modalità d'esame

per tutti gli studenti che dovranno sostenere l'esame di
Filosofia del Linguaggio mod.B a.a. 2009/2010


si rende noto che

-Il numero di battute dei propri elaborati dovrà essere compreso tra 14000 e 16000

-Bisognerà postare i propri lavori 14 giorni prima dell'appello scelto per sostenere l'esame

l'indirizzo e-mail a cui chiedere l'autorizzazione per postare è:
foucaultbarthes0910@gmail.com

per non avere problemi con le autorizzazioni si invita gli studenti ad utilizzare un indirizzo gmail per inoltrare le proprie richieste
Gli studenti che hanno usato il proprio account @mondoailati.unical.it per postare su altri blog relativi agli esami di Informatica, sono pregati di creare COMUNQUE un nuovo account

Programma d'esame

cicli: 07 e precedenti
A partire dalla sessione di giugno 2010 il programma d'esame consiste nello studio di:
-M.P. Pozzato, Semiotica del testo, Carocci
-Barthes, Variazioni sulla scrittura-Il piacere del testo, Einaudi
-Foucault, Ordine del discorso
e nella stesura di un elaborato da postare sul blog

giovedì 16 settembre 2010

(Foucault) Il discorso e le sue procedure.

Il nostro linguaggio nella nostra società e soprattutto la sua produzione viene controllata da alcune procedure che hanno il compito di controllarne le caratteristiche e di evitarne i pericoli e i poteri. Evidenti sono le procedure di esclusione e la più evidente è quella dell’interdetto; ossia il fatto che non si può parlare di tutto in qualsiasi circostanza, che le persone non possono parlare di qualunque cosa. Oggi giorno ciò avviene soprattutto quando si parla della sessualità e della politica che diventano argomenti tabù. Evidente nel discorso è il suo legame con il desiderio e con il potere; infatti il discorso non è semplicemente ciò che manifesta il desiderio ma è anche ciò per cui si lotta , il potere che si vuole raggiungere. Altro principio d’esclusione è la partizione , ad esempio quella fra ragione e follia. C’è da dire che per secoli in Europa la parola del folle veniva esclusa e quindi non esisteva , le parole del folle erano il luogo della partizione, ed esse non erano mai accolte e mai ascoltate. Oggi si dirà che tutto ciò è finito e che la parola del folle non è più dall’altra parte della separazione , ciò però non significa che la vecchia partizione non sia più valida , infatti essa non viene cancellata ma agisce altrimenti muovendosi secondo linee diverse e con effetti diversi. Come terzo sistema di esclusione può essere considerata l’opposizione tra vero e falso. Attenzione però , perché questa partizione non è rilevante a livello di una proposizione , ma se si vuole invece sapere qual’ è la volontà di verità che ha attraversato i secoli della nostra storia allora può profilarsi qualcosa come un sistema di esclusione. Questo non è altro che un sistema costituitosi senz’altro storicamente , dunque si parla di partizione storicamente costituita. Infatti già nei poeti greci del passato il discorso vero per cui si aveva terrore e rispetto era il discorso che diceva la giustizia e che attribuiva a ciascuno la sua parte. Solo qualche tempo dopo la più alta verità non era più in quello che il discorso era o in quello che faceva, bensì in quello che diceva. Infatti la verità si è spostata dall’atto ritualizzato dell’enunciazione verso l’enunciato stesso ; verso il suo senso , la sua forma , il suo oggetto e il rapporto con la sua referenza. Si è stabilita poi la partizione fra il discorso vero e il discorso falso, una partizione nuova perché il discorso vero non è più discorso prezioso e desiderabile proprio perché non è più legato al potere. Da tutto ciò risulta evidente che la volontà di verità è mutata nelle epoche storiche , infatti la volontà di verità nel diciannovesimo secolo non coincide con la volontà di sapere che caratterizza la cultura classica. La volontà di sapere come gli altri sistemi di esclusione poggia su un supporto istituzionale, infatti è costituita da pratiche come la pedagogia , come il sistema dei libri, dell’editoria, delle biblioteche ecc. questa volontà viene anche riconfermata dal modo in cui il sapere viene messo in opera in una società, dal modo in cui viene valorizzato e distribuito. Questa volontà di verità , sorretta da un supporto e da una distribuzione istituzionale, esercita sugli altri discorsi della nostra società una sorta di pressione e quasi un potere di costrizione. Foucault dei tre sistemi di esclusione che colpiscono il discorso si è soffermato più a lungo sul terzo ossia sulla volontà di verità. È di essa che si parla meno infatti il discorso vero non può riconoscere le volontà di verità che lo attraversa e la volontà di verità che si è imposta a noi da molto tempo è tale che la verità ch’essa vuole non può non mascherarla. In questo modo ci appare allo sguardo una verità che è ricchezza e fecondità , ma in compenso la volontà di verità ci appare come un prodigioso macchinario destinato ad escludere.

Esistono poi anche le procedure d’esclusione interne con le caratteristiche di classificazione, ordinamento, distribuzione, con la volontà di padroneggiare un’altra dimensione del discorso : quella dell’evento e del caso. Qui al primo posto come procedura troviamo il commento. Il commento consente di costruire nuovi discorsi e dall’altra parte ha l’unico ruolo di dire ciò che era articolato silenziosamente. Deve dire per la prima volta ciò che non era mai stato detto, esso assegna la sua parte al discorso e consente di dire qualcosa di diverso dal testo stesso, ma a condizione che sia questo stesso testo ad essere detto e compiuto. Altra procedura complementare a quella del commento è quella dell’autore. L’autore considerato non come l’individuo parlante che ha pronunciato o scritto un testo , ma l’autore come principio di raggruppamento dei discorsi, come unità ed origine dei loro significati e come fulcro della loro coerenza. Nell’ordine del discorso scientifico l’attribuzione di un autore , nel medioevo , era indispensabile perché costituiva un indice di verità. Allo stesso modo anche nel diciassettesimo secolo nel discorso scientifico questa funzione non è venuta meno. Differentemente nell’ordine del discorso letterario a partire dal diciassettesimo secolo la funzione dell’autore andò rafforzandosi ; infatti tutte le narrazioni, i poemi , i drammi e le commedie che nel medioevo circolavano nell’anonimato , ora invece si chiede loro la loro provenienza , chi li ha scritti, si chiede all’autore che rendi conto dell’unità del testo che va sotto il suo nome. Si chiede all’autore di rivelare il senso nascosto dei propri testi e di articolare questi testi sulla propria vita personale , sulle proprie esperienze. Dunque l’autore è ciò che da al linguaggio della finzione le unità , i nodi di coerenza e l’inserimento nel reale. Mentre il commento limitava il caso del discorso ad un’identità che ha la forma della ripetizione , l’autore invece limita il caso del discorso ad un’identità che ha la forma dell’individualità e dell’io. Vi è un’altra procedure che riguarda l’organizzazione delle discipline che si oppone tanto al principio del commento che a quello dell’autore. A quello dell’autore in quanto una disciplina viene definita da un campo d’oggetti, da un insieme di metodi , da un gioco di regole e di definizioni di tecniche e di strumenti. Si oppone anche a quella del commento perché in una disciplina a differenza del commento ciò che si presume in partenza non è un senso che deve essere riscoperto ne un identità che deve essere ripetuta , bensì ciò che è richiesto per la costruzione di nuovi enunciati. Dunque affinché ci sia disciplina occorre che vi sia possibilità di formulare in maniera indefinita nuove proposizioni. C’è da dire che una disciplina non è la somma di tutto ciò che può essere detto di vero a proposito di qualcosa , infatti la medicina non è costituita dal totale di ciò che si può dire di vero sulla malattia e la botanica non può avere la somma di tutta la verità su ciò che concernano le piante. Dunque sia la botanica che la medicina , come ogni altra disciplina , sono fatte tanto di errori che di verità , errori che non sono corpi estranei ma che hanno funzioni positive , efficacia storica e legate alla verità. C’è da dire inoltre che una proposizione affinché possa appartenere alla botanica o alla medicina deve innanzitutto rivolgersi ad un piano d’oggetti determinato che riguardano appunto le due discipline. Dunque nei suoi limiti ogni disciplina riconosce preposizioni vere e false, una preposizione deve rispondere a complesse e pesanti esigenze per poter appartenere all’insieme di una disciplina. La disciplina è un principio di controllo della produzione del discorso , essa infatti fissa dei limiti al discorso.

In fine esiste un terzo gruppo di procedure che consentono il controllo dei discorsi. Qui si afferma che non tutte le regioni del discorso sono aperte e penetrabili , alcune sono saldamente difese , mentre altre sono accessibili e a disposizione di ogni soggetto parlante. Lo scambio e la comunicazione sono figure positive che operano al’’interno di sistemi complessi di restrizione. La forma più superficiale e visibile di questi sistemi di restrizione è costituita dal rituale. Il rituale definisce la qualificazione che devono possedere gli individui che parlano , esso definisce i gesti e i comportamenti , le circostanze e tutto l’insieme di segni che devono accompagnare il discorso ; esso fissa l’efficacia delle parole e il loro effetto su coloro cui sono rivolte. Anche i discorsi religiosi, giudiziari, terapeutici e in parte anche quelli politici utilizzano il rituale. Diverse sono le società di discorso che hanno la funzione di conservare o proteggere i discorsi con un regime diverso di esclusione e di divulgazione : si pensi al segreto tecnico o scientifico , alle forme di diffusione e di circolazione del discorso medico ecc. differentemente le dottrine (religiose, politiche,filosofiche) costituiscono l’opposto di una società di discorso ; infatti mentre nelle società di discorso il numeri degli individui parlanti tendeva ad essere limitato e il discorso circolava solo tra di loro , invece la dottrina al contrario tende a diffondersi fra i soggetti e mette in causa sia il l’enunciato che il soggetto parlante. La dottrina lega gli individui a certi tipi di enunciazione per legare gli individui tra di loro e differenziarli dagli altri. Bisogna anche riconoscere l’appropriazione sociale dei discorsi e qui l’educazione è lo strumento grazie al quale ogni individuo nella nostra società può accedere a qualsiasi tipo di discorso. È difficile separare i rituali della parola, le società di discorso i gruppi dottrinali e le appropriazioni sociali , questi infatti si legano l’uno a gli altri e costituiscono grandi edifici che assicurano la distribuzione dei soggetti parlanti nei vari tipi di discorso. Questo in merito alle procedure d’assoggettamento del discorso.

Nella nostra società vi è una sorta di sordo timore contro questa massa di cose dette , contro il sorgere di tutti questi enunciati , dunque contro questo brusio incessante e confuso del discorso. Se si vuole analizzare questo timore nei suoi effetti e nel suo gioco occorre : rimettere in questione la nostra volontà di verità , restituire al discorso il suo carattere d’evento e togliere via in fine la sovranità del significante. Questi compiti comportano alcune esigenze di metodo : un principio di rovesciamento per cui la dove si crede di riconoscere la scaturigine dei discorsi , bisogna piuttosto riconoscere il gioco negativo di un ritaglio e di una rarefazione del discorso. Poi un principio di discontinuità per cui i discorsi devono essere trattati come pratiche discontinue, che s’incrociano , si affiancano s’ignorano e si escludono. Ancora un principio di specificità secondo il quale occorre concepire il discorso come una violenza che noi facciamo alle cose , ed è in questa pratica di violenza che il discorso trova la sua regolarità. In fine, quarto principio , di esteriorità secondo il quale bisogna partire dal discorso stesso e andare poi verso le sue condizioni esterne di possibilità. A questi quattro principi si legano quattro nozioni che servono all’analisi regolativa : l’evento che si lega al principio di rovesciamento , serie che si lega al principio di discontinuità , regolarità al principio di specificità e la nozione di condizione di possibilità al principio di esteriorità. Foucault si propone poi di condurre due analisi : una critica dove si analizzano i processi di rarefazione , di raggruppamento e di unificazione dei discorsi ; l’altra genealogica che riguarda invece la formazione effettiva dei discorsi sia all’interno dei limiti di controllo che all’esterno. Le descrizioni critiche e le descrizioni genealogiche devono sorreggersi alternarsi e completarsi vicendevolmente. La parte critica dell’analisi si rivolge ai sistemi d’avvolgimento del discorso , essa cerca di rintracciare e di individuare i principi di ordinamento esclusione e rarità del discorso. Invece la parte genealogica si rivolge alla serie della formulazione effettiva del discorso e cerca di cogliere il discorso nel suo potere di affermazione. Dunque l’analisi del discorso cosi intesa mette in luce il gioco della rarità da una parte e il potere d’affermazione dall’altra.

venerdì 10 settembre 2010

IL TESTO: A SCUOLA GUIDA O IN CUCINA?!?

