modalità d'esame

per tutti gli studenti che dovranno sostenere l'esame di
Filosofia del Linguaggio mod.B a.a. 2009/2010


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-Il numero di battute dei propri elaborati dovrà essere compreso tra 14000 e 16000

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Programma d'esame

cicli: 07 e precedenti
A partire dalla sessione di giugno 2010 il programma d'esame consiste nello studio di:
-M.P. Pozzato, Semiotica del testo, Carocci
-Barthes, Variazioni sulla scrittura-Il piacere del testo, Einaudi
-Foucault, Ordine del discorso
e nella stesura di un elaborato da postare sul blog

lunedì 5 luglio 2010

POTERE DEL DISCORSO, POTERE SUL DISCORSO

Di Alberto Marino

Partendo dal discorso della lezione inaugurale di Foucault al College de France, tenterò di mettere in luce il “potere” del discorso in quanto prassi, facendo riferimento anche ad altri filosofi che hanno trattato l’argomento. Inoltre analizzerò come, secondo Foucault, nella nostra società vi sono “poteri” di controllo e selezione per padroneggiare il discorso in quanto evento materiale.

Ne “L’ordine del discorso” Foucault inizia il discorso mettendo in luce la sua inquietudine nel prendere la parola, nell’essere il primo a trattare questo argomento. Spiega come questa inquietudine nasca dal fatto che il discorso è una realtà materiale, un’esperienza transitoria che potrà o svanire nel nulla ed essere dimenticata o creare una moltitudine di conseguenze. Egli stesso paragona la sua situazione ad una performance teatrale: un’attività fine a se stessa, un evento al cospetto del pubblico. Questa comparazione con la performance teatrale ricorda l’artista esecutore di cui parla Hannah Arendt. L’artista esecutore compie un’attività che non lascia dietro di sé un’opera o un oggetto finito, ma che è fine a se stessa. Inoltre la sua performance esiste solo se vi è un pubblico ad assistere. La Arendt, in “Vita Activa”, distingue le tre attività che caratterizzano la vita umana: lavoro, opera e azione. Se le prime due sono legate alla produzione di qualcosa, l’agire è la sola attività che metta in rapporto diretto i soggetti linguistici e che non necessita di oggetti materiali. L’azione è un’attività senza opera e la condizione umana ad essa legata è la pluralità.
L’azione, tipicamente, dà luogo a qualcosa di nuovo o imprevisto. Ogni azione è un nuovo inizio: ha un inizio predeterminato, ma un fine imprevedibile. La nostra azione si mescola alle azioni degli altri e nasce una catena di conseguenze che non può essere controllata (forse per questo motivo Foucault aveva timore di parlare di qualcosa che poteva creare conseguenze del tutto impreviste). Dunque la prassi, per la Arendt, ha bisogno di una pluralità di esseri unici e l’unica cosa che crea è uno spazio relazionale, l’infra, che è immateriale. L’autrice continua affermando che il discorso rappresenta l’aspetto linguistico dell’azione e permette all’aspetto operativo della prassi di rivelarsi attraverso il linguaggio. Questi aspetti messi in luce dalla Arendt sono presenti anche nell’enunciazione di Benveniste e negli enunciati performativi di Austin.
Benveniste parla di Situazione di disocorso o enunciazione: il momento in cui la langue come potenza si trasforma in atto attraverso l’atto di parole (L’azione del prendere la parola). Il filosofo mette in luce come vi sono elementi linguistici che hanno senso e si riferiscono soltanto alla presa di parola: ad esempio i pronomi personali IO-TU, che si riferiscono alla persona che in quel momento ha rotto il silenzio prendendo la parola e all’ascoltatore. Elementi che non hanno alcun riferimento extralinguistico. Oltre ai pronomi personali, anche tutti i deittici dei nostri discorsi dipendono dall’enunciazione: qui, ora, questo, ecc. Dunque è sempre presente un’azione: quella di enunciare attraverso i deittici che ci permettono di indicare la nostra presa di parola. Secondo Benveniste il linguaggio non è uno strumento di comunicazione, ma garantisce la stessa perché ne determina la soggettività : la capacità del parlante di porsi come io, di dichiararsi autore della frase. Egli parla anche di enunciati esecutivi: non descrivono l’azione, ma la compiono. Si crea l’evento soltanto attraverso le parole, attraverso l’enunciazione. Gli enunciati esecutivi di Benveniste richiamano inevitabilmente gli enunciati performativi di Austin. La parola performativi deriva dal termine inglese perform. Infatti essi sono enunciati che non descrivono una situazione o ci dicono se l’asserzione sia vera o falsa. Attraverso essi si compie l’azione. “Prendo questa donna come mia legittima sposa”è un esempio di enunciato performativo. Se esistono le circostanza appropriate questa frase è un vero e proprio impegno, è una vera e propria azione.
