modalità d'esame

per tutti gli studenti che dovranno sostenere l'esame di
Filosofia del Linguaggio mod.B a.a. 2009/2010


si rende noto che

-Il numero di battute dei propri elaborati dovrà essere compreso tra 14000 e 16000

-Bisognerà postare i propri lavori 14 giorni prima dell'appello scelto per sostenere l'esame

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Programma d'esame

cicli: 07 e precedenti
A partire dalla sessione di giugno 2010 il programma d'esame consiste nello studio di:
-M.P. Pozzato, Semiotica del testo, Carocci
-Barthes, Variazioni sulla scrittura-Il piacere del testo, Einaudi
-Foucault, Ordine del discorso
e nella stesura di un elaborato da postare sul blog

martedì 18 maggio 2010

LA MATERIALITA' DEL DISCORSO

di Fabiola Cosenza

Nel seguente elaborato si mettono a confronto le posizioni di quattro diversi filosofi, scelte dalla scrivente, al fine di problematizzare ed esemplificare la tesi che Michel Foucault ha espresso nel suo discorso inaugurale al Collège de France, secondo la quale, dal momento che ci sono delle procedure di controllo sui testi, è evidente che esista un qualche potere della parola che fa della stessa un “oggetto”.
Prima di presentare le diverse tesi, cercherò di mettere in luce come la capacità di produrre linguaggio verbale sia in sé un’azione che “produce” in una qualche forma un oggetto al pari della performance di un ballerino.
La parola detta, oltre a quella scritta, ha una sua materialità e dunque è un qualcosa che crea un fatto. Dal momento che le parole, i testi, i discorsi di cui Foucault parla, non sono altro che degli atti comunicativi, prenderò in considerazione la teoria degli atti linguistici di John Langshaw Austin e l’idea dell’azione umana collegata al discorso di Hannah Arendt, a conferma della tesi del filosofo francese con annessi altri spunti di riflessione. Strettamente legata all’idea del potere delle parole di Foucault è l’idea di linguaggio per Roland Barthes, secondo l’autore infatti, i sistemi ideologici che caratterizzano la sfera sociale non sono altro che materializzazioni del linguaggio medesimo attraverso le parole che creano situazioni oggettivamente tangibili.

Un sentimento di inquietudine accompagna Foucault, facilmente intuibile sin dalle prime battute tenute per la lezione inaugurale del 2 dicembre 1970, al Collège de France:

“inquietudine nei confronti di ciò che il discorso è nella sua materiale realtà di cosa pronunciata o scritta, inquietudine nei confronti di questa esistenza transitoria, destinata magari cancellarsi, ma secondo una durata che non ci appartiene” (Foucault, 1971, p. 4).

Foucault si trova a dover pronunciare il suo discorso su quello che egli stesso definisce “teatro”. Si può subito fare il parallelismo tra chi pronuncia un discorso o, in termini più ampi, tra chi utilizza una lingua e pertanto la utilizza sempre all’interno di una comunità, dinnanzi ad un pubblico e l’artista, (ad esempio un ballerino), che si muove a passi di danza, tradizionalmente su di un palcoscenico, ma sempre dinnanzi ad un uditorio.
In entrambi i casi di attività, quella discorsiva e quella della danza, possiamo parlare di attività che non lasciano dietro di sé un oggetto materiale e finito, ma sono attività che hanno il proprio fine in se stesse. Il “fine” di tali attività coincide con il loro stesso svolgimento e non si depositano in un’opera particolare.
Strettamente legata alla mancanza di un oggetto materiale come prodotto dell’attività sia di un discorso che di una danza, deriva il carattere della performance, ossia, entrambi le azioni in oggetto, esistono solo e soltanto se svolte al cospetto di un pubblico. La mancanza della produzione di un oggetto materiale, fisico finale presuppone che affinché esista l’azione vi sia un pubblico, o una comunità, dinnanzi al quale o all’interno della quale, chi compie l’azione ne possa essere testimone.
Ciò che caratterizza l’esecuzione di una danza da parte di un ballerino, e quindi per analogia, ciò che caratterizza l’esecuzione di un discorso per chi prende la parola, non è altro che:

- lo svolgere una attività che non lascia dietro di sé un’opera e in cui quindi svolgimento e fine coincidono;
- la necessità di svolgere l’attività a cospetto di un pubblico per testimoniare l’esistenza stessa dell’atto[1].

La tesi di Foucault è la seguente:

“...in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità”. (Foucault, 1971, p. 4)

L’autore parla di parole, eppure queste parole sono “oggetti” in un certo senso, non il frutto di un lavoro ma di un’azione. Riusciamo a pensare alle parole come “oggetti materiali” solo nel momento in cui sono scritte, ma ciò è vero anche per le parole dette. La parola detta è qualcosa che crea un fatto.

I testi, i discorsi presi in considerazione da Foucault sono “atti di comunicazione”. È la materialità delle parole, il loro potere all’interno della società che spinge Foucault a fare un’ analisi delle procedure di controllo sociale dei testi. Talune sono specifiche, riguardano la parola, il discorso, sono dovute al timore di ciò che vi è di tagliente nella parola, nella sua capacità di dare origini a situazioni ogni volta diverse, irripetibili, mai eguali.
Colui che produce un testo da seguito ad una serie di effetti e conseguenze molto concrete e materiali, può ad esempio intimidire, sedurre, dare luogo a situazioni che solo attraverso l’uso della parola possono esistere.