Il testo è una combinazione di selezioni.
La definizione di Louis Hjelmlev (1899 – 1965) non lascia adito a dubbi: dato un raggruppamento di scelte, dalla semplice combinazione di queste ultime si possono generare tutti i testi possibili, un po’ come per le combinazioni di un lucchetto o di un libro illustrato per bambini (dove combinando le pagine si ottengono figure di animali sempre diverse). Questo però significa che il sistema è completamente (almeno in potenza) dispiegabile, e ciò indica che non vi è spazio per una ulteriore creazione. Si potrebbe tranquillamente paragonare l’insieme dei testi al repertorio dei segnali stradali che si insegnano a scuola guida; ma se così fosse, o a scuola dovremmo imparare tutte le possibili combinazioni di tutti i testi possibili, oppure a scuola guida dovrebbero insegnare il sistema generatore dei segnali, la grammatica di come si “costruiscono” i segnali stradali; il che, non solo sarebbe non – utile, ma risulterebbe addirittura dannoso. Al posto di un sistema si avrebbe invece un repertorio.
Le condizioni di esistenza di un testo, insomma, secondo Hjelmslev, sono date dai rapporti in assenza delle possibilità sull’asse paradigmatico, proprio come avviene nel “quadrato semiotico” greimasiano [1], una rappresentazione logica in cui due termini qualsiasi ( A e B) si trovano raffigurati in relazione di contrarietà ( A vs B ); in relazione di sub-contrarietà ( nonA vs non B ) e in relazione di contraddizione ( A vs non A; B vs non B ):




Questa, almeno in parte, è la teoria che sostiene anche il modello di Vladimir Propp (1895 -1970), che, in Morfologia della fiaba [ 1928 ], conduce un attento studio su oltre 400 fiabe russe “di magia”, allo scopo di individuare le “forme soggiacenti”, ossia le costanti che ricorrono lungo tutta la mutevole superficie testuale delle fiabe. Propp individua 31 funzioni narrative (tipi di azioni), 7 sfere d’azione (tipi di personaggi), ed elenca i principi che reggono il genere “fiaba di magia”[2]. Attraverso la combinazione di questi elementi e la ricorsività in un modello costante, chiunque può costruire una fiaba in qualsiasi momento, proprio come una ricetta di cucina. Così ogni testo esibisce il meccanismo di produzione di tutti gli altri testi possibili.
Anche la preoccupazione di Gérard Genette ( 1930 ) è quella di descrivere ampie tipologie di meccanismi testuali, alla ricerca di una “retorica del racconto”, fatta di figure che generalizzino quanto i diversi testi hanno in comune. Genette infatti, ( Palimpsestes, 1982 ) afferma che l’oggetto del proprio lavoro, non è il testo considerato nella sua singolarità ma l’insieme delle categorie generali, ovvero “i tipi di discorso, i modi di enunciazione, i generi letterari…” [3]
Jacques Geninasca ( 1930 – 2010 ), poi, concepisce la tipologia del “testo estetico” ( oggetto del suo studio ) come una totalità significante ( totalitè signifiante ) articolata in sotto-unità funzionali che chiama spazi testuali: é necessaria la strutturazione in parti del testo, poiché è dalle relazioni fra ripartizioni testuali che emerge il significato profondo del testo stesso.[4]

Partiamo da un assunto: non tutto è testo.
Nella Biblioteca di Babele ( 1956 ) di Louis Borges ( 1899 - 1986 ) erano presenti tutti i testi possibili, quelli già scritti, ma anche tutti quelli che ancora dovevano essere scritti. E’ evidente però che nella Biblioteca, definita “Universale”, ciò che è presente è il meccanismo combinatorio dei testi; Borges, pertanto, vuole mostrare le combinazioni compiute del sistema in potenza. Nella Biblioteca in sostanza sono presenti sì i testi, ma sono certamente presenti anche i non testi: è il sistema delle selezioni che emerge.

La Biblioteca Universale comprende

“ ogni possibile letteratura, sia sensata che priva di senso […] tutto ciò che è dato esprimere in tutte le lingue” [5]

Questo meccanismo è basato sul presupposto che nella combinazione alcuni elementi si ripetono.

“L’universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone di un numero indefinito e forse infinito di gallerie esagonali […]. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente.” [6]

La Biblioteca di Borges è eterna, perché è infinita. Attraverso un paradigma finito Borges evidenzia la possibilità di creare infiniti testi, ma se sintagma e paradigma sono finiti, come si genera l’infinito? Resterà qualche libro non scritto o non letto? E ancora: è ammissibile un parallelismo con il sistema linguistico che, attraverso un insieme finito di elementi – base e con un numero finito di regole sintattiche per ciascuna lingua, è in grado potenzialmente di dare luogo ad infiniti segni linguistici diversi? [7]

“A ciascuna parete di ciascun esagono corrispondono cinque scaffali; ciascuno scaffale contiene trentadue libri […]; ciascun libro è di quattrocentodieci pagine; ciascuna pagina di quaranta righe; ciascuna riga di quaranta lettere.” [8]

In realtà, se si avrà il numero di selezioni da combinare, il numero dei libri sarà enorme, ma non infinito.
In più non tutte le combinazioni prodotte sono testi in senso proprio, poiché solo le combinazioni valide consentono di far accettare la loro utilizzabilità e tra queste non possono rientrare elenchi e ripetizioni che non hanno un senso testuale.
E se l’intento di Hjelmslev era quello di mostrare il sistema potenziale generatore di tutti i testi possibili, produrre una teoria linguistica di applicabilità generale, il chiaro intento di Borges è quello di espletare tutte le potenzialità del sistema, dispiegare ed esaurire quest’ultimo in tutte le sue possibilità, per conferire il senso di infinità e chiusura del sistema-Biblioteca Universale. Proprio come, vedi sopra, si farebbe con un repertorio di segnali.
In tutto questo, però, non c’è spazio per il non-detto, per l’interpretazione, per la creatività umana. Quale la soluzione? Smettere di scrivere libri, poiché tutto è già stato scritto, tutto è già stato detto, non c’è nulla di nuovo da aspettarsi, nulla di inatteso può avvenire nei testi?
Riguardo le emozioni che il testo suscita nel lettore, Roland Barthes ( 1915 – 1980 ) osserva che, se alla domanda « cosa conosciamo del/dal testo ?» la semiologia è riuscita a dare risposte convincenti, la stessa cosa non è però accaduta per l'altra domanda fondamentale: «che cosa godiamo nel testo ?» Si tratta dunque, nelle parole dello stesso Barthes, di «riaffermare il piacere del testo contro l'indifferenza scientifica e il puritanesimo dell'analisi sociologica, contro l'appiattimento della letteratura a un suo semplice apprezzamento». [9]

Un testo, ne consegue, non può essere in alcun modo una combinazione di selezioni, poiché in essa non c’è spazio per gli effetti di senso del testo stesso.
Lo Schema Narrativo Canonico di Greimas descrive la struttura generale del testo al livello semio-narrativo di superficie. Esso prevede quattro fasi:
1. Manipolazione: il Destinante convince il Soggetto della storia circa l’opportunità di svolgere un determinato programma narrativo
2. Competenza: il Soggetto si dota delle competenze necessarie allo svolgimento del Programma Narrativo ( saper-fare, dover-fare, voler-fare, poter-fare );
3. Perfomanza: l’azione del soggetto che modifica gli stati di cose ( attuazione del Programma Narrativo );
4. Sanzione: il Destinante giudica se l’opera compiuta dal Soggetto è conforme al contratto iniziale.
Lo stesso Greimas tuttavia ha affermato, nella sua Introduzione a Courtés (1979, p. 6 ), che ridurre il testo letterario alle strutture semio-narrative avrebbe costituito un impoverimento estremo ed inopportuno dell’oggetto.
Nel 1991 Fontanille pubblica, assieme a Greimas, un volume in cui, a seguito di perfezionamenti dello Schema Narrativo canonico, si aggiunge uno Schema Passionale Canonico, parallelo al primo, in cui si riassumono i “modi di esistenza del Soggetto passionale” che portano ad un “estendersi” della sensibilizzazione del Soggetto. Essi sono: costituzione, disposizione, patemizzazione, emozione e moralizzazione; la loro esistenza sta quasi ad indicare la presa di coscienza, da parte dell’autore, dell’insufficienza dello Schema Narrativo Canonico per la descrizione di un testo.
D’altronde lo stesso Greimas, nel Dizionario del 1979 pubblicato assieme a Courtés, alla voce comunicazione fa corrispondere un’aspra critica alla tassonomia delle funzioni linguistiche di Roman Jakobson ( 1960 ), criticabile perché tiene conto solo del fare informativo e non del fare persuasivo e interpretativo della comunicazione. A rendere però lo schema jakobsoniano insoddisfacente è soprattutto l’assenza della “manipolazione”.
La semiotica e l’antropologia strutturali sostituiscono, all’idea del linguaggio e della cultura come comunicazione, l’idea del linguaggio e della comunicazione come produzione di senso, di significazione (da qui la sostanziale differenza tra comunicazione e significazione). Il modello comunicativo di Jakobson, invece, tende a rendere iperintenzionale la significazione: il modello semio-antropologico vede la cultura soprattutto come un’orchestrazione di processi vitali, come autorganizzazione di sistemi di significazione.
Nella combinazione di selezioni non c’è spazio, quindi, per la creatività tipica dell’uomo, una delle spinte motivazionali più importanti alla formulazione di testi e discorsi, non c’è spazio per il non-detto. Si sceglie sempre molto accuratamente cosa dire e come dirlo: il processo interpretativo di un testo, infatti, inizia quando si fa entrare in gioco la possibilità del non-detto, della menzogna.
Se non ci fosse spazio per tutte queste cose, che piacere si avrebbe nel leggere un testo?
Magistrale risulta in tal senso l’intervento dello studioso Barthes, che in Il piacere del testo ( 1973 ), così recita:

“Sembra che gli eruditi arabi, parlando del testo, usino questa stupenda espressione: “il corpo certo”. […] Il testo ha una forma umana, è una figura, un anagramma del corpo? Sì, ma del corpo erotico.
Il piacere del testo sarebbe irriducibile al suo funzionamento grammaticale (feno-testuale) come il piacere del corpo è irriducibile al bisogno fisiologico. Il piacere del testo è quando il mio corpo va dietro alle proprie idee- il mio corpo infatti non ha le mie stesse idee.” [10]

Barthes, attraverso la differenza tra testo di piacere e testo di godimento, sviluppa l’idea e l’importanza dell’elemento creativo come generatore di piacere e godimento della lettura, che si estrinseca nell’accurata scelta formale (stilistica) di lasciare spazi di intermittenza, spazi di transizione con il non-detto:

“La parte più erotica di un corpo non è forse dove l’abito si dischiude? Nella perversione (che è il regime del piacere testuale) non ci sono zone <<>> […]; è l’intermittenza, come ha ben detto la psicanalisi, che è erotica […], la messinscena di un’apparizione-sparizione.” [11]

E ancora:

“Il piacere della lettura deriva evidentemente da certe rotture (o da certe collisioni): codici antipatici (per esempio, il nobile e il volgare) entrano in contatto[…]. Come dice la teoria del testo: la lingua viene ridistribuita. Ora questa ridistribuzione si fa sempre per frattura. Vengono tracciati due bordi: un bordo prudente, conforme, plagiario (si tratta di copiare la lingua nel suo stato canonico, quale è stato stabilito dalla scuola, le buone maniere, la letteratura, la cultura), e un altro bordo, mobile, vuoto (atto a prendere qualunque contorno) che non è altro se non il luogo del proprio effetto: […]. Questi due bordi, il compromesso che essi mettono in scena, sono necessari. Né la cultura né la sua distribuzione sono erotiche; è la crepa fra l’una e l’altra che lo diventa.” [12]


L’interrogativo, a questo punto, è quanto mai lecito:
L’assunto che il testo sia una combinazione (tra le tante possibili) di selezioni (tra le tante possibili) induce a chiedersi quali siano le altre possibilità non incluse nella selezione che presiede la formulazione di un dato testo e la motivazione della necessità di una scelta.