Del carattere attivo del linguaggio si occupa anche Malinowski parlando di Comunicazione Fatica. Egli afferma che vi sono delle occasioni in cui non è importante ciò che si dice, ma le parole riescono a creare una socialità che prima non c’era. La comunicazione fatica permette di rompere il silenzio e di mettersi in contatto con l’altro. Anche qui il linguaggio non ha un fine fuori di sé, crea soltanto uno spazio di socialità che prima non esisteva.
A sostenere la forza del linguaggio in quanto prassi è anche Wittgenstein che, attraverso un semplice esempio, distingue la prassi dalla produzione. Egli paragona il produrre al cucinare. Per cucinare seguiamo regole definite dallo scopo che dobbiamo raggiungere, la pietanza da preparare. Alla fine abbiamo un’opera, cosa che non succede nell’agire. L’esempio eclatante dell’agire per Wittgenstein è proprio il linguaggio, che è caratterizzato dall’arbitrarietà. Chi non segue le regole del cucinare, non otterrà ciò che desiderava. Chi, invece, non segue le regole grammaticali dirà soltanto qualcosa in modo diverso, poiché il linguaggio non ha nessun scopo esterno che impone determinate regole.
Per comprendere meglio come il linguaggio abbia il potere di compiere un’azione, come non descriva l’evento, ma rappresenti l’evento stesso, voglio far riferimento, attraverso due teorici, a un tipo di discorso frequente nella nostra società: il discorso politico.
<< E’ il linguaggio politico sugli eventi politici, piuttosto che gli eventi stessi […]ciò di cui il pubblico fa esperienza: anche gli avvenimenti più prossimi derivano il proprio significato dal linguaggio che li descrive. Per queste ragioni il linguaggio politico è la realtà politica.>> (M. Edelman, 1992, p.98)
<< […]Il linguaggio della politica è il linguaggio del potere; è il linguaggio della decisione. Esso registra e modifica le decisioni: è il grido di battaglia, verdetto e sentenza, statuto, ordinanza e norma, giuramento solenne, notizia controversa, commento e dibattito. >> (Lasswell)
Dalle loro parole è chiaro come i discorsi dei politici non vadano a descrivere nulla, ma sono puramente eventi: ordini, promesse, giuramenti, ecc. Anche Foucault afferma che il discorso non è ciò che traduce le lotte di sistemi di dominazione, ma è il mezzo attraverso il quale si lotta e si cerca di impadronirsi del potere.
Dopo aver messo in luce il forte potere del discorso, ora possiamo comprendere il perché dell’inquietudine di Foucault rispetto al suo discorso inaugurale. A prescindere da questa esitazione iniziale, poi l’autore si concentra sui pericoli dei discorsi: <<[…]suppongo che in ogni società la produzione del linguaggio è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità>> (Foucault, 1971, p. 5). Dalle sue parole si comprende come la materialità del discorso sia tanto pericolosa per chi gestisce il potere da essere sottoposta a controlli e selezioni. Le procedure di controllo vengono suddivise in tre gruppi:
1. Procedure di ESCLUSIONE: la più evidente è quella dell’interdetto. Come sappiamo nella nostra società non si ha il diritto di dire tutto. Non si può parlare di qualsiasi cosa. Infatti le regioni in cui l’interdetto ha più forza sono la sessualità e la politica, considerate come pericolose all’interno di un discorso.
Altro principio di esclusione è la partizione tra ragione e follia. Dal Medioevo il discorso del folle non può circolare come quello degli altri: la sua parola è considerata senza significato e senza effetto. Capita anche, però, che gli si attribuiscono strani poteri, come quello di dire verità nascoste, di annunciare l’avvenire. Dunque la sua parola o non viene presa in considerazione, o viene ascoltata come parola di verità. Si crede che oggi questa partizione sia finita, ma secondo Foucault questa partizione esiste ancora attraverso le istituzioni (medici, psicoanalisti, ecc.) che si occupano dei folli.
Il terzo tipo di procedura di esclusione è la volontà di verità. La partizione creata dalla volontà di verità esiste fin dalla Grecia del VI secolo: il discorso vero, all’epoca, era quello pronunciato da chi di diritto, da chi si occupava di giustizia e attribuiva a ciascuno la sua parte. Era il discorso di chi regnava e cui tutti dovevano sottomettersi. Ma già un secolo dopo la più alta verità non risiedeva in quel che il discorso era o faceva, bensì in quel che diceva, cioè l’enunciato stesso. Le mutazioni scientifiche avvenute nel corso dei secoli possono essere lette come l’apparizione di nuove forme di volontà di verità. Dunque è la volontà di sapere che muta e che influenza i discorsi.
Le procedure di controllo o esclusione, analizzate fino ad ora, si esercitano dall’esterno e si riferiscono alla parte del discorso che mette in gioco il potere e il desiderio.
