I discorsi sorvegliati.
Il controllo della “polizia” discorsiva.
di Annabella Muraca
Il controllo della “polizia” discorsiva.
di Annabella Muraca
I discorsi non proliferano liberamente ma sono sottoposti, attraverso procedure e meccanismi specifici, a controlli e limitazioni.
Questo tema è trattato da Foucault nel discorso inaugurale del suo corso al College de France negli anni ’70, in cui tratta, anche, della potenza degli enunciati imprevisti e dei metodi che, nel corso della storia, sono stati utilizzati per controllare i discorsi e diminuirne il potere sovversivo.
Alla morte del grande filosofo J.Hyppolite, gli esponenti del Collegio dei Docenti, designano Foucault come suo successore.
La tradizione prevede che il nuovo eletto declami un discorso “classico”, ma Foucault fa una scelta rivoluzionaria e decide di discutere delle caratteristiche e delle norme del discorso dandone, anche, svariati esempi.
Foucault, stabilisce, così, di violare le regole e, infatti, analizzando il testo, si può notare un’assenza d’inizio nel suo discorso, poiché, secondo la sua convinzione, nessuno è primo autore e organizzatore di un discorso ma esiste già una tradizione in cui chi parla deve inserirsi.
Il suo discorso prende, infatti, questa forma:
“Nel discorso che devo oggi tenere e in quelli che mi occorrerà tenere qui, forse per anni, avrei voluto poter insinuarmi surrettiziamente.
Più che prendere la parola, avrei voluto esserne avvolto, e portato ben oltre ogni inizio possibile.
Mi sarebbe piaciuto accorgermi che al momento di parlare una voce senza nome mi precedeva da tempo […]
Inizi, non ce ne saranno dunque: e invece d’essere colui donde viene il discorso, secondo il capriccio del suo svolgimento, sarei piuttosto una sottile lacuna, il punto della sua scomparsa possibile. […]
C’ è in molti, penso, un simile desiderio di ritrovarsi, d’acchito, dall’altra parte del discorso, senza aver dovuto considerare dall’esterno ciò che esso poteva avere di singolare, di temibile, di malefico forse.”
L’autore, solo al termine del suo discorso inaugurale, riesce a comprendere che la voce da cui desiderava essere anticipato e avvolto era quella di J.Hippolite e , infatti, scrive: “Capisco meglio perché avevo tanta difficoltà a cominciare. Ora so bene qual è la voce che avrei voluto mi precedesse, che mi portasse […]
So cosa c’era di tanto temibile nel prendere la parola, poiché la prendevo in questo luogo ove l’ho ascoltato, e ove non c’è più, lui, per intendermi.” (cfr. p.40)
Le tematiche sopra accennate sono state, in seguito, inserite all’interno di un testo abbastanza breve pubblicato, inizialmente, in Francia nel 1971 e, in seguito, nel 1974 con il titolo “L’ordine del discorso”, in Italia dalla casa editrice Einaudi.
La “polizia discorsiva” di cui parla FoucaultQuesto tema è trattato da Foucault nel discorso inaugurale del suo corso al College de France negli anni ’70, in cui tratta, anche, della potenza degli enunciati imprevisti e dei metodi che, nel corso della storia, sono stati utilizzati per controllare i discorsi e diminuirne il potere sovversivo.
Alla morte del grande filosofo J.Hyppolite, gli esponenti del Collegio dei Docenti, designano Foucault come suo successore.
La tradizione prevede che il nuovo eletto declami un discorso “classico”, ma Foucault fa una scelta rivoluzionaria e decide di discutere delle caratteristiche e delle norme del discorso dandone, anche, svariati esempi.
Foucault, stabilisce, così, di violare le regole e, infatti, analizzando il testo, si può notare un’assenza d’inizio nel suo discorso, poiché, secondo la sua convinzione, nessuno è primo autore e organizzatore di un discorso ma esiste già una tradizione in cui chi parla deve inserirsi.
Il suo discorso prende, infatti, questa forma:
“Nel discorso che devo oggi tenere e in quelli che mi occorrerà tenere qui, forse per anni, avrei voluto poter insinuarmi surrettiziamente.