“ […] in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure […].” [13]

Il discorso, lungi dall’essere completamente libero come spesso si suole credere, è soggetto a limitazioni e restrizioni che la società stessa in cui viviamo impone; la parte più tagliente del linguaggio è che con esso si può dire qualunque cosa, ma l’uomo che vive in una società non è libero di fare e dire qualunque cosa. Sono necessarie, pertanto, delle procedure di controllo che limitino i discorsi, e soprattutto, i discorsi in quanto azioni [14]. I sistemi di controllo dei discorsi, però, non tolgono valore a questi ultimi, ma rendono onore ai discorsi proferiti. Le procedure a cui si riferisce Foucault sono le procedure d’esclusione di cui la prima è l’interdetto:

“Si sa bene che non si ha il diritto di dir tutto, che non si può parlare di tutto in qualsiasi circostanza, che chiunque, insomma, non può parlare di qualunque cosa. Tabù dell’oggetto, rituale della circostanza, diritto privilegiato o esclusivo del soggetto che parla: si ha qui il gioco di tre tipi di interdetto[…]” [15]

Le possibilità non incluse sono tutte quelle dello scibile umano che non siano già state date e tutte quelle che non rispettavano criteri di coerenza e coesione al testo dato.
Tutte le possibilità che non seguono il principio di non – contraddizione al testo sono escluse dal testo stesso.
La necessità di una scelta, invece, segue dei principi di ordine sociale: le regole proprie e peculiari di ogni diversa società rendono le censure che il soggetto opera interne al soggetto stesso.

Assieme all’interdetto Foucault riconosce altre due procedure d’esclusione: l’opposizione tra ragione e follia e, ultima ma di non minore importanza, l’opposizione del vero e del falso. Vi sono allora argomenti (come la sessualità o la politica) di cui si parla con più reticenza e situazioni di discorso che, di volta in volta, alterano il piano del significato dei discorsi stessi (il rituale, la parola di un folle, l’ironia di un pagliaccio).
Lo stesso rapporto si ha con il visivo:

“La parte più erotica di un corpo non è forse dove l’abito si dischiude? Nella perversione (che è il regime del piacere testuale) non ci sono "zone" […]; è l’intermittenza, come ha ben detto la psicanalisi, che è erotica […], la messinscena di un’apparizione-sparizione.” [16]

Il godimento che si prova nel leggere un testo che svela (o che lascia ad intendere) determinate verità scomode o che mette in luce aspetti di cui non spesso si parla è quello impresso da un “testo di godimento”.
La relazione visto-non visto che affiora guardando determinate fotografie origina un’altra species di godimento.
Il godimento sta al limite. Al margine esterno.

“I libri cosiddetti “erotici” […], più che la scena erotica rappresentano la sua attesa, la sua preparazione, la sua crescita; è in questo che sono “eccitanti”; e quando la scena arriva c’è naturalmente delusione, deflazione. In altre parole, sono libri del Desiderio, non del Piacere.” [17]

E ancora:

“Testi di godimento. Il piacere a pezzi; la lingua a pezzi; la cultura a pezzi. Sono perversi in quanto sono fuori di ogni immaginabile finalità – anche quella del piacere […]. Il testo di godimento è assolutamente intransitivo. Pure, la perversione non basta a definire il godimento; è l’estremo della perversione a definirlo: estremo sempre spostato, estremo vuoto, mobile, imprevedibile. Questo estremo garantisce il godimento […]” [ 18]


Le procedure di controllo, però, si applicano anche agli altri campi: nel mondo dell’arte, ad esempio, esse delimitano cosa può essere definito “arte”, e cosa invece non è investito della legittimità di opera d’arte:

“ Un’opera d’arte in senso classificatorio è un artefatto, a un insieme di aspetti del quale è stato conferito lo status di candidato per l’apprezzamento da parte di una persona o di persone che agiscono per conto di una certa istituzione sociale (il mondo dell’arte).” [19]

Ma è sempre la società a stabilirle!
Il “bello ideale” delle opere classiche rispecchiava perfettamente l’idea di “testo di piacere” di Barthes. Sono state le avanguardie (900) a far emergere l’elemento di fastidio, di cambiamento, il non governabile, il godimento anche nell’opera d’arte.
Le prime opere di Pablo Picasso ( 1881 – 1973 ) rispecchiano, in qualche modo, i canoni del realismo accademico del tempo (Ritratto di zia Pepa 1896) (come in un testo di piacere ), mentre le ultime opere ( Colazione sull’erba ispirata all’opera di Manet 1962) non solo si discostano fortemente dalla tradizione accademica ma rivelano l’elemento di disturbo, di intermittenza che caratterizza i testi di godimento ed è rivelatore della presenza e della tipologia delle censure sociali in atto.
Lo stesso è avvenuto, poi, in ambito musicale, laddove la musica del Novecento è differita in vari modi da quella prodotta fino alla prima metà dell’Ottocento .
Nel Settecento il primo tempo della Sonata era scritta in “forma sonata”, modello che imponeva limitazioni a livello minimo (unità melodica minima), ad un livello più ampio di struttura (frase melodica), ed ad un livello ancora più generale (esposizione, sviluppo e ripresa ). Le limitazioni strutturali di questa forma musicale ne decretarono, dalla seconda metà dell’Ottocento, un decadimento progressivo. Era come se la forma sonata avesse esaurito le sue possibilità creative e fosse diventata elemento di restrizione e vincolo limitativo più che di indirizzamento, in parte come avveniva per le procedure di controllo dei discorsi in Foucault. Nel Novecento, infine, i canoni classici si rompono e si passa alla forma musicale libera e alle sperimentazioni musicali di Shonberg ( 1874 – 1951 ) e George Antheil ( 1900 – 1959 ) (Ballet mechanique 1936).
Ecco anche perché dal Novecento è possibile un parallelismo di studio tra musica e linguistica.


Già Ferdinend de Saussure aveva piena consapevolezza della dimensione sociale dei fatti di significazione; la socio-semiotica aggiunge poi, la possibilità di una branca specifica della semiotica strutturale: un'analisi del "discorso cognitivo" attraverso il quale si effettuano numerosissime operazioni persuasive.

I testi non sono combinazioni di selezioni, non vi sono “ricette per scrivere testi”; esistono invece Grammatiche a cui poter fare riferimento per “imparare ad usare il sistema lingua” con cui poi, in virtù delle nostre facoltà, delle nostre conoscenze, poiché “siamo soltanto uomini” [20], scriveremo testi. Che piacere si avrebbe altrimenti nel leggere un libro? Soltanto gli uomini possono godere della lettura di un testo, o dell’ascolto di un discorso, in quanto esseri “sociali” ed “interpretanti”: esposti pertanto a regole e censure ed in grado di manipolare, comprendere e percepire il non-detto (lasciato ad intendere) di un discorso.






[1] Pozzato (2001) p. 55.

[2] Propp (1928).

[3] Pozzato (2001) p. 232.

[4] ivi, p. 145.

[5] Borges (1956).

[6] ivi, p. 69.

[7] De Mauro (2008) p. 5.

[8] Borges (1956) p. 70.

[9] Pozzato (2001).

[10] Barthes (1973) p. 16.

[11] ivi, p. 9.

[12] Sade, in Barthes (1973) p. 6

[13] Foucault (1971) p. 4

[14] vedi Benveniste (1966).

[15] Foucault (1971) p. 5.

[16] Barthes (1973) p. 9.

[17] ivi, p. 57.

[18] ivi, p. 51.

[19] Dickie (1974) p. 34.

[20] vedi Buzan (2003).







Bibliografia
Aa. Vv.

Barthes, R.

1973 Le plausi du texte, Seuil, Paris [ tr. It. Il piacere del testo, Einaudi, Torino 1975].

Foucault, M.

1971 L’ordre du discours, Gallimard, Paris [tr. It. L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 2004].

Pozzato, M, P.

2001 Semiotica del testo. Metodi, autori, esempi, Carocci, Roma.

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1956 Ficciones, Emecé, Buenos Aires [tr. It. Finzioni, Einaudi, Torino 1995]

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Allorto, R.