2. Procedure di LIMITAZIONE: questo gruppo è costituito da procedure interne, cioè esercitate dal discorso stesso per classificare, ordinare, padroneggiare la dimensione del discorso come evento. Un primo tipo di procedura messa in luce da Foucault è il commento. Tutte le narrazioni si raccontano più volte, si ripetono e dunque i discorsi vengono modificati con il passare del tempo. Una sola e stessa opera può dar luogo a tipi di discorso diversi. Il commento, quindi, crea una sfasatura tra il testo originale e quello ripetuto. Da una parte esso consente la costruzione di nuovi discorsi, dall’altra ha il ruolo di dire ciò che era stato silenziosamente già detto.
Un secondo tipo di procedura di limitazione è l’autore. Foucault per autore non intende l’individuo parlante che ha scritto o pronunciato il testo, ma un principio di raggruppamento dei discorsi. Esistono discorsi che circolano senza essere attribuiti a nessun autore: parole quotidiane, decreti, e tutto ciò che si trasmette nell’anonimato. L’autore è ciò che dà all’inquietante linguaggio della finzione unità, ordine, inserzione reale. L’individuo che si mette a scrivere un testo riprende sempre questa funzione dell’autore.
Il terzo tipo di procedure appartenente a questo gruppo sono le discipline. La loro organizzazione si oppone sia al principio dell’autore che a quello del commento. Al primo perché una disciplina viene definita da un campo di oggetti, metodi, tecniche e strumenti che costruiscono un sistema anonimo, non legato ad un’individualità. Si oppone anche al commento perché ciò che si suppone in partenza non è un senso che deve essere riscoperto, ma la costruzione di nuovi enunciati.
La disciplina, nonostante ciò, rappresenta un principio di limitazione perché è la somma di tutto ciò che può essere vero a proposito di qualcosa. Però prendendo il caso della medicina, non è costituita dal totale di ciò che si può dire di vero sulla malattia, poiché le discipline sono caratterizzate da errori come da verità. Inoltre affinché una proposizione possa appartenere a una disciplina deve rispondere a dei requisiti: un piano di oggetti determinati, l’uso di strumenti concettuali o tecnici ben definiti e l’iscrizione ad un orizzonte teorico.
3. Un terzo gruppo di procedure di controllo colpisce le condizioni di messa in opera dei discorsi e quindi limita l’individui che vogliono tenerli (i soggetti parlanti). Un primo esempio è il rituale che definisce la qualificazione che deve possedere l’individuo parlante e i gesti e i comportamenti che deve attuare. Esso fissa l’efficacia delle parole, il loro effetto. Un esempio di rituale è il discorso religioso. Il secondo esempio che mette in luce Foucault sono le Società di Discorso, le quali hanno la funzione di conservare e proteggere i discorsi per farli circolare in spazi chiusi e distribuirli secondo regole specifiche. Altro esempio sono le dottrine che, al contrario delle società di discorso, tendono a diffondersi grazie al desiderio di reciproca appartenenza che accomuna i credenti di una determinata dottrina. La condizione richiesta è il riconoscimento delle stesse verità e l’accettazione di regole prestabilite. Infine abbiamo l’appropriazione sociale dei discorsi. L’educazione permette ad ogni individuo di accedere a qualsiasi tipo di discorso, ma allo stesso tempo distribuisce e alimenta le distanze tra classi sociali. Ogni sistema di educazione è un modo politico di mantenere o modificare l’appropriazione dei discorsi con i saperi e i poteri che essi comportano.
Foucault parla anche di elisione della realtà del discorso attraverso:
- IL SOGGETTO FONDATORE: colui che anima le forme vuote della lingua, che fonda orizzonti di significati che la storia non dovrà più spiegare e che saranno presi come fondamenti teorici.
- L’ESPERIENZA ORIGINARIA: il discorso esiste già nel mondo come esperienza originaria, ma è reso tale grazie al linguaggio.
- LA MEDIAZIONE UNIVERSALE: sembra che il discorso stesso sia il centro dell’attenzione, ma esso non è altro che un discorso già tenuto, o meglio rappresenta le cose stesse e gli eventi che si fanno discorso. Ecco che anche in Foucault viene ripreso il concetto di discorso come evento, come azione.
Partendo da questi elementi, l’autore si pone davanti a sé tre obiettivi: rimettere in questione la nostra volontà di verità, restituire al discorso il suo carattere di evento e togliere via la sovranità del significante.

Concludendo, in questo elaborato ho cercato di analizzare il “potere del discorso” e i “poteri” di controllo su di esso partendo dall’idea di Foucault.
Il potere del discorso è stato messo in luce dalla sua forza di creare una realtà intersoggettiva, nella quale il nostro discorso influenza le concezioni degli altri ed è inevitabilmente influenzato da ciò che ci ha preceduto. Il suo potere è talmente grande che nella società si sono creati strumenti di controllo (poteri sul discorso) per lenirlo, indebolirlo. Essi sono stati presentati attraverso il riferimento a “L’ordine del discorso” di Foucault.

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