testo, deve obbedire a una regola basilare: la coesione testuale (o continuità tematica)[30]. L’enunciatore, lungi dal giustapporre atti di linguaggio indipendenti, li subordina in maniera intenzionale in vista di un fine ben preciso[31].

Non solo il testo deve essere di per sé strutturato in modo da manifestare un senso, ma è il lettore stesso, con le sue competenze e a seconda delle sue finalità nel contesto intersoggettivo, che deve attivare quello che Umberto Eco definisce come «meccanismo pigro»[32]. Infatti, qualsiasi produzione linguistica assume la ricchezza che è propria delle lingue verbali non solo in relazione alla sua struttura sintattico - semantica, ma soprattutto rispetto al livello estetico - estesico[33], che indaga e fa emergere tutto ciò che nella comunicazione c’è di extralogico e quindi di dipendente dalla passionalità dei parlanti. Dunque risulta evidente il fatto che le possibilità strutturali della lingua e le possibilità sociali sono tra loro complementari, nella misura in cui «le condizioni storico-sociali costituiscono il “contesto” dei testi propriamente detti»[34]. Le potenzialità onniformative del linguaggio verbale vengono a modellarsi puntualmente sulle condizioni di possibilità sociali in cui il linguaggio verbale stesso si produce, perché, come per qualunque operazione combinatoria, anche la produzione linguistica si muove entro un “quadrato delle possibilità”, come il quadrato semiotico greimasiano[35] che alla presenza di alcune, impone che se ne escludano altre. Si prenda come esempio il modello morfo-sintattico di Vladimir Propp (1895 – 1970) per la scrittura della fiaba[36]: questo sistema non prevede la ricorsività chomskyana; il numero delle possibilità che offre è molto alto, ma non infinito, perché affinché si produca un testo fiabesco, è necessario rispettare norme e condizioni che non consentono di uscire da un percorso ben definito, determinato dai caratteri stessi della fiaba, tanto che in questo caso i testi non sono divisi in frasi, ma in situazioni.

Da questo esempio emerge come il testo sia una selezione di combinazioni nella lingua e secondo la grammatica, e la selettività insita nei sistemi di possibilità dei testi si estende non solo ai modi, ma anche ai luoghi in cui i testi vengono prodotti. Le condizioni di esistenza di un testo sono date dai rapporti in assenza delle possibilità sull’asse paradigmatico, per cui un testo possibile a certe condizioni, in un certo contesto sociale, esclude gli altri testi possibili ad altre condizioni, in altri contesti sociali. Roland Barthes (1915 – 1980) ha riconosciuto in questo collegamento diretto tra struttura linguistica e contenuti sociali, «l’unità delle ricerche che vengono attualmente condotte nell’antropologia, nella sociologia, nella psicoanalisi e nella stilistica intorno al concetto di significazione»[37], e su questo ha rovesciato l’idea saussuriana della semiologia.

Se da un lato si è costretti nella lingua a produrre testi che rispettino gli accordi sintattici e morfologici tra le parti costitutive del discorso, dall’altro si è subordinati nella prassi linguistica a procedure convenzionali che regolino l’espressione di questi stessi testi. Foucault ce ne propone di diversi tipi. L’interdetto, la partizione, la volontà di verità, tutte diverse nella loro genesi e nelle loro implicazioni, ma tutte accomunate dal loro essere strumenti per controllare l’ordine dell’agire pubblico. In alcuni casi è il discorso stesso a limitarsi con la sua funzione metalinguistica: si tratta del commento che «scongiura il caso del discorso assegnandogli la sua parte»[38]. In altri casi è l’autore a intervenire come colui che stabilisce l’orientamento del testo e ne determina le condizioni di validità e di coerenza, attraverso un’operazione di ritaglio entro tutto il dicibile. E ancora, il modo stesso di organizzarsi del discorso nelle diverse classificazioni in discipline, che pongono il vincolo di un sistema formale entro il quale il discorso deve porsi senza poter valicare un ben definito «orizzonte teorico»[39]. Tutte operazioni che mirano a rarefare il discorso[40] - dice Foucault – a indebolirne la forza riducendone la libertà.