1989 Nuova storia della musica, ricordi, Roma.

Miriam Comito

giovedì 9 settembre 2010

Michel Foucault: L'ordine del discordo.
Di Fabrizia Laratta


L'ordine del discorso è il testo della lezione inaugurale al Collège de France, letta nel 1970.
Foucault con tale testo intende realizzare 3 obbiettivi:
-Rimettere in questione la nostra volontà di verità;
-Restituire al discorso il suo carattere di evento;
-Togliere via la sovranità del significante;
La sua riflessione parte dall'inquietudine di iniziare un discorso, inquietudine nei confronti di ciò che il discorso è nella sua materiale realtà pronunciata e scritta, inquietudine nell'avvertire dietro a questa attività dei poteri e pericoli che si immaginano a stento. E' evidente che il suo maggior quesito sia: Dov'è il pericolo nei discorsi?
Partendo dalla supposizione che in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo di procedure inizia quindi ad analizzarle.
In primo luogo parte dalle procedure d' esclusione. La più evidente è quella dell' interdetto. Si sa bene che non si ha il diritto di dire tutto, che chiunque non può parlare di qualsiasi cosa. Oggi, ad esempio, le regioni in cui l' interdetto è più forte sono quelle della sessualità e della politica come se il discorso fosse uno dei siti in cui esse esercitano il loro temibile potere. Questo perché il discorso non è semplicemente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò per cui, attraverso cui si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi.
Esiste un' altro principio d'esclusione ovvero la partizione, come quella tra ragione e follia. Dal Medioevo il folle è colui il cui discorso non può circolare come quello degli altri: capita che la sua parola non venga considerata, che venga ritenuta nulla e senza effetto e che non abbia capacità giuridica; ma capita anche che le si attribuiscano strani poteri come quello di dire verità nascoste o di annunciare l' avvenire. La follia del folle si riconosceva attraverso le sue parole; esse erano il luogo in cui si compiva la partizione; ma non erano mai accolte né ascoltate.
Oggi si crede che tutta questa partizione sia finita perché noi cerchiamo un senso nelle sue parole, ma tutta questa attenzione odierna sul folle ci deve indurre a capire che oggi la partizione agisce secondo linee diverse, attraverso nuove istituzioni.
La terza procedura d' esclusione è la volontà di verità. La questione tra il vero e il falso e la partizione data dalla volontà di verità esiste sin dai poeti greci: il discorso vero, all' epoca, era quello pronunciato da chi di diritto, era quello per cui si aveva rispetto e terrore. Era il discorso che diceva la giustizia e attribuiva a ciascuno la sua parte; era il discorso che profetizzava il futuro e che contribuiva alla sua realizzazione. Era il discorso che regnava e a cui tutti dovevano sottomettersi. Ma un secolo più tardi la più alta verità non risiedeva più in ciò che il discorso ''era'' o ''faceva'', bensì in ciò che esso ''diceva''. Con Platone il discorso non è più legato al potere, si è stabilita pertanto una partizione che ha separato il discorso vero e il discorso falso. Questa partizione storica ha dato senza dubbio la forma generale che le è propria alla nostra volontà di sapere; con il passare del tempo poi le grandi mutazioni scientifiche possono essere lette anche come l'apparizione di nuove forme nella volontà di verità.
Ora questa volontà di sapere, come gli altri sistemi d'esclusione, poggia su di un supporto istituzionale ed è riconfermata e rinforzata da pratiche come la pedagogia, come il sistema dei libri, dell'editoria, delle biblioteche.
Le procedure di controllo finora analizzate possiamo dire che si esercitano in qualche modo dall'esterno, esse si riferiscono alla parte del discorso che mette in gioco il potere e il desiderio.
Passiamo ora ad un secondo gruppo: le procedure di limitazione. Esso è costituito da procedure interne, cioè quelle esercitate sul discorso stesso per classificare, ordinare, padroneggiare la dimensione del discorso come evento. In primo luogo possiamo parlare del commento: in ogni società esistono narrazioni salienti, che si raccontano più volte, si ripetono, si fanno variare. Esistono quindi discorsi che ''si dicono'' col trascorrere dei giorni, i discorsi che sono all' origine di atti nuovi, di parole e che vengono trasformati, ripresi ma che al di là della loro forma rimangono discorsi ''detti'' e che nella nostra società sono i testi religiosi o quelli giuridici.
Una sola e stessa opera può dar vita a tipi diversi di discorso, un esempio può essere l'Odissea che come testo primario è stata poi ripetuta nella traduzione di Bérard, nell' Ulisse di Joyce. In generale un commento crea una sfasatura tra il primo e il discorso testo che svolge due ruoli che sono solidali. Da una parte esso consente di costruire nuovi discorsi; dall'altra ha come unico ruolo quello di dire come infine ciò che era silenziosamente articolato laggiù. In pratica il commento deve dire per la prima volta ciò che era già stato detto e ripetere ciò che non era mai stato detto. Il nuovo non è in ciò che è stato detto, ma nell'evento del suo ritorno.
Un altro principio di rarefazione del discorso è l'autore. L'autore non deve essere considerato come l'individuo parlante che ha scritto o pronunciato un testo, ma deve essere inteso come principio di raggruppamento dei discorsi, come fulcro della loro coerenza. D' altronde esistono dei discorsi che circolano senza che detengano il loro senso o efficacia da un autore cui sarebbero attribuiti: parole quotidiane, decreti o contratti che non hanno bisogno di essere firmati, ricette tecniche che si trasmettono nell'anonimato. Ma in alcuni casi l'attribuzione di un testo ad un autore è una regola; come, ad esempio, avveniva nel Medioevo in quanto considerata una regola indispensabile poiché costituiva un indice di verità. Sostanzialmente potremmo definire l'autore come colui che dà all'inquietante linguaggio della finzione le unità, i nodi di coerenza, l'inserzione nel reale. Mentre quindi il commento, precedentemente analizzato, limitava il caso del discorso col gioco di un'identità che ha la forma della ripetizione e dello stesso; il principio dell'autore limita il caso del discorso col gioco di un'identità che ha la forma dell'individualità e dell' io.
Un altro principio di limitazione da riconoscere è quello riguardante le discipline. Tale principio si oppone tanto al commento quanto all'autore. A quello dell'autore perché una disciplina viene definita da un campo d'oggetti, da un insieme di metodi, tecniche e strumenti. Tutto ciò costituisce un sistema anonimo non legato ad un'individualità. Si oppone al commento perché ciò che si suppone in partenza in una disciplina non è un senso che deve essere riscoperto, bensì ciò che è richiesto per la costruzione di nuovi enunciati.
Naturalmente una disciplina non è da considerarsi come la somma di tutto ciò che può esser detto di vero a proposito di qualcosa. Ad esempio la medicina non è costituita dal totale di ciò che si può dire di vero su di una malattia. In primo luogo perché le discipline sono fatte tanto di errori quanto di verità e poi è necessario che affinché una proposizione appartenga ad una disciplina risponda a dei requisiti: deve rivolgersi ad un piano d'oggetti determinato, possedere un uso di strumenti concettuali o tecnici ben definiti, iscriversi in un orizzonte teorico.
La disciplina è una procedura di controllo del discorso in quanto fissa dei limiti col gioco di un'identità che ha la forma di una permanente riattualizzazione delle regole.
Esiste un terzo gruppo di procedure di controllo che consentono il discorso, si tratta di quelle procedure che colpiscono le condizioni di messa in opera dei discorsi, di imporre agli individui che li tengono un certo numero di regole; si tratta di rarefazione dei soggetti parlanti. Non tutti gli individui possono penetrare in tutte le regioni del discorso: alcune sono saldamente difese, altre sono aperte e a disposizione di ogni soggetto parlante. Un primo esempio di queste procedure è il rituale. Il rituale è la forma più superficiale e più visibile a questi sistemi di restrizione; esso definisce la qualificazione che devono possedere gli individui che parlano, definisce i gesti, i comportamenti, le circostanze e tutto l'insieme di segni che devono accompagnare il discorso e fissa l'efficacia delle parole, il loro effetto su coloro cui sono rivolte. Un esempio di ciò possono essere i discorsi religiosi, giudiziari, terapeutici.
Di funzionamento diverso sono le ''società di discorso'' che hanno la funzione di conservare o proteggere dei discorsi, per farli circolare in spazi chiusi secondo regole strette. In passato se ne occupavano i rapsodi che possedevano la conoscenza dei poemi da recitare, o da variare e trasformare; questa conoscenza era protetta e difesa, in un determinato gruppo, dagli esercizi mnemonici; l'apprendimento faceva entrare in gruppo e in un segreto che la recitazione manifestava ma non divulgava; tra la parola e l' ascolto i ruoli non erano permutabili.
Oggi la situazione è ben diversa anche se esistono ancora figure che funzionano con modalità di divulgazione e secondo un regime di esclusioni: si pensi al segretario tecnico o scientifico, si pensi a coloro che si sono appropriati il discorso economico o politico.
Un'altra procedura sono le dottrine che costituiscono l'opposto delle società di discorso. La dottrina tende a diffondersi con il desiderio di reciproca appartenenza. La sola condizione richiesta è il riconoscimento delle stesse verità e l'accettazione di una serie di regole. Ora l'appartenenza dottrinale mette in causa sia il soggetto parlante attraverso e a partire dall'enunciato, un esempio può essere l'eresia; sia mette in causa l'enunciato attraverso e a partire dal soggetto parlante poiché gli enunciati dottrinali sono sempre il segno di una volontà di appartenenza di individui. Infine dobbiamo riconoscere un altro principio che è l'appropriazione sociale dei discorsi. L'educazione permette ad ogni individuo di accedere a qualsiasi tipo di discorso; ma si sa anche segue nella sua distribuzione, in ciò che permette e in ciò che vieta, e alimenta le distanze tra le classi sociali.
Ogni sistema di educazione è un modo politico di mantenere o di modificare l'appropriazione dei discorsi, con i saperi ed i poteri ch'essi comportano. L’autore poi parla di elisione della realtà del discorso nel pensiero filosofico attraverso alcuni temi, quali:
-il soggetto fondatore: incaricato di animare le forme vuote della lingua;
-esperienza originaria: il discorso esiste già nelle cose ed esprime il suo senso, quindi è il linguaggio che deve parlare di qualcosa che già esiste;
-la mediazione universale: lo scambio continuo dei discorsi non è che un gioco che alla fine, finisce con l’annullare il discorso stesso. Sembrerebbe che in tutto questo lavoro si mettesse al centro dell’attenzione il discorso stesso, invece si finisce con il valorizzare il discorso già tenuto che è diventato “evento”. Alla fine di questa sua lezione sull’ordine del discorso, Foucault sostiene che per poter rimettere in discussione la nostra volontà di verità, per definire il discorso come evento, per togliere via la sovranità del significante bisogna applicare alcuni principi guida:
-principio di rovesciamento: l’autore, la disciplina, la volontà di verità che secondo la tradizione, sono la scaturigine del discorso, producono invece la rarefazione del discorso.
-principio di discontinuità: il fatto che ci siano sistemi di rarefazione non significa che vi è un discorso sotterraneo che non è venuto alla luce. I discorsi sono pratiche “discontinue”: si incrociano, si affiancano ma anche si ignorano e si escludono.
-principio di specificità: il discorso non è un gioco di significati precostituiti ma è una pratica che imponiamo alle cose.
-principio dell’esteriorità: dal discorso bisogna partire non per andare verso il suo nucleo interno ma verso le sue condizioni esterne di possibilità.

lunedì 6 settembre 2010

Relazione a cura di Denise Di Matteo

Il potere delle parole:

L’esercizio del potere,soprattutto nella società moderna, è sempre più raggiunto attraverso il linguaggio. Le parole incidono sulla realtà, la modificano. Il linguaggio è un fenomeno sociale che ha degli effetti sulla società,quindi va anche considerato come azione semantico-persuasiva. Ad interessarsi di questo argomento è anche Michel Foucault il quale nel discorso inaugurale del College de France, tenta di spiegarci come nella nostra società vengano esercitati poteri di controllo nei confronti del discorso in particolar modo da parte delle autorità. L'ipotesi che egli avanza è la seguente: “suppongo che in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurare i poteri e i pericoli, di padroneggiare l'evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità”.

A partire da qui individua e cerca di analizzare le modalità in cui le varie autorità controllano la produzione testuale e nello specifico individua tre differenti categorie: le procedure d’esclusione, le procedure d’ordinamento-limitazione e le procedure che determinano regole d’accesso al discorso. Per quanto riguarda le procedure d’esclusione, egli ne riconosce tre:

· L’interdizione;

· La partizione della follia;

· La volontà di verità;

L’interdizione si riferisce alla censura e all’autocensura; come sappiamo nella nostra società non si può parlare di qualsiasi cosa e le regioni in cui l’interdetto è più fitto sono la sessualità e la politica; per quanto riguarda la partizione della follia essa fa riferimento ai discorsi dei folli ritenuti irrilevanti; Il terzo tipo di procedura di esclusione è la volontà di verità. Nella Grecia del VI secolo il discorso vero era quello pronunciato da chi si occupava di giustizia ed era il discorso di chi regnava e cui tutti dovevano sottomettersi. Con gli anni la verità non risiedeva più in quel che il discorso era ma nell’enunciato stesso,in ciò che esso diceva. Le procedure di controllo citate fin’ora sono quelle che agiscono dall’esterno e riguardano la parte del discorso che mette in gioco il potere e il desiderio, ma Foucault ci parla anche di procedure interne cioè esercitate dal discorso stesso per classificare, ordinare, padroneggiare la dimensione del discorso come evento. Abbiamo perciò il commento il quale da una parte ci dice ciò che era stato già detto,e dall’altra da vita ad un nuovo discorso. Esso dunque crea una sfasatura tra il testo originale e quello ripetuto. Poi abbiamo la limitazione da parte dell’autore,dobbiamo però specificare che cosa intende Foucault per autore:per lui l’autore non è l’individuo parlante che ha scritto o pronunciato il testo, ma un principio di raggruppamento dei discorsi. L’autore da al testo ordine ed unità.

Infine abbiamo il terzo tipo di procedura che appartiene alle discipline:la disciplina rappresenta un principio di limitazione perché è la somma di tutto ciò che può essere vero a proposito di qualcosa.