A sostegno della tesi secondo cui la parola detta crea una certa situazione e da luogo ad un evento, farò riferimento alla teoria degli “atti linguistici” di John L. Austin. Tale teoria fa di Austin uno dei più fini analisti del linguaggio ordinario. Austin intende gli atti linguistici come l’insieme del linguaggio, quindi tutto il linguaggio verbale umano può essere analizzato come un insieme di atti. Considerato il padre degli enunciati performativi, lo studioso vuole evidenziare attraverso di essi una verità generale di cui i performativi sono il caso più eclatante: tutti gli enunciati sono anche.

“[…]supponete che vi si pesti un piede e vi dica «Mi scuso». Oppure suppone che abbia in mano la bottiglia di champagne e dica «Battezzo questa nave Queen Elizabeth». […] In tutti questi casi sarebbe assurdo considerare ciò che ho detto un resoconto dell’esecuzione dell’azione che indubbiamente è stata fatta – l’azione di […] battezzare, scusarsi. Diremo piuttosto che, nel dire cosa faccio, compio effettivamente l’azione. Quando dico «Chiamo questa nave Queen Elizabeth» non descrivo la cerimonia battesimale, compio effettivamente il battesimo […]. Enunciati di queste specie sono quelli che diciamo performativi.”[2]

Gli enunciati performativi non descrivono l’azione ma la compiono. Sono azioni non solo che eseguiamo, che compiamo, che realizziamo con le parole, ma che non potremmo realizzare altrimenti se non con le parole. Sono azioni che compiamo parlando, si fa qualcosa perché si dicono certe parole. Anche nella teoria di Austin emerge l’aspetto sociale e contestuale dell’azione: gli enunciati performativi realizzano l’azione, e non la descrivono, per il solo fatto di esser detti, a patto però, che ci siano le circostanze appropriate. Per circostanze appropriate si deve intendere il fatto che chi le compie/dice, chi parla/agisce, abbia il ruolo sociale adeguato.
Laddove mancano certe circostanze sociali, laddove non si rispettano certe convenzioni sociali, laddove chi pronuncia il performativo non ha il ruolo per compiere quella determinata azione, l’azione stessa non riesce, siamo in presenza di un performativo infelice. Se ad esempio, una persona non consacrata al ministero del sacerdozio e non rivestendo il ruolo di funzionario del comune, pronuncia la formula “Battezzo questo bambino Antonio”, ecco che l’azione fallisce. Al contrario, se la formula viene pronunciata da un sacerdote o da un funzionario del comune, le parole cambiano una situazione di fatto, creano un evento nuovo che non sarebbe stato possibile creare se non attraverso quelle parole.
Austin utilizza gli enunciati performativi per introdurre una tesi generale sul linguaggio verbale umano, ossia: “il performativo è il punto di lancio per dimostrare che tutto il linguaggio verbale umano è prassi, è azione”.
La teoria generale degli atti linguistici comprende tre grandi gruppi:
- atti locutori, ossia l’azione di dire qualcosa;
- atti illocutori, ossia l’azione compiuta nel dire qualcosa;
- atti perlocutori, ossia l’azione compiuta col dire qualcosa.

Legata all’idea di prassi, e quindi di azione, è il pensiero di Hannah Arendt che sostiene l’inesistenza di una azione umana che non sia legata al discorso.
Nel suo testo “Vita Activa”, l’autrice propone di designare tre fondamentali tipi di attività umane:
- l’attività lavorativa, che corrisponde allo sviluppo biologico del corpo umano ed è quindi correlata alla condizione della vita biologica;
- l’operare, cioè l’attività che dà luogo ad un ambiente artificiale;
- l’azione, che è quell’attività che mette in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali.
Il prodotto dell’agire è una relazionalità, una rete di relazioni che non preesiste all’azione stessa ma che coincide con quest’ultima. È dunque solo con la parola, con il discorso, e quindi con la prassi, che noi ci inseriamo nel mondo.


“…Discorso e azione sono le modalità in cui gli esseri umani appaiono gli uni agli altri non come oggetti fisici, ma in quanto uomini. […]
L’azione senza discorso non sarebbe più azione perché non avrebbe più un attore, e l’attore, colui che compie gli atti, è possibile solo se nello stesso tempo sa pronunciare delle parole. L’azione che egli inizia è rivelata agli altri uomini dalla parola, e anche se il suo gesto può essere percepito nella sua nuda apparenza fisica senza accompagnamento verbale, acquista rilievo solo l’espressione verbale mediante la quale egli identifica se stesso come attore, annunciando ciò che fa, che ha fatto o intende fare.
Nessun’altra attività umana esige il discorso nella stessa misura dell’azione. In tutte le altre attività, il discorso gioca un ruolo subordinato, come mezzo di comunicazione o mero accompagnamento di qualcosa che si potrebbe anche compiere in silenzio. È vero che il discorso è estremamente utile come mezzo di comunicazione e informazione, ma come tale potrebbe essere sostituito da un linguaggio di segni che potrebbe provarsi ancora più utile e conveniente per esprimere certi significanti.”
[3]