Più che prendere la parola, avrei voluto esserne avvolto, e portato ben oltre ogni inizio possibile.
Mi sarebbe piaciuto accorgermi che al momento di parlare una voce senza nome mi precedeva da tempo […]
Inizi, non ce ne saranno dunque: e invece d’essere colui donde viene il discorso, secondo il capriccio del suo svolgimento, sarei piuttosto una sottile lacuna, il punto della sua scomparsa possibile. […]
C’ è in molti, penso, un simile desiderio di ritrovarsi, d’acchito, dall’altra parte del discorso, senza aver dovuto considerare dall’esterno ciò che esso poteva avere di singolare, di temibile, di malefico forse.”
L’autore, solo al termine del suo discorso inaugurale, riesce a comprendere che la voce da cui desiderava essere anticipato e avvolto era quella di J.Hippolite e , infatti, scrive: “Capisco meglio perché avevo tanta difficoltà a cominciare. Ora so bene qual è la voce che avrei voluto mi precedesse, che mi portasse […]
So cosa c’era di tanto temibile nel prendere la parola, poiché la prendevo in questo luogo ove l’ho ascoltato, e ove non c’è più, lui, per intendermi.” (cfr. p.40)
Le tematiche sopra accennate sono state, in seguito, inserite all’interno di un testo abbastanza breve pubblicato, inizialmente, in Francia nel 1971 e, in seguito, nel 1974 con il titolo “L’ordine del discorso”, in Italia dalla casa editrice Einaudi.
Il testo di Foucault, ancora oggi, è utile poiché ci permette di captare come la “polizia” discorsiva agisce costantemente nei fatti della vita quotidiana.
L’autore, in un passo del testo, inizia a trattare così la tematica della “polizia discorsiva”:
“Ma che c'è dunque di tanto pericoloso nel fatto che la gente parla e che i suoi discorsi proliferano
indefinitamente? Dov'è dunque il pericolo? […]
Si sa bene che non si ha il diritto di dir tutto, che non si può parlare di tutto in qualsiasi circostanza, che chiunque, insomma, non può parlare di qualunque cosa.
Tabù dell’oggetto, rituale della circostanza, diritto privilegiato o esclusivo del soggetto che parla […]
Il discorso non è semplicemente ciò che manifesta il desiderio, il discorso non è semplicemente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò per cui, attraverso cui, si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi” (cfr. p.5).
Il libro di Foucault è, quindi, considerato come una sorta di software utile per analizzare e decifrare i meccanismi di controllo, selezione e distribuzione di quelle procedure che ne depotenziano la materialità.
Per Foucault, però, questo controllo non ha un nucleo ma si muove all’interno di una fitta rete di relazioni che permettono ai discorsi di proliferare, infatti, egli stesso all’interno di un passo sostiene: “suppongo che in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurare i poteri e i pericoli, di padroneggiare l'evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità”. (cfr. p.4-5).
E’ da questo momento in poi che l’autore inizia ad individuare quelle costrizioni proprie del discorso: quelle che limitano i poteri, quelle che realizzano una selezione tra i soggetti parlanti ecc.
Queste limitazioni agiscono, però, in contesti diversi come le università, le famiglie, i luoghi di lavoro e di ritrovo e su di essi le istituzioni vigilano in maniera pedante e insistente per evitare che un certo ordine del discorso venga violato.
Infatti le regole del discorso, che possono essere evidenti o meno, non servono solo per comunicare ma anche per limitare, proprio come avviene in una partita di scacchi, dove una mossa realizzata ne esclude immediatamente un’altra.
Questa sorta di “polizia” discorsiva sarebbe alimentata da un senso d’inquietudine rispetto al discorso e su cui, da tempo, si vigila, e, infatti, Foucault sostiene: “E l'istituzione dice: Non devi aver timore di cominciare; siamo tutti qui per mostrarti che il discorso è nell'ordine delle leggi; che da tempo si vigila sulla sua apparizione, che un posto gli è stato fatto, che lo onora ma lo disarma; e che, se gli capita d'avere un qualche potere, lo detiene in grazia nostra, e nostra soltanto”. (cfr, p.4).