Esiste poi un terzo gruppo di procedure di controllo, di esso fa parte il rituale che si riferisce alla qualificazione che deve possedere l’individuo parlante e i gesti e i comportamenti che deve attuare.Infine abbiamo l’appropriazione sociale dei discorsi, nello specifico l’autore ci parla dell’educazione definendola comelo strumento grazie al quale ogni individuo, in una società come la nostra, può accedere a qualsiasi tipo di discorso”.Infatti in ogni società è proprio attraverso l’insegnamento che si formano i cittadini,quindi un’educazione troppo manipolata dal potere politico formerà una classe politica e sociale con i paraocchi,inconsapevole delle altre possibilità di scelta. Potremmo accostare queste idee di Foucault al concetto di violenza semiotica di cui ci parla Bourdieu,sociologo, ma anche antropologo, filosofo e sostenitore del movimento anti-globalizzazione. Vi è "violenza simbolica" secondo Pierre Bourdieu quando al soggetto vengono imposte le struture mentali attraverso le quali egli percepisce il mondo sia sociale che intellettuale. Si tratta di una violenza dolce che si esercita con la complicità della coscienza di chi la subisce ed è sempre grazie a questa sorta di complicità e di consenso che la violenza o se vogliamo l'ordine si impongono. Infatti noi tutti sappiamo che il consenso è il fatto di essere d' accordo su un qualcosa e per quanto riguarda la nozione di violenza simbolica il consenso si riferisce al codice di comunicazione. La comunicazione avviene sempre tra due o più locutori e fa sì che essi associno lo stesso senso allo stesso segno, e lo stesso segno allo stesso,perciò il linguaggio è un medium di comunicazione; perciò la dominazione all' interno di una società si compie sulla base di un codice comune ovvero sulla base del linguaggio. Secondo lo studioso Fairclough si possono individuare tre tipi di meccanismi di esercizio del potere

tramite consenso che coinvolgono i discorsi e il linguaggio, e che producono un cambiamento e se vogliamo anche un’influenza nel sapere, nelle credenze, nelle relazioni sociali, ecc... Abbiamo innanzi tutto l’adozione di pratiche e discorsi universalmente accettati e seguiti poichè nessuna alternativa possibile sembra concepibile, immaginabile; poi abbiamo l’imposizione di pratiche attraverso un esercizio del potere ‘nascosto’ quindi non esplicito; infine abbiamo l’adozione di pratiche che vengono adottate attraverso un processo di comunicazione razionale e di dibattito quindi stiamo parlando dell’atto stesso di comunicare.

Questi tre meccanismi sono tutti esercitati nella società contemporanea ed inculcano nelle persone delle categorie di percezione, di apprezzamento, di valutazione, e allo stesso tempo dei principi di azione sui quali si basano le azioni e gli ordini simbolici. Nelle nostre società la violenza simbolica di cui ci parla Bourdieu viene messa in atto in particolar modo dal sistema scolastico;difatti è sui ragazzi che, con l'arbitrio culturale imposto dalla violenza simbolica, si realizza una tacita e invisibile mutilazione della loro coscienza. Il sistema educativo, come altre istanze,(ad esempio le istanze statuali, ecc...) esercita sulle persone che gli sono affidate delle forme di violenza che consistono nell' imporre, per esempio, certe categorie del pensiero.A tal proposito Foucault dice:”La disciplina è il meccanismo di potere con cui riusciamo a controllare gli elementi più sottili del corpo sociale, a raggiungere gli stessi atomi sociali, cioè gli individui. Tecniche di individualizzazione del potere. Come sorvegliare qualcuno, come controllarne la condotta, il comportamento, le attitudini, come intensificare la sua prestazione, moltiplicare le sue capacità, come collocarlo nel posto in cui sarà più utile”. La violenza pedagogica insomma consiste nell' imporre dei saperi, delle conoscenze che si pensano come universali,determinati concetti e persino precise modalità di comportamento. Nelle nostre società il sistema scolastico è uno dei luoghi dove si trasmettono le forme di classificazione, i princìpi classificatori, le tassonomie e i concetti che usiamo per ecc... E queste tassonomie diventano delle strutture mentali attraverso le quali noi percepiamo il mondo intellettuale ma anche il mondo sociale. Questa è la violenza simbolica: vale a dire l'inculcazione di forme mentali, di strutture mentali arbitrarie.

A tal proposito mi sembra opportuno accennare al rapporto tra l’educazione e l’istruzione e i vari regimi totalitaristi. Nei regimi ad essere presa di mira è sempre la scuola o comunque gli enti di istruzione istituzionalizzati in generale;attraverso di essi si cercava di infondere nei giovani determinate idee. Particolari strutture linguistiche vengono messe in atto anche dai vari despoti, basti pensare alle “tecniche” utilizzate per incutere timore e per sottomettere il popolo quali un tono della voce molto fermo ed alto, una postura severa,l’utilizzo di “parole ad effetto”, parole “forti”, ecc... Il potere risiede quindi nel fatto che il portavoce agisce su altri agenti attraverso le parole, ma egli ha bisogno della collaborazione di coloro che esso governa e questa collaborazione viene la si ottiene attraverso le istituzioni sociali che hanno la capacità di produrre complicità. Inoltre occorre dire che ciò che caratterizza il rapporto del discorso con le relazioni di potere è il suo essere opaco. Ovvero, non è così chiaro che nel processo di mediazione, di comunicazione, si da vita all’esercizio di potere. Quest’ultimo è sempre un potere “nascosto” in quanto non reso esplicito, di cui la maggior parte delle persone non sono consapevoli. A tal proposito Pierre Bourdieu affermava:“è perché i soggetti […] non sanno cosa stanno facendo, quel che fanno ha più significato di quanto sanno”. Questa opacità, questo essere nascosto lo riscontriamo anche nei media: chi narra l’evento può omettere o evidenziare un aspetto piuttosto che un altro, può lasciare ad intendere piuttosto che dichiarare esplicitamente le relazioni tra oggetti, fatti e persone, ecc...

Concludo questa mia relazione con una citazione di Reboul: “Come per la magia, le parole non hanno un senso, hanno un potere; un potere che è inversamente proporzionale al loro senso.”

Passando sul cadavere dello scrittore

Roland Barthes ha dedicato buona parte delle sue opere alla scrittura e insieme ad essa all’immagine dello scrittore.
Susan Sontag ,come riportato ne “La Stampa-Tutto libri” ,scrive :


Barthes fa della scrittura una forma di coscienza idealmente complessa: un modo
di essere allo stesso tempo passivi e attivi,sociali e asociali,presenti e assenti nella propria vita.

Ne “Il piacere del testo” è menzionato l’autore, la cui istituzione sarebbe morta in quanto è il testo ,questo oggetto feticcio che mi desidera, a scegliere l’autore che in qualche modo si perde sempre in mezzo ad esso. Espressione quella del “feticcio che mi desidera” che quasi ben racchiude la storia del termine. In antropologia feticismo rimanda ad un oggetto o manufatto che si ritiene abitato da una forza,da uno spirito. In psicologia,indica la tendenza o condotta sessuale in cui l’interesse erotico del soggetto si concentra su una parte del corpo o dell’abbigliamento femminile[1]. In Barthes, non è più la sua persona ad esercitare la paternità sull’opera. Il testo si muove in uno spazio tra piacere e godimento, intriso di un continuo margine di indecisione ,di rottura ,collisione. Per far si che esso non balbetti è necessario che sia frutto di un minimo di nevrosi in grado di sedurre i suoi lettori. La crepa che nasce dal compromesso del linguaggio è l’erotismo a cui Barthes tende,il godimento. E se l’ apprezzamento per Flaubert è sempre presente è proprio perché la rottura da quest’ultimo operata ,pur rendendo disconnessa la narratività ,permette comunque che la storia resti leggibile senza pagare il prezzo della perdita del piacere da parte del lettore, anzi. L’erotismo del vedo non vedo qui si compie, la pelle del testo luccica fra due bordi e il suo scintillio seduce. Non è quindi ,in mancanza di questo momento di lacerazione,la suspense narrativa a costituire il vero piacere,ma una speranza dal gusto edipico, uno svelamento. Dunque l’idea di un testo che prevale sull’autore,quasi fosse pervaso da una qualche forma di spirito,l’erotismo e l’immagine del corpo,tipici del feticcio,sembrano esserci tutti nell’analisi condotta da Barthes. L’autore ignora ciò che può interessare al lettore,non conosce ciò che non verrà letto. Eppure è proprio l’essere in balia di tale imprevisione che ha fatto il piacere di grandi racconti,che conduce la corsa ad ostacoli del lettore col giusto ritmo. Per spiegare meglio il ruolo che gioca il testo nel rapporto tra scrittore e lettore Barthes prende in prestito la frase : L'occhio attraverso cui vedo Dio è lo stesso attraverso cui lui mi vede (Angelo Silesio). In riferimento al testo non esiste,quindi, un soggetto o un oggetto.

Ma di cosa si parla ,di piacere o di godimento? La complessità della relazione tra piacere e godimento non ci permette di arrivare ad una chiara distinzione fra le due parti. È però innegabile che lo stesso Barthes più volte accosta il piacere all’appagamento e il godimento alla perdita, al mancamento. In questi termini lo studioso ricorda che del piacere è possibile parlare,del piacere è possibile criticare. Non lo stesso si può affermare del godimento. Con lo scrittore di godimento(e il suo lettore) ha inizio il testo impossibile,fuori-critica e fuori-piacere,di cui si può parlare solo nel suo stesso modo attraverso un altro testo di godimento. Il piacere del testo è scandaloso perché atopico, se per atopico si rinvia al significato di atopia,ovvero,quello stato allergico che produce reazioni anomale con agenti normalmente innocui. È il suo essere atopico a costituirne la significanza , il superamento del sistema. Sul piacere del testo non è possibile alcuna tesi. Eppure si gaude! Si legge nell’opera barthesiana . Dal sapore quasi galileiano, questa espressione evidenzia come a dispetto di tutto io godo del testo. Nel corso dell’analisi a volte piacere e godimento sembrano completarsi,altre porsi quasi agli antipodi.

A questo punto della discussione ,Barthes ne “Il piacere del testo” fa emergere la figura dello scrittore come una creatura di linguaggio trascinato nella guerra delle parlate,sempre alla deriva; lo paragona addirittura al morto del bridge : necessario allo scontro,ma privo in sé di senso fisso. Nel gioco del bridge il morto è il compagno del dichiarante,un punto cardinale che si limita ad esibire le carte sulla tavola. Lo scrittore tace il godimento insito nella gratuità della scrittura,a volte lo combatte al fine di negarlo, gioca col corpo della lingua materna, può arrivare a sfigurarla,squartarla ,per trarre godimento da un tale sfiguramento .


M’interesso al linguaggio perché mi ferisce o mi seduce (Barthes,Il Piacere del
testo, Einaudi 1999)

Solo il nuovo,il nuovo assoluto,che evita lo stereotipo della novità,turba la coscienza e procura godimento:l’avanzare verso di esso può portare alla distruzione del discorso. Probabilmente anche la ripetizione genererebbe godimento,ma per Barthes non può essere la ripetizione prodotta all’interno della discutibile cultura di massa, che giudica vergognosa, a poter far questo. Quella massa che ha un’unica voce e terribilmente forte.

In questo panorama sottostiamo,forse è il caso di dire, alla frase che per l’autore del Piacere del testo è gerarchica e in quanto tale implica delle soggezioni.


Una sera ,semiaddormentato sul sedile di un bar,cercavo per gioco di censire
tutti i linguaggi che entravano nel mio ascolto:musiche ,conversazioni,rumori di sedie,di bicchieri,tutta una stereofonia,di cui una piazza di Tangeri è il luogo
esemplare. Si parlava anche dentro di me,e questa parola detta interiore somigliava molto al rumore della piazza[…]io stesso ero un luogo pubblico.

(Barthes,Il piacere del testo,Einaudi 1999 ,p.112)


Questo “rumore” di fondo torna ne “Il brusio della lingua” :


L’altra sera, vedendo il film di Antonioni sulla Cina, ho avvertito
improvvisamente, all’apparire di una nuova sequenza, il
brusio della lingua: nella strada di un villaggio alcuni bambini, appoggiati a
un muro, leggevano a voce alta, ciascuno per sé, tutti insieme, un libro diverso; era un brusio ben riuscito, come una macchina che va bene;

Un brusio che ancora una volta nel suo vuoto costituisce l’erotismo in senso lato,uno slancio o una scoperta ,che Barthes avverte nei visi dei bimbi cinesi. Il brusio è quel rumore che funziona,il rumore di un’assenza di rumore,il rumore del godimento plurale. La frase però ,a differenza del discontinuo definitivo che Barthes descrive nel passo ,tratto dal piacere del testo, è qualcosa di compiuto e come si poteva interpretare dal pensiero di Julia Kristeva : ogni enunciato compiuto corre il rischio di essere ideologico (Barthes,Il piacere del testo). Così quando il professore è qualcuno che finisce le sue frasi e il politico intervistato si da un gran da fare per immaginare la giusta fine del suo enunciato, lo scrittore,come affermava Valéry, non pensa parole,ma solo frasi.