D’altro canto esistono anche procedure che controllano i soggetti parlanti, le loro competenze per entrare nell’ordine del discorso. Il rituale, tra tutte, è la forma che si richiama nel modo più diretto alla collocazione sociale dell’individuo:

I discorsi religiosi, giudiziari, terapeutici e in parte anche quelli politici, non sono quasi dissociabili dalla utilizzazione di un rituale che determina per i soggetti parlanti sia proprietà singolari che ruoli convenuti[41].

Diversamente ancorate allo spazio di diffusione del discorso sono le «società di discorso»[42], il cui accesso non è consentito ai più in modo da garantire la conservazione di un sapere elitario. Ciò che potrebbe sembrare opposto a una società di discorso è la dottrina, che però, a dispetto delle apparenze, non fa che diffondere i propri dogmi differenziando in modo netto la sua identità rispetto a quella delle altre dottrine, cosicché i discorsi del soggetto siano ingabbiati in essa. Infine l’educazione, che tanta parte prende nella determinazione dei modi di inserimento di un soggetto nello spazio comune: essa non è che «un modo politico di mantenere o di modificare l’appropriazione dei discorsi, con i saperi e i poteri ch’essi comportano»[43].

Attraverso tutte queste modalità si applica un assoggettamento istituzionale del discorso, che diventa una condizione necessaria e in fin dei conti consequenziale alla natura del discorso stesso. Il discorso, infatti, non è un insieme omogeneo di oggetti; i discorsi sono costitutivamente diversi gli uni dagli altri, sono originali, sono unici perché ogni volta creati da soggetti diversi in situazioni diverse. Proprio in questa mancanza di unità, nella inapplicabilità dell’omologazione ai discorsi sta la ricchezza del linguaggio verbale, casuale perché dipende dal caso e dai casi, che negano di poter determinare l’esistenza di caratteri universali.



[1] Arendt (1958), p. 3.

[2] Politica, Libro I, 1253a.

[3] Ibidem.

[4] In senso forte, luogo di scambio sociale per eccellenza.

[5] L’isonomia era concessa solo agli uomini liberi, ma questo esula dal nostro discorso.

[6] Freud (1913).

[7] Freud (1929), p. 89.

[8] Saussure (1922), p. 28.

[9] Arendt (1958), p. 20. Nostre le parentesi.

[10] Foucault (1971).

[11] Ivi, p. 5.

[12] Pozzato (2001), p. 213.

[13] Arendt (1958), p. 130.

[14] Foucault (1971), p. 4: «L’istituzione risponde: […] il discorso è nell’ordine delle leggi; […] da tempo si vigila sulla sua apparizione; […] un posto gli è stato fatto, che lo onora, ma lo disarma».

[15] Arendt (1958), p. 129.

[16] Fuocault (1971), p. 5.

[17] Foucault (1971), p. 4.

[18] Hjelmslev (1961).

[19] Ivi, p. 19.

[20] Ivi, p. 20.

[21] Ivi, p. 21.

[22] Borges (1956).

[23] Ivi, p. 73.

[24] Ivi, p. 69. Nostri i corsivi.

[25] Ivi, p. 70. Nostri i corsivi.

[26] Ivi, p. 73.

[27] Aa. Vv. (1968), p.128.

[28] Ivi, p.136.

[29] Ivi, p.134.

[30] Soutet (1995), p. 314.

[31] Ivi, p. 319.

[32] Eco (1979), p. 52.

[33] Pozzato (2001), p. 170.

[34] Ivi, p. 205.

[35] Pozzato (2001), p. 30.

[36] Propp (1928).

[37] Barthes (1964), p. 15. Qui “significazione” può assumere il senso che ci propone la psicologia o la filosofia della mente: significazione come attribuzione di significato sulla base di credenze e intenzionalità particolari, non universalmente valide.

[38] Foucault (1971), p. 13.

[39] Foucault (1971), p. 17.

[40] Ivi, p. 13.

[41] Foucault (1971), p. 20.

[42] Ibidem.

[43] Foucault (1971), p. 23.


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