Se nella storia, quindi, si procede in maniera costante all’imbrigliamento dei discorsi è perché, proprio nella proliferazione assidua di quest’ultimi, si nasconde un qual cosa di misterioso e minaccioso.
E’ per tutti questi motivi che, nella nostra quotidianità, non si può discutere di tutto in qualsiasi circostanza, e allo stesso tempo non tutti hanno la grande capacità di dire le cose con credibilità ed efficacia, vi sono, infatti, dei rituali di circostanza da rispettare, e vi è un diritto privilegiato o esclusivo di alcuni soggetti a parlare rispetto ad altri.
Per Foucault, quindi, i discorsi sono caratterizzati da procedure di controllo e di esclusione che accerchiano il discorso agendo al suo esterno o al suo interno.
Una fitta rete di limitazioni, infatti, contribuisce a controllare la produzione discorsiva, e permette, anche, di disegnare i caratteri di verità e di falsità propri del discorso.
Possiamo dire, quindi, che questa attenzione nei confronti dei discorsi deriva dal fatto che la comprensione della realtà non può essere ridotta ai meri fattori economici, bensì la realtà e l’organizzazione della nostra società è sostenuta dagli atti linguistici e dai discorsi stessi.
Ne “L’ordine del discorso”, Foucault, individua tre procedure di controllo e di delimitazione del discorso che agiscono a livelli diversi.
Alcune “circondano” il dialogo dall’esterno, altre dall’interno e, altre ancora, riguardano, invece, le condizioni di messa in opera del discorso stesso.
Ciò che, in questa sede, ho deciso di trattare è l’azione interna della “polizia discorsiva” e cioè: commento, autore e discipline.
Secondo Foucault, in questo caso: “sono i discorsi stessi che esercitano il loro proprio controllo; procedure che fungono piuttosto da principi di classificazione, d’ordinamento, di distribuzione, come se si trattasse questa volta di padroneggiare un’altra dimensione del discorso: quella dell’evento (événement) e del caso.” (cfr. p.11).
Vigono, per Foucault, all’interno della società, dei “dislivelli” tra quei discorsi che passano e si dileguano e quelli che, invece, restano proprio come i testi primari, oggetto di commenti che contribuiscono a dare una “sistematina” al testo.
Possiamo, quindi, individuare: quei discorsi che “si dicono” con il passare dei giorni e si sviluppano con le relazioni sociali e che transitano nel momento stesso in cui vengono pronunciati e, quei discorsi che, invece, sono alla base di un numero elevato di atti nuovi che permangono nel tempo, che vengono ripresi e trasformati, quei discorsi, dunque, che al di là della loro formulazione, sono detti e sono ancora da dire.
Il commento, quindi, secondo Foucault, da un lato permette di riaprire il dibattito su un certo testo e di costruire dei discorsi nuovi, ma dall’altra parte: “ il commento ha come unico ruolo, quali che siano le tecniche messe in opera, di dire infine ciò che era articolato laggiù.
Deve, secondo un paradosso che sposta sempre ma cui non fugge mai, dire per la prima volta quel che tuttavia era già stato detto e ripetere instancabilmente ciò che, nondimeno, non era mai stato detto. […].
Il commento scongiura il caso del discorso assegnandogli la sua parte: esso consente certo di dire qual cosa di diverso dal testo stesso, ma a condizione che sia questo testo stesso ad essere detto e in qualche modo compiuto. […]
Il nuovo non è in ciò che è detto, ma nell’evento del suo ritorno.” (cfr, p.13).
L’atro principio di rarefazione del discorso che, a primo acchito, sembra complementare al commento è l’autore: “ considerato, naturalmente, non come l’individuo parlante che ha pronunciato o scritto un testo, ma l’autore come principio di raggruppamento dei discorsi, come unità ed origine dei loro significati, come fulcro della loro coerenza.
Questo principio non opera ovunque, né in modo costante […]. (cfr. p.14).
Analizzando questo passo si può, quindi, dedurre che anche la funzione dell’autore ha conosciuto destini diversi in base ai generi e ai mutamenti della storia.