È detto scrittore non colui che esprime il proprio pensiero,passione o
immaginazione,con frasi,ma colui che pensa delle frasi :Un
Pensa-Frasi. (Barthes,Il piacere del Testo,1999 p.113)

Lo scrittore appartiene a quella lunga schiera di figure che creano l’artefatto e si fanno gioco di questo oggetto eccezionale di cui la linguistica spiega il paradosso: la frase è immutabilmente strutturata eppure infinitamente rinnovabile.
In S/Z del 1970 Barthes parla di testualità ideale ,partendo dall’analisi della novella Sarrasine di Balzac. Questa viene,infatti, divisa da Barthes in 561 “blocchi di significazione” o lessìe, attraverso i quali sono intrecciati i 93 lessie che costituiscono il commento del medesimo Barthes. Nell’appendice sono poi suggerite alternativi ingressi nel testo e rimontaggi.Si fuoriesce in questo modo dalla struttura fissa delle pagine del libro. Durante questo esperimento linguistico si inciampa nella figura di un lettore sempre meno esclusivamente lettore e sempre più autore/produttore.


questo testo è una galassia di significanti;[…]vi si accede da più entrate di
cui nessuna può essere decretata con certezza la principale;[…] di questo testo assolutamente plurale, i sistemi di senso possono sì impadronirsi, ma il loro
numero non è mai chiuso, misurandosi sull’infinità del linguaggio.

(R. Barthes, S/Z, Seuil, Paris 1964, trad. it. S/Z, Torino Einaudi, 1970,
p. 11.)

Il “divorzio inesorabile” tra lettore e autore,sancito dall’istituzione letteraria, è messo così in crisi dalla pluralità del testo. La possibilità di percorsi alternativi e a l’apertura ad una infinita rete di rimandi e significanti porta alla ribalta la nascita del lettore,distinguendo un testo “leggibile” da un testo”scrivibile”. Il primo rende il lettore mero consumatore,il secondo ne fa un personaggio attivo in grado di realizzare propri processi di significato [3]. Sarebbe qui interessante riflettere sulla proposta offerta da Calvino in “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. Opera sul piacere di leggere ,in cui si persegue il tentativo di far scomparire il fantasma dell’autore anonimo a vantaggio di uno scrittore che gioca abilmente con le trame del racconto,in cui il lettore rimane imbrigliato,per i continui cambi di ritmo.


Ti prepari a riconoscere l’inconfondibile accento dell’autore. No. Non lo
riconosci affatto. Ma, a pensarci bene, chi ha mai detto che questo autore ha un accento inconfondibile? […] Ma poi prosegui e t’accorgi che il libro si fa leggere
comunque, indipendentemente da quel che t’aspettavi dall’autore, è il libro in
sé che t’incuriosisce, anzi a pensarci bene preferisci che sia così, trovarti di fronte a qualcosa che ancora non sai bene cos’è.

Lo studioso distingue,ancora, tra scrivente e scrittore,tra trascrizione e scrittura. Il primo,lo scrivente,è un uomo che Barthes definirebbe transitivo . In balia delle istituzioni egli si pone un fine (testimoniare,svelare,insegnare,spiegare),la parola diventa un mezzo e il significante si pone al servizio del significato. Nella scrittura ,e quindi per lo scrittore ,scrivere è un verbo intransitivo . Non è allora probabilmente un caso che Barthes definisca il testo di godimento assolutamente intransitivo. Al contrario del precario piacere del testo,il godimento è precoce :non arriva mai al momento giusto.

Sin dalle prime opere barthesiane la scrittura tende sempre a liberarsi dalla storia e dal commercio dei segni. Il punto di partenza è la ricerca di una scrittura non-letteraria (o grado zero della scrittura ) ,attraverso la quale la semiologia può denunciare il carattere costruito delle ideologie,dalle quali Barthes cerca di rifuggire. Scrivere è fratturare il mondo e rifarlo. A questo punto si insinua un’importante metodica che differenzia la scrittura dalla parola,dalla voce. La scrittura non può consistere nella trascrizione di una pronuncia,essa,inoltre,non dipende dalla voce ed è distanziata dal pensiero. La scrittura doveva restare attaccata alla lentezza della mano, installarsi in essa. Negli anni successivi , Barthes giunge ad individuare nella nozione di testo il luogo di istituzione e di destituzione. Con il “Piacere del testo “si passa all’eccesso.


[…]la scrittura è sovente (o sempre?) servita a nascondere ciò che le era
affidato.

Ecco di seguito altre definizioni proposte da Barthes in “Variazioni sulla scrittura”:
1) È un gesto manuale ,opposto al gesto vocale[…];
2) È un registro legale di contrassegni indelebili ,destinati a trionfare sul tempo,sull’oblio,sull’errore,sulla menzogna;
3) È una pratica infinita ,nella quale tutto il soggetto è coinvolto,e quest’attività si oppone di conseguenza alla semplice trascrizione dei messaggi […];

Più volte Barthes cita il corpo ,come abbiamo visto,parlando di testo e di scrittura. Nelle “Variazioni sulla scrittura” vi dedica addirittura un paragrafo ,percorrendo le tappe storiche della scrittura in Oriente e Occidente ,perché la relazione alla scrittura è relazione al corpo e passa attraverso il codice della cultura ovviamente diverso tra i due mondi. In Oriente la scrittura è calligrafica,fin dall’origine connessa al disegno cosicché uno stesso gesto accomuna l’artista allo scriba . Un’arte nobile che implicava un controllo psicosomatico.

[…]non conosco della mia scrittura che ciò che so del mio corpo (Barthes
,Variazioni sulla scrittura)

Ciò che riguarda la scrittura è un viaggio continuo,infinito che interessa tanto il lettore quanto lo scrittore.

Ho davanti a me una pagina di manoscritto;qualcosa che […] si chiama lettura si
mette in moto. […] Cosmonauta ,eccomi attraversare mondi e mondi,senza fermarmi a nessuno di essi . […] Dalla parola di chi scrive potrei risalire alla mano,alla
nervatura ,al sangue ,alla pulsione ,alla cultura del corpo, al suo godimento. […] la scrittura-lettura […] impegna l’uomo nella sua interezza ,corpo e storia; […] la sola
definizione certa è che non potrà fermarsi da nessuna parte.



Nell’Enciclopedia Einaudi v. 8°,si legge che per molti secoli l’Occidente ha praticato un metodo di scrittura chiamato retorica,la quale poneva l’accento sulla composizione e sullo stile. Accenno che ritroviamo anche nelle ultime pagine del “Piacere del testo” ,nelle quali Bathes ricorda come nell’antichità la retorica facesse anche uso dell’actio che consisteva in un insieme di ricette atte a permettere l’esternamento corporeo del discorso: L’oratore era anche attore. Con l’avvento della democrazia borghese sembra si sia andati incontro ad nuovo ordine. Non è più importante imparare a scrivere,ma imparare a leggere,decifrare criticamente i testi ,sviluppare un’intelligenza critica. Se un tempo la lettura non si concepiva che ad alta voce ,dal VI secolo in poi cominciò a diffondersi l’uso della lettura silenziosa operata nei monasteri. Si assiste ad una sorta di disincarnazione della lettura che abbandona il corpo e si concede allo spirito. Barthes insinua che il tipo di lettura praticato oggi abbia origini religiose,anzi cristiane. Una sorta di mito la lettura cristiana che scaccia il godimento,al quale si potrebbe ritornare facendo risuonare il testo,sentendolo squillare nella testa. Un punto che ci conduce alla discussione sulla scrittura ad alta voce : Se fosse possibile immaginare un’estetica del piacere testuale,bisognerebbe includervi la scrittura ad alta voce (Barthes,Il piacere del testo,p.126). Una scrittura vocale che non viene praticata mai,ma che per Barthes deve comunque avere importanza visto che cita Artaud. Ovviamente non è descritta la vita dello scrittore,nonché commediografo francese, ma se ci si sofferma sull’importanza che la scrittura ebbe per questi,non stupirà il fatto che venga nominato nel “Piacere del testo”. Per Artaud la scrittura era un ritorno al corpo,un ritorno al proprio io. Un corpo , un io ,il suo,abbattuto dalla malattia e dalle terapie [2] .

Pourquoi j’écris? Pour me libérer, pour m’atteindre (V, 159)

[Perché scrivo? Per liberarmi, per raggiungermi].

Scrive Artaud in una delle sue lettere nel 1932. La parola diventa un mezzo per ri-costruirsi seguendo un percorso apparentemente non lineare,che prevede la frantumazione del linguaggio,proprio come auspicava,in un certo senso, Barthes. Neanche nella scrittura ad alta voce il corpo è abbandonato del tutto. Essa cerca gli incidenti pulsionali,un linguaggio tappezzato di pelle,la stereofonia della carne profonda. Vi si avverte l’articolazione del corpo,della lingua,non più del senso o del linguaggio. La grana della voce, al pari della dizione, diventa materia di un’arte , quella di condurre il proprio corpo.

Carlo Ossola ,nell’introdurre i lavori di Barthes ,sottolinea quanto per millenni la scrittura abbia fatto corpo con la struttura antropologica dell’uomo ,col suo volto,con la sua mano. La mano del pittore,dell’artista,dello scrittore. La mano che oggi percorre veloce i tasti di un computer,per cui scrivere si limita ,spesso,ad un tasto “canc” o “invio”. Una pratica in cui l’errore è rimosso e con esso le tracce del suo vissuto. Per Barthes , sostiene ancora Ossola, la scrittura era irreversibile e in quanto tale persino l’errore che alterava il “supporto” aveva la sua enorme importanza nel percorso del senso. Oggi ,il tutto è assorbito da un calcolatore e nei suoi calcoli l’errore come la riuscita sembrano perdere il loro valore.

[…] ciò che costa ,nella scrittura,è il sollevar la penna. (Barthes,Variazioni
sulla scrittura,pag.52)

È vero che per Barthes lo scrittore è soltanto quell’immenso dizionario cui attinge una scrittura che non può conoscere pause,che l’autore non è mai nient’altro che colui che scrive,e che è il lettore lo spazio pregnante in cui si inscrivono tutte le citazioni di cui è fatta la scrittura [4]. Ma se la vita non fa mai altro che imitare un libro ,l’errore sul “supporto” è l’errore nella vita,ciò che la rende reale,leggendo Ossola,viene quasi da pensare se lo scrittore fatto a pezzi,quello “morto”,non sia poi quello dei nostri giorni.

Anticamente un racconto aveva solo due modi per finire[…]. Il senso ultimo a
cui rimandano tutti i racconti ha due facce :la continuità della vita,l’inevitabilità della morte.

(Calvino,”Se una notte d’inverno un viaggiatore”)



Riferimenti:

[1] “Le garzantine”,Filosofia,Garzanti,2008.

2] “Pol.it”,The italian on-line psychiatric magazine.

[3]”L’ipertesto”,G.Landow,Paolo Ferri.

4] Barthes,”la morte dell’autore” in “Il brusio della lingua”,Einaudi,Torino,1988.

domenica 5 settembre 2010

...In principio era il piacere...il piacere del testo.

"Testo vuol dire tessuto; ma laddove fin qui si è sempre preso questo tessuto per un prodotto, un velo già fatto dietro al quale, più o meno nascosto, sta il senso (la verità) adesso accentuiamo, nel tessuto, l' idea generativa per cui il testo si fa, si lavora attraverso un intreccio perpetuo;sperduto in questo tessuto il soggetto vi si disfa, simile a un ragno che si dissolva da sè nelle secrezioni costruttive della sua tela [...]"