Il potere del discorso, secondo la Arendt, sta nel suo potere di cominciare qualcosa di nuovo e questo è, seppur materialmente intangibile, un qualcosa che esiste come se fosse un oggetto materiale che avviene sotto gli occhi di un altro essere parlante, rivelando così, (quindi altro potere insito nel discorso) l’attore dell’azione stessa.
Si ritrova la nozione di attività esemplificata con la performance del danzatore sopra citata. Sebbene non si possa parlare di una reificazione del discorso, notiamo che esso modifica uno spazio che la Arendt chiama l’Infra, ovvero quella sfera pubblica che è data dall’intreccio delle relazioni umane. Ogni volta che si agisce la nostra azione si deposita su questo intreccio preesistente di relazioni umane e sarà essa stessa modificata ulteriormente dalle azioni degli altri.
Due rilevanti azioni compiute nella sfera pubblica, interamente linguistiche e nelle quali si può leggere in maniera più chiara la materialità dei discorsi umani sono il perdono e la promessa. Le comunità politiche si reggono su questi due tipi di azioni che non potrebbero essere svolte diversamente se non attraverso l’uso del linguaggio. Il perdono, un requisito dell’azione, rende reversibile ciò che è stato, si può paragonare in un certo qual modo all’antidoto dell’azione che ha come suo punto debole, e quindi veleno, proprio il fatto di non essere reversibile. Il perdono modifica una situazione di fatto già avvenuta. Attraverso la promessa si riesce a rendere meno incerto quel che sarà, si relaziona quindi ad un tempo futuro. Anche in questo caso si può pensare alla promessa come una sorta di antidoto contro un altro punto debole dell’azione che è l’imprevedibilità.

"I sistemi ideologici sono delle finzioni […], dei romanzi […].Ogni finzione è sorretta da una parola sociale, un socioletto, con cui si identifica: la finzione è quel grado di consistenza a cui arriva un linguaggio quando ha fatto eccezionalmente presa e trova una classe sacerdotale (preti, intellettuali, artisti) per parlarlo comunemente e diffonderlo".[4]

I sistemi ideologici esistono perché si concretizzano, arrivano ad assumere un certo grado di materialità attraverso il linguaggio. Ed è attraverso il linguaggio che si può attribuire un certo grado di importanza a determinate istituzioni, anzi, è l’essenza stessa del loro esistere.
Barthes attribuisce alle parole una tangibilità talmente forte e persistente che è proprio dalla lotta tra ideologie che altro non sono se non parole. La parola che riesce a prevale sull’altra evidenziando un potere maggiore rispetto alle parole concorrenti, è quella che domina nella vita sociale. La materialità del linguaggio per Barthes è da rintracciare nella vita d’insieme degli uomini ed è questa la dimensione di tangibilità che crea. Proprio perché non si tratta di entità intangibili, ma come già espresso da Foucault, ci troviamo davanti a qualcosa dotata di una sua oggettività osservabile all’interno della società per ciò che crea, è dotata di potere. Barthes scrive ancora, «il testo è il linguaggio senza il suo immaginario» di conseguenza il testo stesso non può che essere considerato un oggetto, di piacere o di godimento, che sottrae alla sfera più ampia del linguaggio in generale. Il linguaggio, così come il testo, produce sempre qualcosa. Se il linguaggio caratterizza la società e la determina, il testo ha un carattere asociale, produce piacere o godimento che è tale però solo per colui che lo legge ed è in questa caratteristica che si può ritrovare l’elemento materiale.
Se Foucault con il termine testo e discorso intende l’enunciato linguistico, il testo di Barthes si riferisce esclusivamente al testo scritto, ed è quindi considerabile in se stesso come materialità. La scrittura è infatti il mezzo attraverso cui il linguaggio può far godere il lettore. Sarebbe tuttavia un errore considerare un testo materiale solo per questa ragione, la sua materialità sta proprio nell’effetto di godimento e di piacere che questo crea nel lettore.

In conclusione, ciò che accomuna la riflessione di questi autori è il fatto di non considerare il linguaggio e le parole come elementi neutri: essi si muovono sempre all’interno di uno spazio, danno sempre origine a qualcosa che, seppur non sempre percepibile a livello sensoriale, determina e domina la vita sociale. E’ il potere delle parole che muove le folle facendo loro compiere azioni positive o negative e che determinano la stessa realtà sociale, per tale ragione bisogna


[1] Virno, Paolo, Grammatica della moltitudine, DeriveApprodi, 2002.

[2] Austin, John L., Saggi Filosofici, tr. italiana di Guerini e associati, Milano, 1990.
[3] Arendt, Hannah, The Human Condition, 1958, tr. Sergio Finzi, Vita activa, introduzione di Alessandro Dal Lago, Bompiani, Milano, 1964 pp. 128-130.
[4] Barthes, Roland, Le plasir du texte, 1973.

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