Vi sono, infatti, campi in cui l’attribuzione del testo all’autore è un regola e questo avviene nel discorso letterario, in quello filosofico e in quello scientifico, anche se è abbastanza palese che questa figura non svolge sempre la stessa funzione.
Nei testi scientifici, infatti, specificare il nome dell’autore è sempre stato necessario, poiché garantiva un indice di verità, nell’ordine del discorso letterario, invece, la funzione dell’autore ha iniziato a rafforzarsi solo dopo il Medioevo.
A partire dal XVII secolo, infatti, si smette di far circolare poemi, drammi o commedie anonime e si inizia a pretendere da essi che indichino la loro provenienza, poiché solo l’autore può garantire una certa unità del testo e, infatti, relativamente a ciò, Foucault scrive: “L’autore è ciò che da all’inquietante linguaggio della finzione le unità, i nodi di coerenza, l’inserzione nel reale” (cfr. p.14)
Quindi, per comprendere meglio queste affermazioni, possiamo sostenere che l’autore si ritaglia un percorso, così come può fare un giornalista o un regista che, dovendo stilare un articolo o girare una scena, inserisce alcune delle diverse possibilità nel reale.
Sostanziale, al fine di una migliore comprensione, è la differenza tra commento e autore di cui parla Foucault: “Il commento limitava il caso del discorso col gioco di un’identità che ha forma dalla ripetizione e dallo stesso. Il principio dell’autore limita questo medesimo caso col gioco d’una identità che ha la forma dell’individualità e dell’io” (cfr. p.15).
Sempre nello stesso gruppo di limitazioni interne al discorso, accanto al commento e all’autore, troviamo le discipline o l’organizzazione dei saperi disciplinari, definite come insieme di campi e metodi che vengono esposti con regole e contenuti ben determinati e i cui risultati, invece, funzionano come principio di controllo della produzione del discorso.
Anche in questo caso si tratta di “un principio relativo e mobile. Principio che consente di costruire, ma secondo un gioco angusto.” (cfr. p.15).
La disciplina, come terzo principio, si oppone sia all’autore che al commento e, soprattutto, “viene definita da un campo di oggetti, da un insieme di metodi, da un corpus di proposizioni considerate come vere […] tutto questo costituisce una sorta di sistema anonimo a disposizione di chi voglia o possa servirsene[…]. in una disciplina a differenza del commento, ciò che si suppone in partenza non è un senso che deve essere riscoperto, né un'identità che deve essere ripetuta; bensì ciò che è richiesto per la costruzione di nuovi enunciati.
Perché ci sia disciplina, occorre dunque che vi sia possibilità di formulare, e di formulare indefinitamente, nuove proposizioni[…]” (cfr. p.15-16).
Anche la disciplina stessa, quindi, implica una cesura e non dice tutto ciò che è vero a proposito di qualcosa, infatti una proposizione, affinché possa appartenere a questa o a quella disciplina, deve sottoporsi a dei principi rigidi e complessi.
La disciplina, inoltre, deve riferirsi a degli oggetti ben determinati, difatti, nell’esempio che Foucault fa nel suo discorso, si sostiene che nel XIX secolo una proposizione non poteva più essere considerata medica se, utilizzata nel discorso popolare, si impregnava di un carattere qualitativo e metaforico.
Descrizioni di una malattia che si avvalgono di espressioni come “liquidi riscaldati” o “solidi disseccati” non sono più accettabili e vanno sostituite con altre metafore come, ad esempio, irritazione e infiammazione.
Certo non è solo una questione di linguaggio scientifico e di pratiche, infatti, per appartenere ad una disciplina, una proposizione deve iscriversi in un certo tipo di orizzonte teorico, “Entro i suoi limiti ogni disciplina riconosce proposizioni vere o false, ma essa respinge ai suoi margini tutta una teratologia del sapere”. (cfr. p.17).
La disciplina,dunque, è un principio di controllo della produzione del discorso; essa gli fissa i limiti col gioco d'una identità che ha la forma di una perenne riattualizzazione delle regole.
Concludo questo mio lavoro sostenendo che autori, commenti e disciplina, hanno un ruolo positivo e moltiplicatore, ma per individuarlo bisogna prendere in considerazione la loro funzione restrittiva e costruttiva.
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