Leggendo queste brevissime righe tratto da "Il piacere del testo" di Roland Barthes, si delinea l' idea di cosa sia il testo per lui; infatti osservando quest' analogia col ragno, si comprende che il testo è e contiene insieme sia il tessuto ( il quale è l' insieme costituito proprio dalle parole strutturate in base alle norme grammaticali della lingua) che la tela del ragno ( parole a disposizione del parlante o dello scrittore).
Un testo può essere sia orale che scritto purchè rispetti determinate condizioni:
  • La comprensibilità ( il testo dev' essere espresso in un codice linguistico noto a chi legge o a chi ascolta);
  • La completezza ( in esso devono essere presenti tutti gli elementi che lo rendano comprensibile);
  • e infine la coerenza ( il contenuto deve essere strutturato secondo un' organizzazione logica di pensiero).
Inoltre ogni testo che sia scritto o orale viene sottoposto a un vero e proprio controllo e selezione intrinsechi nella società, e attuati attraverso una "polizia discorsiva" ( procedure interne o esterne al testo discorsivo con funzione di limitazione dei poteri e dei pericoli intrinsecamente nascosti nell'atto linguistico), ordunque rispondere a una sorta di ordine interno, a delle regole non solo grammaticali ma dettate invece dalle società, dall' ambito, dalle circostanze in cui l' evento testuale o discorsivo si esplica.
Barthes in particolare si ccupa del testo scritto (per meglio dire testo letterario) distinguendone due tipologie ovvero il
testo di piacere e il testo di godimento.
Nella prima tipologia si parla di testo che appaga, soddisfa e dà euforia; il piacere della lettura infatti non è dato esclusivamente dalla correttezza delle forme grammaticali, così come il piacere fisico non è dato solo dal soddisfacimento di un bisogno fisiologico, bensì è frutto dell'aspettativa che le parole riescono a creare nel lettore, dal fatto che qualunque cosa si dica sul piacere ssarà un' introduzione a ciò che non sarà mai scritto.

Il piacere è comunque dicibile, se ne può sempre parlare di un testo che dà piacere attraverso la
critica ( che Barthes definisce come entrata nella perversione dello scrittore osservando di nascosto il suo piacere) o il commento (di cui ne parla Foucault, definendolo come un elemento che consente di dire qualcosa di diverso dal testo stesso, ma a condizione che sia questo stesso testo ad essere detto e in qualche modo compiuto).
Di cosa si tratta quindi?
Semplicemente di discorsi che sono detti,restano detti, e sono ancora da dire.
Nella seconda tipologia invece c'è una sorta di stato di perdita che sconvolge il lettore fino a fargli perdere la consistenza del proprio io, di conseguenza con una caratteristica asociale del godimento, nella quale cc'è una scossa che resta indicibile, interdetta, insostenibile perchè fuori-piacere, fuori-critica, fuori dall' ordinario e cioè atopico, di cui non si può parlare se non con un altro testo di godimento con la stessa modalità di scrittura.
Il godimento è l' eccezione alla regola, la ribellione, la novità, un piacere fatto a pezzi che non arriva al momento giusto nè giunge lentamente alla sua maturazione, bensì una foga che si scatena tutta in una volta, che precede il piacere, fonte da cui quest' ultimo ha origine.
Riguardo la struttura del testo Barthes parla di testo composto da ciò che lui chiama
" immaginari del linguaggio": la parola ( intesa come unità singola grazie al quale c'è la possibilità di esprimere un pensiero), la scrittura (la traslitterazione della parola che Barthes definisce come scienza dei godimenti del linguaggio, e modo in cui le parole vengono distribuite all' interno del testo, la quale si può scrivere seguendo due criteri: conformandosi e seguendo adeguatamente i canoni stabiliti dalla cultura oppure utilizzando un metodo di scrittura mobile pronto a cambiare ed assumere qualsiasi effetto che l'autore voglia dargli,e vedendo così contrapposti due modelli di scrittura nel quale il piacere del testo è dato dalla via di mezzo tra questi due modi di scrivere), e la frase (misura logica di un discorso che quando è compiuta rende compiuto anche il discorso stesso, che Barthes paragona al gioco degli scacchi poichè è immutabile per la sua struttura, ma infinitamente rinnovabile per il suo contenuto).
Tra lo scrittore e il lettore quindi s' instaura un rapporto fondato su ciò che possiamo chiamare desiderio: dalla parte del lettore di sapere e dalla parte dell' autore di comunicare e dare all' inquietante discorso della finzione l' unità e la coerenza tipiche di ciò che è reale.
Un altro aspetto importante che evidenzia Barthes è la suspence narrativa, che paragona ad uno streap- tease corporeo, e il piacere sta proprio nella speranza di conoscere la fine della storia.
Ciò che fa la linguistica moderna, infatti, è trascurare gli aspetti sostanziali o materiali del linguaggio, concentrandosi per di più sul piano della forma prendendo in esame relazioni, strutture o combinazioni), mentre secondo Barthes all' esclusione di questi aspetti sostanziali bisogna aggiungere la negazione di quegli spazi in cui il testo esprime la propria deriva pulsionale e spinta verso il piacere o il godimento, opponendo alla scienza del linguaggio la "scienza dei godimenti del linguaggio", ovvero la scrittura.
Bisogna però saper distinguere ( e sue questo Barthes si cimenta di continuo) nella difficile e necessaria distinzione tra godimento e piacere.
Il piacere è appagamento mentre la jouissance è mancamento, perdita.
Il piacere del testo è l' euforia, la soddisfazione, l' agio, mentre il godimento è la scossa.
Sembra come se per Barthes la scrittura acquisti valore e solidità quando è in grado di produrre fratture e lacerazioni; quando invece si propone come strumento risolutore di ogni contrasto non funziona.
Infatti la scrittura stessa nasce da un bisogno di divisione, la sua natura è prodotto di collisioni, rotture e fratture tramite cui ridistribuire la lingua.
La frattur per Barthes è il luogo della peerdita, in cui il lettore ottiene la percezione del sapere, gode nel disvelare ciò che non è visibile, prolunga la sua lettura senza sapere se raggiungerà una verità.
Il piacere però non è un elemento del testo, non fa parte di esso e non dipende dalla sensazione.
Barthes a riguardo infatti dice che:
"[...] è qualcosa che è insieme rivoluzionario e asociale e non può essere adottato da nessuna collettività e da nessuna mentalità."


Un altro aspetto che osserva Barthes è il fatto che un francese su due non legge, e privandosi della lettura i francesi non solo rinunciano ai canoni del bello ideale e della perfezione spressi dalle civiltà greco-romane ma, cosa più importante, si privano del piacere.
La causa è ideologica: il piacere è precluso tanto dalla morale maggioritaria della piattezza di massa quanto dalla morale d' elìte, dal rigore politico e scientifico.
Dunque, anche se in passato c' era la tendenza ad imitare e valorizzare le opere greche e latine attraverso la lettura e la loro riscoperta, pur avendo precluso il piacere inteso alla maniera di Barthes ( ma non il piacere inteso in altro modo, ad esempio del bello ideale delle civiltà classiche), ci si poteva comunque vantare del fatto che in qualche modo la lettura non era trascurata, anzi valorizzata.
Oggi, invece, il piacere della lettura sembra non attrarre più nessuno.
Forse è troppo difficile da ricercare, rintanato nelle pieghe e nelle intermittenze, "là dove l'abito si schiude", direbbe Barthes: non si legge o si legge male, la nostra società è frigida.
Se leggo un libro devo conciliare il piacere del testo e il testo di piacere, e queste due ambiguità devono provocarmi da un lato un piacere generale, dall' altro un pacere particolare.
Per lo scrittore è importante farsi ascoltare attraverso il suo testo, quello che dice, quello che riesce a creare in un momento particolare e riuscendo a trasmettere qualcosa attraverso la sua opera,per lui è il miglior piacere.
Se non sono particolarmente coinvolta in un testo di piacere, forse può voler dire che non sento niente di quello che ascolto, che ascolto quello che sento.. emozione... illusione... sentimento...turbamento.
Qualcosa che si nasconde dietro una facciata, che vuol dare al godimento una figura fissa.
Ma non bisogna mai credere all' immagine del godimento.
Lo si può riconoscere attraverso un turbamento.
Il godimento può essere considerata saggezza, se mai riuscirà al di fuori dei suoi pregiudizi a comprendersi.
Anche la noia può essere un godimento visto dal piacere; dalla noia non si ci può liberare, non è come un testo noioso che posso allontanare con un gesto.
Se una storia è raccontata in modo corretto, senza ambiguità, posso anche leggerla al contrario ma il piacere del testo rimarrà immutato.
Nel testo che scelgo di leggere, lui sceglie me.
In qualche modo desidero l' autore, sento di avere bisogno di quella figura, e lui in qualche modo ha bisogno della mia.
Il testo mi sceglie.

"Quando l' autore scompare, resta il testo.
E' morto come una persona civile, biografica, ma quello che ha lasciato, resterà.
La paternità di un testo, la sua storia letteraria resteranno come insegnamento."


Questo è Barthes, ora giudicate voi in base alla vostra esperienza personale.
Meditate gente, meditate.
Perchè non c'è niente di più vero di questo.


Elaborato di Sara Manna





mercoledì 1 settembre 2010





“Il desiderio dice: Non vorrei dover io stesso entrare in quest’ordine fortuito del discorso; non vorrei avere che fare con esso in ciò che ha di tagliente e decisivo; vorrei che fosse tutt’intorno a me come una trasparenza calma, profonda, indefinibilmente aperta, in cui gli altri rispondessero alla mia attesa e in cui le verità, ad una ad una, si alzassero; non avrei che da lasciarmi portare, in esso e con esso, come un relitto felice.
E l’istituzione risponde: Non devi aver timore di cominciare; siamo tutti qui per mostrarti che il discorso è nell’ordine delle leggi; che da tempo si vigila sulla sua apparizione; che un posto gli è stato fatto, che lo onora ma lo disarma; e che, se gli capita d’avere un qualche potere, lo detiene in una grazia nostra, e nostra soltanto”.


Questo testo è tratto da “L’ordine del discorso” di Michel Foucault che rappresenta l’inquietudine nell’iniziare un discorso sia questo pronunciato o scritto. Questa nostra paura dipende dal fatto che la materiale esistenza del discorso è destinata a cancellarsi, ma la sua temporalità sfugge purtroppo al nostro controllo. Spesso non si pensa adeguatamente ai poteri dei discorsi, già con i greci del VI secolo il discorso proferito da chi di diritto creava rispetto e terrore, un secolo più tardi invece la verità del discorso si sposta da ciò che era a ciò che diceva, dall’atto ritualizzato verso l’enunciato stesso. Proprio nel periodo d’Esiodo e Platone che si stabilisce la separazione tra il discorso vero e falso; è una nuova spartizione, poiché il sofista è cacciato ed il discorso non è più prezioso e desiderabile poiché non è più legato al potere.
Il termine testo deriva dalla parola latina “textus” che vuole significare intrecciato, tessuto. Il testo a differenza di quanto si pensa è in realtà ogni atto comunicativo in una lingua, è qualsiasi avvenimento che tentiamo di dare interpretazione, questa è uno dei tratti tipici degli esseri umani in quanto semiotici.
Dopo aver raccolto tutti i dati, l’essere uomo s’interroga sul loro significato, noi esercitiamo un’interpretazione quotidianamente, anche se non c’è ne rendiamo conto. Gli umani si chiedono lo scopo sociale, cosa si vuole costruire con gli altri esseri, continuamente durante il giorno diciamo cose affinché gli altri c’interpretino. Ponendo come esempio il modello postale della comunicazione ci rendiamo conto che non vi è interpretazione, il già citato è diviso, infatti, in mittente, messaggio e ricevente, delineando cosi operazioni più destinate ad una macchina che ad un essere umano. Per quanto riguarda gli animali non c’è interpretazione, prendiamo per esempio il gatto se insegue un topo non si mette a riflettere, dubbi potrebbero sorgere nel caso degli scimpanzé che rappresentano un esempio diverso, infatti spesso questi animali vengono linguisticizzati, questo spiega l’azione dell’indicare gli oggetti da parte di questa specie nonostante questo atto sia tipicamente umano ed usato per condividere e comunicare con gli altri. L’atto d’interpretazione degli indizi è un’attività di categorizzazione e di riconoscimento come appartenente ad una classe. L’interpretazione come ho spiegato è qualcosa legato allo stare insieme con gli altri, tornando a parlare dell’esempio dei gatti essi sono divisi in raggruppamenti seriali, non stanno seduti insieme come in una comunità e lo stare insieme tra gli uomini è caratterizzato dal parlarsi. La nostra comunità pensa alle cose in un certo modo, noi accompagniamo le nostre azioni con le parole, osserviamo noi stessi, ci raccontiamo cosa facciamo, ne sono esempio più evidente i bambini che durante la fase del gioco verbalizzano le azioni che compiono. La nostra vita è raccontabile perché noi siamo in grado di raccontarla.
Voglio fare un breve cenno al linguista Ferdinand De Suassure, egli sostiene che il fenomeno linguistico presenta eternamente due facce, la lingua ha un lato individuale e uno sociale e non si può concepire l’uno senza l’altro. La lingua è sia stabile sia in evoluzione. Un segno linguistico è formato da immagine acustica e concetto, il linguista porta l’esempio dell’increspatura che si forma tra aria e acqua, proprio quella rappresenta la lingua. Il legame tra significato e significante è in parte arbitrario, noi intendiamo affermare che è immotivato, vale a dire arbitrario in rapporto al significato, il quale non ha in realtà alcun legame naturale. Ogni modo d’espressione ereditato in una società poggia in linea di principio su un’abitudine collettiva, una convenzione. L’opera di Propp può essere considerata in conformità a ciò che è stato espresso da Suassure un lavoro sincronico, il linguista oltre a tale piano individua quello diacronico quest’ultimo aspetto è legato alla storia e all’evoluzione di una lingua.
Secondo Emile Benveniste "prima dell'enunciazione, la lingua non è che possibilità di lingua" (BENVENISTE, tr.it.1985, 99). Con l'atto dell’enunciazione, la lingua è quindi resa effettiva in un'istanza di discorso emessa da un locutore, in rapporto alla lingua l’enunciazione rappresenta un processo di appropriazione. In ogni enunciazione vi deve essere un destinatario ovvero il “tu”, chi prende la parola indica la propria presenza con il pronome "io". Altri indicatori sono il dimostrativo "questo" e l'avverbio "qui", si riferiscono a oggetti e luoghi dell'enunciazione. Il "tu" è necessariamente legato all'io e non è possibile pensare ad un "tu" senza un "io", l’opposizione tra i due è stata chiamata da Benveniste “correlazione di soggettività”.
Per quanto riguarda il pronome di terza persona, esprime la non-persona, l’io e il tu sono unici e specifici invece la terza persona può riferirsi ad un’infinità di persone o a nessuno.
“Il testo è un tessuto di spazi bianchi, di interstizi da riempire, e chi lo ha emesso prevedeva che essi fossero riempiti e li ha lasciati bianchi per due ragioni. Anzitutto perché il testo è un meccanismo pigro (o economico) che vive sul plusvalore di senso introdottovi dal destinatario […]. In secondo luogo perché, via via che passa dalla funzione didascalica a quella estetica, un testo vuole lasciare al lettore l’iniziativa interpretativa […]. Un testo vuole che qualcuno lo aiuti a funzionare” (Eco, 1979, p. 52). Queste sono parole d’Umberto Eco. Egli considera il testo come una “macchina pigra” e solo grazie alla cooperazione del lettore riesce a realizzarsi pienamente. L’autore del testo attua una serie di strategie per far sì che il suo lettore arrivi a comprendere nel modo più opportuno il significato del testo, questo è chiamato da Eco autore modello. E’ definito invece lettore modello: “un insieme di condizioni di felicità, testualmente stabilmente, che devono essere soddisfatte perché un testo sia pienamente attivo nel suo contenuto potenziale” (ivi, p.62).
Eco divide i testi in aperti e chiusi, il primo citato è aperto ad una pluralità di letture invece il secondo ammette una sola interpretazione. Egli nel “lector fabula” definisce uso e interpretazione, con il primo intende interpretare il testo senza riguardo per ciò che effettivamente dice, al contrario dell’interpretazione che invece rispetta il testo.
“La nota frase dei critici di opere artistiche: questo nella vita non succede, presupponendo che la realtà sia rigidamente limitata dalle leggi della casualità logica, mentre l’arte sia il dominio della libertà. I rapporti fra questi due sono elementi sono molto complessi: l’imprevedibilità dell’arte è allo stesso tempo conseguenza e causa dell’imprevedibilità nella vita”, questo testo è tratto in “cultura e l’esplosione” di Lotman che lega l’imprevedibità dell’arte all’imprevedibilità della vita. Altro aspetto interessante dello stesso autore è il poliglottismo artistico ovvero le influenze reciproche tra le varie arti- esempio, il linguaggio pittorico influenza il teatro, il cinema influenza il romanzo- “Proprio la diversità dei vari principi di assimilazione del mondo rende i diversi aspetti dell’arte reciprocamente indispensabili”.
Tra gli obiettivi del “l’ordine del discorso” vi è quello di volontà di verità, restituire al discorso il suo carattere d’evento, togliere la sovranità al significante. Proprio del primo mi soffermerò a parlare. Ritengo utile ai fini di questo discorso qualche breve cenno su l’opera di Foucault, l’ordine del discorso, è un testo della lezione inaugurale pronunciata il 2 dicembre del 1970 al Collège de France (dove Foucault fu docente). All’ordine del discorso sono affidati dagli esordi a circa tredici anni di ricerca e lavoro svolti sempre all’interno del Collegè che mostrano strumenti e materiali di lavoro e pensiero che inaugurano una nuova dimensione della ricerca.
Il Collegè come detto P. Valery ad un ufficiale tedesco è un luogo “in cui la parola è libera” e “coraggio della verità” proferita davanti al potere, questo segnerà un’avventura straordinaria per Foucault.
La volontà di verità come gli altri sistemi d’esclusione enunciati da Focault poggia sul supporto istituzionale e ciò è senza dubbio riconfermato dal modo in cui il sapere è messo in pratica in una data società (procedura d’esclusione è quello del vero contro falso). La volontà di verità imprigiona i discorsi in una sorta di costrizione e di pressione. Prendendo in considerazione la cultura occidentale per anni ha dovuto riferirsi al naturale, al verosimile per essere considerata vera.
Il discorso del folle (fa parte della procedura d’esclusione) nel medioevo era considerato nullo, senza effetto, non avendo a che fare con la verità e con l’importanza. Al folle visto il modo in cui era trattato la parola era concessa solo simbolicamente, presentava una verità colla maschera come nel teatro. Nella nostra società il discorso del folle non è più considerato nullo, ma ci mette in agguato cercando un senso, quindi nella nostra società agisce secondo nuove istituzioni e creando nuovi effetti. Il discorso del folle è libero, poiché nei nostri discorsi sono mascherati i desideri che la nostra società ci proibisce di manifestare (Freud). La psicoanalisi dimostra, infatti, che il discorso non è solo ciò che si manifesta o nasconde il desiderio, i sistemi di dominazione del potere, ma anche il modo in cui si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi.
Occupandomi di verità voglio accennare ad un pensiero di Roland Barthes espresso nel libro “Il piacere del testo” che trovo rilevante ai fini del mio lavoro e che può essere inserito con l’argomento già trattato qual è il testo. Barthes sostiene un aspetto che spesso non prendiamo in considerazione il fatto che trattiamo le parole come realtà. L’autore pone un parallelismo con S. Freud riferendosi al bambino che è ha conoscenza che la madre non ha il pene, ma nello stesso tempo si convince che n’abbia un coso sono per noi le parole.
Altro testo di Foucault di cui voglio parlare perché utile al mio discorso è “Le parole e le cose”, dove l’autore traccia il filosofo Kant come chi ha realizzato la definitiva chiusura dall’episteme classica e l’emergere di quelle nuove empiricità quali la vita, il lavoro e il linguaggio.
La modernità vuole smitizzare il passato, nell’episteme greco non si trattava di far corrispondere la conoscenza all’oggetto, il contesto empirico aveva valore, ma la conoscenza racchiudeva un altro senso di verità. Platone riteneva che le verità precedessero l’uomo, la verità è eteronoma ed esterna all’essere umano, questo ultimo è nel vero solo se partecipa a tale verità. Si parla di una conoscenza sensibile e di una verità come prodotto del mondo sovrasensibile. Per noi la verità è un prodotto della nostra ragione, Cartesio con il “cogito ergo sum” (penso dunque sono) deduce quasi dal pensiero l’esistenza, la verità non è qualcosa d’esterno a noi ed è controllabile attraverso il cogito.
La modernità segna il passaggio da verità eteronome a verità autonome (orientate verso il soggetto). Per Kant noi ci costruiamo il mondo, abbiamo proprio la capacità concettuale di crearlo, in questo modo è il mondo che si deve adattare a noi. Per il filosofo i concetti senza esperienza sono vuoti, l’esperienza senza i concetti è cieca. Kant compie all’interno della filosofia la cosiddetta rivoluzione copernicana passando da una ragione esterna al soggetto (cosmica per Platone) ad una ragione soggettiva. Kant sostituisce quindi all’idea classica già enunciata una dipendenza dell’oggetto al soggetto, il principio secondo cui è la sintesi a priori rende possibile l’inserimento di un oggetto nel campo della conoscenza. La critica kantiana permette di interrogarci sui limiti e il fondamento della rappresentazione, si pone con il filosofo la questione dei rapporti tra ambito dell’empiricità e il fondamento trascendentale della conoscenza, al quale centro si pone sempre il soggetto che riflette imponendo loro i contenuti e l’esperienza. Come si nota proprio con Kant il soggetto uomo è collocato a fondamento di tutte le positività, diventando partendo proprio dalla sua finitudine, la condizione di possibilità della loro conoscenza.
Kant inaugura la “soglia della modernità” come sostiene Foucault, destinata a restare ancorata all’essere umano, in cui il trascendentale e l’empirico si richiamano e s’invertono.
Il corso del 1970-1971 affronta la posizione del soggetto rispetto alla volontà di sapere correlandolo a quello di verità, Foucault prende in esame due modelli teorici: quello aristotelico e quello nietzcheano. Al primo è attribuibile il “naturale desiderio di conoscere” e una concezione della verità come adaequatio, che sarebbero servite per l’essenziale e rimuovere i “giochi di verità” ovvero un sapere che emerge da rapporti di forza determinati, lotte e interessi…
Da Nietzsche, Foucault deriva l’idea di “falsificazioni concertate”, dal conflitto in cui si affrontano interessi, istinti, istituisce la linea di separazione del vero dal falso.
Foucault si è occupato di “ discorso di verità” sono le istituzioni, i medici, ad avere la competenza di definire il folle, vi sono norme tali che definiscono l’individuo come normale o patologico. La storia della verità pone la separazione tra verità e scienza, tra sapere di verità e di conoscenza.
Il sapere scientifico ha la concezione che la verità è presente ovunque e che nessuno sia particolarmente adeguato a denunciarla, alla sola condizione di sapere individuare il momento giusto e gli strumenti adatti a coglierla. La scienza è legata come si comprende al metodo e dalle sue regole. Weber sostiene che nel sapere vero la mia preposizione deve corrispondere al sapere, al criterio enunciato, l’empirista divide tra saperi di fatto e di valore, solo i primi sono scientifici perché come già detto solo questi corrispondono al vero. La ricerca scientifica non mi dal senso delle cose, infatti, tutto ciò che non è visibile esce dalla ricerca.
Nei corsi che vanno dal 1979 al 1982 Foucault, analizza un altro aspetto che egli lega al problema della verità che è quello del potere pastorale. Nel modello di cui abbiamo parlato sono predisposti alcuni elementi governativi delle anime come forma d’obbedienza pura ciò a differenza del cittadino greco non mira al dominio di se, fa quindi del problema dell’individualizzazione un problema capitale legato a quello della verità. Con Descartes come abbiamo visto prende avvio l’oggettivazione della realtà, ciò che resta della spiritualità sarà incorporato all’interno del pastorato cristiano. La verità presuppone come ritiene Foucault una pratica di questa, l’individuo ha delle procedure che permettono di trasformare il logos in ethos, in altre parole trasformare i discorsi veri in principio di comportamento morale.
Alessandra Pellegrino